Medioevo

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Illustrazione di una figura femminile, forse Trotula, che indossa abiti rossi e verde. Sostiene un contenitore colmo d'urina che indica con la mano destra. Miscellanea media XVIII. Inizi del XIV secolo

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Trotula de' Ruggiero

Alcuni dubitano della sua esistenza o pensano che fosse in realtà un uomo, ma Trotula (1110-1160), nota come la prima ginecologa della storia, fu una donna in carne e ossa che visse a Salerno, dove all'epoca si trovava la più famosa università del mondo occidentale. Lì insegnò una materia che all'epoca era vietata ai medici: l'assistenza alle donne durante il parto. Il suo lavoro sfociò in due opere che hanno lasciato un segno nella storia della scienza. De passionibus mulierum ante in et post partum fu un libro trascurato fino all'inizio del XVI secolo, quando la stampa gli permise di farsi conoscere meglio e di ampliare così le conoscenze studiate su una nuova branca medica: la ginecologia e l'ostetricia. Scrisse anche un libretto sulla cosmesi femminile, De ornatu mulierum, che contiene consigli per migliorare la bellezza e l'igiene.

 

Foto: CCO

Ildegarda raffigurata su una vetrata dell'abbazia di EIbingen, a Hesse, che attualmente porta il suo nome

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Ildegarda di Bingen

Conosciuta come la prima sessuologa della storia, la tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179) gettò le basi per lo studio della ginecologia e della salute delle donne. Oltre che naturalista e scienziata, fu filosofa, guaritrice, teologa, poeta e compositrice. In quest'ultima veste si dice che sia stata anche un'antesignana dell'opera. Da bambina confessò di avere delle visioni mistiche e a 15 anni fu ordinata suora sotto la regola benedettina. All'età di 38 anni una voce interiore le rivelò la sua missione: trasmettere la conoscenza del mondo attraverso la scrittura. Il Liber Scivias fu la sua prima opera, nella quale raccolse la propria visione cosmogonica, basata sulla tradizione greca. Più tardi nel volume Physica (Liber Simplicis Medicinae) descrisse gli elementi del mondo naturale - vegetali, animali e minerali - indicandone le proprietà utili per gli esseri umani. Infine, nel libro Causa et curae raccolse le sue conoscenze sulle mestruazioni e su sintomi come l'amenorrea, offrendo consigli sulla dieta adatta per ridurre il sanguinamento eccessivo.

Foto: Fine art images / Age Fotostock

'Mariegola di Collio', 1523, Museo diocesano di Brescia

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'Mariegola di Collio', 1523, Museo diocesano di Brescia

La mariegola è un particolare tipo di codice che contiene il testo dello statuto di una confraternita. Quella di Collio, in provincia di Brescia, riguarda la congrega dei santi Antonio Abate, Faustino e Giovita. In essa si trova un esempio di miniatura tarda in cui le immagini ricordano delle pitture. A destra sono rappresentati i tre santi, mentre nel foglio di sinistra Cristo crocefisso con la Madonna e San Giovanni.

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Capolettera tratta da 'Storia delle imprese d’Oltremare' di Guglielmo di Tiro, XIII secolo, British Library, Londra

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Capolettera tratta da 'Storia delle imprese d’Oltremare' di Guglielmo di Tiro, XIII secolo, British Library, Londra

Per capolettera s’intende la lettera iniziale della prima parola del primo rigo di un testo. Poteva essere decorato con motivi vegetali, animali, geometrici o istoriati come in questo caso. In quest’immagine, negli spazi della lettera “R” è rappresentata la fuga del condottiero turco Norandino durante una battaglia contro i crociati. Il capolettera decorava un’edizione della Storia delle imprese d’Oltremare scritta da Guglielmo, l’arcivescovo di Tiro, una cronaca delle crociate in Terrasanta tra il 1095 e il 1183.

 

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La purificazione della Vergine, 'Très Riches Heures du Duc de Berry', 1412-1416 circa. Museo Condé, Chantilly

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La purificazione della Vergine, 'Très Riches Heures du Duc de Berry', 1412-1416 circa. Museo Condé, Chantilly

In questa scena, la Madonna sta salendo le scale del tempio, con in braccio Gesù, seguita da Giuseppe e da una schiera di altri personaggi. La precede una donna, probabilmente una serva, che regge in mano una candela e una cesta con due colombe. Secondo alcune interpretazioni, l’immagine presenta similitudini con la Presentazione della Vergine al tempio dipinta da Taddeo Gaddi nella chiesa di Santa Croce a Firenze nella prima metà del Trecento. Pertanto, si può ipotizzare un viaggio dei fratelli de Limbourg in Italia, dove avrebbero ammirato l’opera. 

