Grecia

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Putto a cavallo di un delfino. Reperto rinvenuto nel Parco archeologico di Paestum. I delfini erano animali sacri a Poseidone

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Putto a cavallo di un delfino. Reperto rinvenuto nel Parco archeologico di Paestum. I delfini erano animali sacri a Poseidone

Foto: Parco Archeologico di Paestum e Velia

Testa di toro rinvenuta in quello che sembra essere l'antico tempio di Poseidone a Paestum

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Testa di toro rinvenuta in quello che sembra essere l'antico tempio di Poseidone a Paestum

Foto: Parco Archeologico di Paestum e Velia

Fregio del tempio probabilmente appartenuto a Poseidone recentemente scoperto a Paestum

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Fregio del tempio probabilmente appartenuto a Poseidone recentemente scoperto a Paestum

Foto: Parco Archeologico di Paestum e Velia

Al centro dell’incisione, pubblicata nel 1876, appare il personaggio che guidò la folla: è Pietro, che secondo le fonti era un lettore o addirittura un magistrato

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Ipazia di Alessandria

È la prima matematica e astronoma della storia il cui lavoro sia stato documentato. A 1.600 anni dalla sua nascita - avvenuta intorno al 370 d.C. ad Alessandria d'Egitto - il suo contributo alla scienza è ancora straordinario. Grazie ai suoi scritti diversi trattati di matematica dell'antichità sono giunti fino ai giorni nostri. Tra questi, l'edizione degli Elementi di geometria euclidea ancora oggi in uso. Scrisse anche sull'Aritmetica di Diofanto, noto come padre dell'algebra, su un Canone di astronomia e sulla revisione delle Tavole astronomiche di Claudio Tolomeo, solo per citarne alcuni. Secondo il filosofo Sinesio di Cirene, migliorò l'astrolabio (uno strumento utilizzato per determinare la posizione delle stelle) e inventò l'idrometro e l'idroscopio. Le vengono attribuite anche l'invenzione del densiometro, dell'aerometro e di un apparecchio per distillare l'acqua. Grande oratrice, insegnò matematica a studenti pagani e cristiani. Nonostante la sua tolleranza, fu accusata di blasfemia e anticristianesimo dal vescovo Cirillo e venne brutalmente assassinata da una folla inferocita.

Foto: Akg / Album

Skyphos

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Skyphos

È un altro dei vasi usati per bere durante i banchetti. Si tratta di una coppa profonda, di grande capacità, con due anse sui lati. Skyphos con una giovane in altalena spinta da un sileno. IV secolo a.C. Musei statali, Berlino

 

 

Foto: Bpk / Scala, Firenze

Kylix laconica a figure nere con Prometeo e Atlante. Attribuita al Pittore di Arkesilas. 550-560 a.C. circa

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Kylix laconica a figure nere con Prometeo e Atlante. Attribuita al Pittore di Arkesilas. 550-560 a.C. circa

Era uno dei tipi di coppa usata per bere la miscela di acqua e vino. È larga e poco profonda, con piede alto e due grandi anse laterali. Kylix con un uomo che tiene in equilibrio una kylix. VI secolo  a.C. Allen Memorial Art Museum, Ohio

 

 

Foto: Bridgeman / ACI

Olpe

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Olpe

È molto simile all’oinochoe, ma a imboccatura circolare. Si usava sia per contenere il vino, sia per servire il vino con l’acqua nei vasi. Olpe con figura di un cacciatore con due prede accompagnato dal cane. VI secolo a.C. British Museum

 

 

Foto: British Museum / Scala, Firenze

Psykter

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Psykter

Si riconosce dal corpo bulboso su una base alta e stretta. Serviva per raffreddare il vino con acqua fredda e talvolta con ghiaccio. Psykter su cui sono raffigurati satiri che bevono vino dalle anfore. British Museum

 

Foto: British Museum, Scala / Firenze

Hydria

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Hydria

Era un vaso in ceramica usato per trasportare e immagazzinare l’acqua. Aveva tre anse, due ai lati e una centrale per versare l’acqua. Quella dell'immagine è decorata con una scena di donne che vanno a prendere acqua. VI secolo a.C. Museo di Villa Giulia, Roma

Foto: Dea / Scala, Firenze

Cratere

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Cratere

Era un grande recipiente nel quale si mescolavano l’acqua e il vino. Ne esistevano quattro tipi: a volute, a calice, a campana e a colonnette. Nell'immagine, cratere a volute con scena di attori
e musici. V secolo a.C. Museo Archeologico nazionale, Napoli

 

 

Foto: Bridgeman / ACI

La fine di Ettore

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La fine di Ettore

Dopo averlo ucciso, Achille disse: «Giovani achei, intonando un inno di vittoria, ritorniamo alle vuote navi e trasportiamolo [il cadavere di Ettore]. Abbiamo ucciso il divino Ettore, che i troiani in città invocavano come un dio». Achille immaginò come umiliare il nemico morto. «De’ piè gli fora i nervi dal calcagno al tallone, e nei buchi fatti vi inserì cinghie di bovino, che legò alla cassa del carro». Dopo si mise in marcia: «Un gran polverone si alzò dal cadavere trascinato; i capelli scuri si diffondevano, e la testa intera, un tempo affascinante, giaceva nella polvere». 
Iliade, Canto XXII

Foto: Bridgeman / ACI

La lotta per il corpo di Patroclo

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La lotta per il corpo di Patroclo

Gli achei recuperarono da terra tra le braccia il cadavere e lo sollevarono con vigore a una grande altezza; alle loro spalle scoppiò a gridare la truppa troiana, poiché i troiani volevano il corpo di Patroclo come bottino, e «avanzarono ritti, di cani a simiglianza  che precorrendo i cacciator s’avventano a ferito cinghial, desiderosi di farlo a brandelli». I troiani braccavanoi greci «in massa e senza pausa, agitando le loro spade e picche». Ma ogni volta che si giravano gli Aiaci (il figlio di Telamone e il figlio di Oileo) «il viso, di color cangiava l’inseguente caterva, e non ardía niun farsi avanti, e disputar l’estinto».
Iliade, Canto XVII

 

 

Foto: Oronoz / Album

Lotta tra Ettore e Aiace

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Lotta tra Ettore e Aiace

«Contro Aiace, che voltagli la fronte, scagliò Ettore la lancia, e lo colpì ove del brando e dello scudo il doppio balteo sul petto si distende». Però in quel momento, «il gran Aiace Telamonide», afferrò un sasso tra i molti che i greci utilizzavano per bloccare le navi arenate sulla spiaggia, lo lanciò contro Ettore e lo colpì «al torace, vicino al collo, sull’orlo dello scudo. Il colpo lo fece stramazzare come una trottola, facendolo girare da tutte le parti», e «i suoi compagni, trascinandolo sulle spalle», lo portarono fuori dalla lotte e lo condussero a Troia «tra profondi sospiri».
Iliade, Canto XIV

 

Foto: BRIDGEMAN / ACI

Duello tra Paride e Menelao

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Duello tra Paride e Menelao

Paride gettò la sua lancia, «che una lunga ombra proietta», e colpì lo scudo di Menelao. Allora questi «gettò la picca, e colpì» Paride. La lancia strappò la tunica del troiano, «però deviò e schivò la Parca negra», ovvero la morte. Menelao «sguainò la spada, adornata con chiodi d’argento, e brandendola penetrò la cresta dell’elmo» di Paride. Successivamente «Lo agguantò per il casco dalle folte criniere e lo girò e lo spingeva verso gli achei […] e avrebbe raggiunto una gloria indicibile se non l’avesse notato la prontezza di Afrodite», la dea che proteggeva i troiani, che tirò fuori magicamente Paride dal duello. 
Iliade, Canto III

Foto: Bridgeman / ACI

Eroi che tornano dall'Ade

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Eroi che tornano dall'Ade

Sono diversi i miti che parlano degli impavidi eroi che riuscirono a penetrare nell’Ade, che fosse per un mandato, per amore o per compiere una missione speciale. Odisseo entrò in contatto con il regno delle tenebre per consultare l’anima dell’indovino Tiresia e cercare la strada di ritorno in patria. Anche il grande eroe della letteratura latina, Enea, scese negli inferi durante il suo viaggio. Dal canto suo Eracle visitò l’Ade per portare a termine diverse missioni, la più celebre delle quali era la cattura di Cerbero, il lugubre guardiano dell’inferno, imposta all’eroe come undicesima fatica dal re Euristeo e narrata da Omero nell’Iliade; lo stesso Ade cercò di impedire l’accesso all’eroe, ma fu ferito a una spalla e dovette essere  portato sull’Olimpo per curarsi. 