 

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Mese di agosto del 'Très Riches Heures du Duc de Berry', 1412-1416 circa. Museo Condé, Chantilly

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Mese di agosto del 'Très Riches Heures du Duc de Berry', 1412-1416 circa. Museo Condé, Chantilly

Il mese di agosto illustra la caccia con il falcone, uno dei passatempo preferiti del duca. Su uno sfondo azzurro brillante, si erge il castello. In secondo piano si vedono i contadini intenti nella trebbiatura e alcuni giovani che cercano ristoro dalla calura estiva facendo il bagno nel fiume. In primo piano i nobili, tra cui anche alcune donne, stanno partendo per la battuta di caccia in sella al cavallo. Nelle raffigurazioni medievali dei mesi, solitamente agosto era raffigurato con una scena agricola (la trebbiatura): la scelta dei miniatori di relegarla sullo sfondo e privilegiare un tema cortese è un elemento di novità.

 

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Mese di gennaio del 'Très Riches Heures du Duc de Berry', 1412-1416 circa. Museo Condé, Chantilly

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Mese di gennaio del 'Très Riches Heures du Duc de Berry', 1412-1416 circa. Museo Condé, Chantilly

Il duca di Barry è raffigurato nel mese di gennaio mentre presiede un banchetto nel suo castello. È seduto davanti a una tavola riccamente imbandita, con indosso un elegante abito blu arricchito da damascature.  Il volto è rappresentato con molta cura e dettagliatamente, infatti, si può considerare un vero e proprio ritratto. Attorno a lui vi sono numerosi personaggi, forse membri della sua famiglia o della sua corte, intenti a parlottare tra di loro o occuparsi del banchetto, come i due a sinistra intenti a mescere il vino. Le miniature dei mesi erano di grandi dimensioni e occupavano tutta la pagina.

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Manoscritto miniato del XIII secolo, British Library, Londra

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Manoscritto miniato del XIII secolo, British Library, Londra

Le prime raffigurazioni del martirio di Thomas Becket sono state delle miniature. Questa, appartenente a un manoscritto del XIII secolo, è una delle più antiche. Thomas Becket divenne arcivescovo di Canterbury dal 1162. Si oppose fermamente alla politica ecclesiastica del sovrano Enrico II e per questo fu assassinato, proprio dentro la cattedrale, nel 1170.

 

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Miniatore iberno-sassone, 'Vangelo di Durrow', 680 circa. Trinity College Library, Dublino

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Miniatore iberno-sassone, 'Vangelo di Durrow', 680 circa. Trinity College Library, Dublino

Si tratta di un vangelo redatto a Durrow da monaci irlandesi nel cosiddetto stile insulare tipico dell’Inghilterra anglosassone e introdotto anche nel continente. Questa pagina si trova in apertura del vangelo di Giovanni e, poiché il disegno occupa l’intera superficie, è definita “pagina-tappeto”. Una piccola croce è inserita all’interno di un cerchio e circondata da motivi intrecciati. Il cerchio si trova entro una finestra quadrata, a sua volta collocata tra una serie di bande decorata con animali nastriformi intrecciati

 

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Edizione del XV secolo di 'De mulieribus claris' di Giovanni Boccaccio, British Library, Londra

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Edizione del XV secolo di 'De mulieribus claris' di Giovanni Boccaccio, British Library, Londra

In questa miniatura, tratta da un’altra edizione del De mulieribus claris di Boccaccio, è rappresentata Timarete, una pittrice greca figlia dell’ateniese Micone il minore, anch’egli artista. Nell’immagine sta realizzando l’opera per cui è nota ancora oggi: un ritratto su tavola della dea Artemide, cui la giovane era particolarmente devota.