Alcuni viaggi all’inferno avevano come scopo il riscatto di un condannato. Per esempio, Eracle riuscì a salvare dall’Ade la principessa Alcesti, che si era prestata a morire al posto del marito, Admeto. Teseo e Piritoo, dal canto loro, penetrarono nell’aldilà con l’intenzione di rapire Persefone, ma vennero fatti prigionieri ed Eracle dovette accorrere a liberarli. 

Figlio della musa Calliope, Orfeo si addentrò nell’Ade alla ricerca della sua sposa Euridice, morta per il morso di un serpente. Commosse dal canto addolorato del marito, le divinità infernali permisero a Euridice di ritornare in vita, ma a una condizione: che durante il ritorno Orfeo non si voltasse mai indietro per guardarla. Nel suo dipinto, Jean-Baptiste Corot raffigura la coppia che ha attraversato il fiume Stige ed è sul punto di uscire dagli inferi, ma Orfeo non potrà evitare di voltarsi verso la sua amata, e in questo modo la perderà per sempre. 1861. Museo di Belle Arti, Houston.

Foto: Bridgeman / Aci

Castighi eterni esemplari

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Castighi eterni esemplari

Tra il 1548 e il 1549 Tiziano raffigurò nel dipinto a destra il terribile castigo
cui fu condannato lo scaltro Sisifo, che aveva osato ingannare addirittura il dio infernale. Fu condannato a spingere un enorme masso fino alla cima di una collina, solo per vederla cadere
e dover così ricominciare daccapo. L'opera, nell'immagine a sinistra, si trova presso il Museo del Prado, a Madrid.

Fu invece Jules-Élie Delaunay a ritrarre l'eternità di Issione. Già macchiatosi dell'omicidio di suo suocero il re Deioneo, Issione, re dei lapiti, era stato perdonato da Zeus quando si invaghì di Era, la moglie del padre degli dei. Questi, furioso, punì il colpevole legandolo a una ruota di fuoco che girava senza posa e lo gettò nel Tartaro, assieme ai grandi criminali. Il dipinto, che risale al 1876, è attualmente conservato presso il Museo di Belle Arti di Nantes.

Foto: Sisifo: Album / Issione: Bridgeman / Aci

Il Tartaro, dove soffrono i dannati

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Il Tartaro, dove soffrono i dannati

La Teogonia del greco Esiodo descrive il Tartaro come una divinità astratta del principio dei tempi, forse erede del caos primordiale. Fonti successive videro il Tartaro come un abisso senza fine situato esattamente al di sotto degli inferi.

Secondo il mito, quando Crono salì al trono dell’universo dopo aver rovesciato suo padre Urano, gettò nel Tartaro i figli di quest’ultimo, i Ciclopi e gli Ecatonchiri (giganti rispettivamente con un solo occhio e con cento mani). In seguito, Zeus, figlio di Crono, li salvò da questo esilio odioso affinché combattessero al suo fianco contro i Titani, che sostenevano suo padre Crono, e ottenere così la corona universale. Quando gli Olimpici trionfarono, gettarono i Titani incatenati nel cupo abisso del Tartaro e incaricarono gli Ecatonchiri  di fare da carcerieri. Dopo aver sconfitto il mostro Tifone, Zeus confinò anch’esso nel Tartaro. 

Autori successivi videro il Tartaro come un luogo di tormento nell’aldilà, simile all’inferno cristiano. Per Platone, quello era il luogo in cui le anime venivano giudicate dai tre giudici dell’oltretomba e ricevevano il loro castigo. Questo era spesso terribile, come nel caso di Tantalo, assassino del proprio figlio: aveva eternamente fame e sete e, sebbene fosse immerso nell’acqua fino al collo, questa si ritirava quando cercava di bere, mentre sopra la sua testa pendeva un ramo carico di frutti che si allontanava quando cercava di mangiare.

Nell’Eneide, Era scende nell’oltretomba per sollevare le Erinni contro il troiano Enea, poiché la dea è nemica del suo popolo. Jan Brueghel il Vecchio rappresenta la discesa di Era agli inferi in questo dipinto, in cui spicca l’ambiente lugubre e terrificante del luogo, affollato di anime in pena. 1592. Pinacoteca di Dresda.

Foto: Bridgeman / Aci

Le terribili divinità infernali

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Le terribili divinità infernali

I greci concepivano il regno dell’Ade come un luogo oscuro e tenebroso; non per nulla il termine stesso Ade significava originariamente “invisibile”. Il suo sovrano era il dio omonimo, Ade, che dopo la vittoria degli dei dell’Olimpo sui Titani si spartì il dominio del mondo con i suoi due fratelli: Zeus, che ebbe il cielo, e Poseidone, cui toccò il mare. Ade era il re assoluto dell’oltretomba. Non conosce la giustizia di Zeus, ma regna in maniera dispotica sugli inferi accanto alla sua sposa Persefone, anch’essa dal cuore di pietra, che egli rapì dopo essere rimasto affascinato dalla sua bellezza. La giovane era la figlia della dea dell’agricoltura, Demetra, sorella del monarca infernale.

Per portare a compimento il suo piano, Ade uscì dall’inferno su un carro trainato da quattro destrieri neri come la notte. Davanti alle proteste di Demetra, Zeus dispose che ogni anno Persefone tornasse per alcuni mesi sulla terra per consolare la madre, dispensatrice di cereali. Questo viaggio di andata e ritorno nell’aldilà simboleggiava, nella mitologia greca,  i misteri della morte e della resurrezione della Natura. 

Nell’Ade dimoravano anche le Erinni, Aletto, Tisifone e Megera, che perseguitavano in modo particolare coloro che avevano commesso crimini di sangue contro la propria famiglia. Erano note anche come Eumenidi, “benevole”, un eufemismo per evitare di pronunciare il nome di queste creature orrende. Come divinità infernali, le Erinni punivano le anime malvagie nell’aldilà. Abitavano nell’Erebo, il luogo più cupo degli inferi, ed erano divinità violente nate dal sangue di Urano. 

Nel dipinto di Arnold Böcklin, le tre terribili creature sono appostate vicino a qualcuno che ha appena commesso un crimine. La loro intenzione è quella di tormentare il reo fino a quando non troverà qualcuno in grado di purificarlo per l’atto commesso. 1870. Schack Galerie, Monaco.

Foto: Bpk / Scala, Firenze

Il giudizio finale

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Il giudizio finale

Una volta giunte nell’Ade, le anime dovevano presentarsi davanti ai tre giudici dell’oltretomba, tutti figli di Zeus: Eaco, Minosse e Radamante. Il giudizio dell’anima inviava ciascuna al proprio destino. Il re cretese Minosse presiedeva il tribunale in qualità di famoso legislatore che promulgò leggi ispirate dalla divinità. La sua giustizia è proverbiale, come la durezza del fratello Radamante. Più dolce e compassionevole era Eaco, considerato il più pietoso. In caso di dubbio tra condanna e assoluzione, però, decideva Minosse. Secondo una leggenda successiva Radamante giudicava le anime dei barbari ed Eaco quelle dei greci, mentre a Minosse spettava il privilegio di pronunciare il voto decisivo.

Nel XIX secolo, Gustave Doré realizzò questo inquietante dipinto in cui compaiono i tre grandi giudici dell’oltretomba: Minosse, Radamante ed Eaco, assisi in trono e pronti a giudicare la miriade di anime ammassate timorose e disperate ai loro piedi. Museo
di Belle Arti, La Rochelle.