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Edizione francese del XV secolo di 'De mulieribus claris' di Giovanni Boccaccio, Bibliothèque nationale de France, Parigi

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Edizione francese del XV secolo di 'De mulieribus claris' di Giovanni Boccaccio, Bibliothèque nationale de France, Parigi

Nel De mulieribus claris (1361-1362) Giovanni Boccaccio descrive la vita di oltre cento donne famose vissute tra l’età antica e il Medioevo. In quest’edizione francese del XV secolo, le biografie sono corredate da eleganti miniature.  Qui è rappresentata Iaia (o Marzia) una pittrice vissuta a Roma tra il II e il I secolo a.C. Indossa abiti medievali e si trova nel suo studio, intenta a dipingere il suo autoritratto.

 

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Vangeli di Ebbone, Marco, Bibliothèque municipale, Epernay

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Vangeli di Ebbone, Marco, Bibliothèque municipale, Epernay

L’arcivescovo di Reims, Ebbone, raccolse nello scritporium dell’abbazia di Hautvillers i monaci che realizzarono i vangeli da cui deriva questo ritratto di San Marco. L’evangelista è colto mentre volge lo sguardo verso il leone alato, suo simbolo, in cerca d’ispirazione. È rappresentato frontalmente ma con la testa ruotata e il corpo in tensione. Anche Giovanni e Luca sono rappresentati in atteggiamenti simili, mentre Matteo è l’unico che non guarda verso l’alto ma, evidentemente già ispirato, si accinge a scrivere.

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L’indovina di Toledo che si vantava della sua ascendenza ebraica

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L’indovina di Toledo che si vantava della sua ascendenza ebraica

All’inizio del XVI secolo la toledana Leonor Barzana fu discendente di quegli ebrei che l’Inquisizione perseguitò con accanimento. Suo padre, di mestiere cambiavalute, era stato bruciato per aver abbracciato il giudaismo, mentre lo zio paterno era stato condannato a portare il sambenito per lo stesso motivo. Per evitare problemi, Leonor rinunciò al cognome del padre e adottò quello della madre, Francisca Barzana, che nel processo contro suo marito si era salvata grazie alla protezione di un canonico. Una vicina testimoniò di aver sentito dire più di una volta da Leonor che gli inquisitori avevano ucciso suo padre non per una sua colpa ma perché erano vigliacchi e traditori.

Rivelazioni pericolose

Nel suo quartiere Leonor era conosciuta come “beata” a causa dell’abito francescano che indossava e che contraddistingueva le donne laiche dedite alla preghiera. Il termine si applicava anche alle donne che sostenevano di possedere doti soprannaturali, come dicevano essere il caso di Leonor. Una compaesana una volta le fece visita per chiederle notizie sul marito, assente da molto tempo. Lei le rispose di aver avuto la rivelazione che l’uomo era morto, però la invitò a pregare la Vergine e san Giovanni Battista per nove giorni, allo scadere dei quali il marito riapparve. Altri la chiamavano la estrellera (giumenta che alza troppo la testa) e la definivano una donna «superba, eccezionale, intrepida [...] e indomabile». In un’altra occasione, quando una sua compaesana stava per partorire, la beata uscì sulla soglia con una candela accesa, mormorò alcune parole, contemplò il cielo aperto tra i raggi solari e un uccello le sfiorò il volto all’altezza del naso. Appena il bambino nacque, la beata insistette perché lo chiamassero Gabriel e predisse che sarebbe diventato un saggio religioso. Tutti questi episodi emersero nel corso del processo che venne istruito contro di lei nel 1530. La accusavano di essersi vantata delle sue origini ebraiche e di aver compiuto pratiche magiche. Dopo aver ribadito la sua adesione al cattolicesimo, fu castigata con cento frustate e dovette fare un autodafé. Sei anni più tardi nuovi testimoni dichiararono di averla sentita vantarsi dei suoi poteri, tra i quali anche quello di far crollare una casa o di invocare gli spiriti. Un’altra donna riferì di aver ricevuto da lei una medicina contro la sterilità. Leonor fu nuovamente condannata alla frusta e rinchiusa in prigione, come superstiziosa e spergiura. Ne uscì solo per andare in esilio.   

Nell'immagine, schema che spiega in dettaglio le informazioni che la mano può fornire su una persona. Copia di uno schema di Jean Belot (1649) usato nel libro Storia della magia, pubblicato alla fine del XIX secolo.