 

Foto: Bridgeman / Aci

L'arrivo all'inferno

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L'arrivo all'inferno

Dalla tomba, le anime dei defunti peregrinavano fino alla porta dell’aldilà, situata in una laguna, in una grotta o in una fenditura del terreno. Erano guidate dal dio Ermes, che svolgeva la sua funzione di psychopompos, o “conduttore delle anime”, e che, come dio della soglia, non poteva oltrepassare la porta del regno infernale. 

Le anime dovevano poi attraversare il fiume Stige sulla barca guidata dal traghettatore vestito di stracci Caronte, cui dovevano pagare un obolo. Qualcuno si sottrasse a questo infausto pagamento, come Eracle, che quando scese negli inferi obbligò Caronte a trasportarlo a forza di colpi. 

Nell'immagine, La barca di Caronte, dipinto di José Benlliure del XX secolo. L'autore rappresenta il traghettatore come un vecchio scheletrico, con barba grigia e irsuta, mentre impugna egli stesso il remo; nel mito erano invece le anime a occuparsi di spingere la barca.

Foto: Museo san Pio V, Valencia / Bridgeman / Aci

La morte nel mondo greco

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La morte nel mondo greco

Nel pensiero dell’antica Grecia, la morte era incarnata da diverse divinità. Una era Ade, dio del quale non si poteva pronunciare il nome, ragione per cui gli venivano dati parecchi nomi eufemistici, come “il ricco”. Thanatos (parola che in greco significa esattamente “morte”) incarnava la morte non violenta. Era fratello di Hypnos, il sonno, e simboleggiava l’addormentamento definitivo che porta alla morte. Le Keres erano geni diabolici che in Omero incarnano la morte violenta, soprattutto in combattimento. Esistevano anche le Moire o Parche, le tre donne di origine divina che stabilivano il destino: il loro compito era quello di tessere, filare e tagliare il filo della vita degli uomini. Mentre Cloto si occupava di filare e Lachesi stabiliva la lunghezza del filo destinato a ogni uomo, Atropo era colei che causava la morte tagliando il filo della vita. Insieme, forgiano il destino degli umani, che neppure gli dei possono cambiare. Nelle sepolture greche, infine, si depositava accanto al defunto una moneta (normalmente un obolo) per il traghettatore Caronte, che portava le anime nell’altro mondo. Nel caso degli iniziati, essi portavano con sé ossa o lamine d’oro con i contrassegni per la vita nell’aldilà.

Nella foto, un dipinto del XVI secolo opera di Francesco Salviatti e oggi conservato a Palazzo Pitti, a Firenze: le tre Moire vengono raffigurate come donne anziane che si dispongono a tagliare il filo.

Foto: Akg / Album

La geografia dell'aldilà

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La geografia dell'aldilà

Le molteplici descrizioni dell’Ade da parte di autori antichi e moderni permettono di rappresentare il desolante paesaggio dell’inferno dei greci, pieno di luoghi orrendi. Dopo essere entrato da una qualunque delle bocche dell’inferno esistenti, il defunto si dirigeva sulla riva dello Stige, il fiume che circonda l’oltretomba e che egli attraversava a bordo della barca guidata da Caronte. Sull’altra riva l’anima incontrava il guardiano Cerbero e i tre giudici dell’aldilà. Gli autori spiegano che nel loro peregrinare per l’Ade le anime incontrano tre fiumi: l’Acheronte o fiume del dolore, il Flegetonte o fiume del fuoco e il Cocito, il fiume del pianto. A separare il nostro mondo dall’aldilà vi sono anche altri luoghi prodigiosi, come le acque del Lete, il fiume dell’oblio, che il poeta inglese John Milton descrive nel suo Paradiso perduto. Le anime dei giusti sono inviate in luoghi felici come i Campi Elisi o le Isole dei Beati (o Isole Fortunate). Gli iniziati ai misteri, che a volte si facevano seppellire con le istruzioni per intraprendere il loro viaggio, si assicuravano l’arrivo senza problemi ai Campi Elisi invocando il potente nome di Demetra, Orfeo o Dioniso. Per finire c’era il Tartaro, luogo di tormento eterno dove andavano a finire i dannati.

Foto: Marzolino / Shutterstock

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