Foto: Bridgeman / Aci

Gli stratagemmi del sant’uomo di Siviglia che predicava l’amore universale

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Gli stratagemmi del sant’uomo di Siviglia che predicava l’amore universale

Nella prima metà del XVIII secolo un certo Juan Elías viveva nel convento sivigliano di San Pedro de Alcántara come “donato”, ovvero come laico che portava l’abito religioso e svolgeva compiti di servizio alla comunità. Elías, che aveva una cinquantina d’anni, si dedicava a raccogliere l’elemosina percorrendo i quartieri della città, dove si era guadagnato la fama di uomo santo e virtuoso grazie al modo di parlare tranquillo, con voce dolce e aria serena. Il servitore di San Pedro de Alcántara approfittava delle sue visite per dialogare con la gente in maniera compassionevole. Soleva spiegare il Padre nostro e concludeva dicendo che tutti gli uomini sono fratelli davanti a Dio e che hanno il dovere di amarsi gli uni gli altri. Con questo pretesto, fratello Juan cominciò a recarsi nel quartiere di Triana a casa di una donna sposata, Francisca Moreno, di 35 anni. Dopo essersi guadagnato la sua fiducia con discorsi pii e devoti, approfittava per accarezzarla e abbracciarla, dicendo di non avere cattive intenzioni, poiché il suo pensiero era rivolto a Dio. 

Donne di Triana

In un’occasione riuscì a farsi ricevere nella sua stanza da letto, dove l’abbracciò per «mezzo quarto d’ora», però lei lo interruppe, gli diede l’elemosina che chiedeva e lo mandò via. Tornò dopo qualche settimana per dichiararle che non faceva altro che pensare a lei, però la donna, avendo capito la sua tattica, gli domandò «se il fatto di averla sempre in mente fosse per raccomandarla a Dio». 

Fratello Juan si vide costretto a rinunciare alla sua impresa. Quindi tentò la sorte con un’altra abitante di Triana, Teresa del Barco, nubile di 25 anni. Con lei andò direttamente al dunque. Le assicurò che potevano giacere insieme senza peccare, poiché «sebbene io o chiunque altro nel farlo le prenda le mani e l’abbracci, essendo in Dio come siamo, questo non è peccato né cosa cattiva [...] e se entrasse qualcuno in quel momento e chiedesse cosa stiamo facendo, sarebbe lui a scandalizzarsi, ma noi saremmo tranquilli perché siamo nell’amore di Dio e sappiamo che in esso non pecchiamo». Inoltre cercò di persuaderla di avere doti di veggente, giacché, a quanto assicurava, aveva previsto la morte della figlia di una concittadina. Nel frattempo Francisca si era fatta degli scrupoli per l’accaduto e aveva consultato il suo confessore, che l’aveva esortata a denunciare il caso all’Inquisizione di Siviglia. Nella sua dichiarazione Francisca rivelò che anche la sua vicina Teresa aveva rapporti con l’elemosiniere, perciò il tribunale convocò anche lei. Basandosi sulla testimonianza di entrambe, i qualificatori – membri del tribunale inquisitoriale che accertavano il tipo di delitto che era stato commesso – elaborarono un rapporto sull’imputato.

Eretico e bugiardo

Secondo gli inquisitori, Elías era un seguace della dottrina eretica di Miguel de Molinos (1628-1696), il quale sosteneva che si poteva raggiungere la grazia mediante la contemplazione ed era stato condannato per aver commesso atti immorali. Un fatto che non aveva impedito la nascita, in diversi Paesi cattolici, di una corrente di seguaci, i cosiddetti molinosisti. Inoltre il tribunale definì Elías imbroglione e ignorante di ciò che predicava. Per questo fu incarcerato e condannato. Fu uno fra i tanti casi di trasgressioni minori della morale sessuale d

Foto: Oronoz / Album

Una campagna dell’Inquisizione contro i moriscos

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Una campagna dell’Inquisizione contro i moriscos

La popolazione musulmana che rimase in Spagna a partire dal 1492 – dopo la conquista del regno dei Nasridi di Granada da parte dei Re Cattolici – soffrì una persecuzione incessante. Convertiti a forza al cristianesimo, ai moriscos fu proibito usare l’abito tradizionale e la lingua araba. Nel 1568 furono protagonisti di una ribellione violenta nella zona delle Alpujarras, dopodiché furono deportati dal regno di Granada in diverse zone della Castiglia, dove crearono nuove comunità di moriscos che continuarono ad attrarre i sospetti delle autorità. Una di esse si radicò ad Almagro (Ciudad Real). Gli inquisitori volevano scoprire se i moriscos che vi abitavano continuassero a praticare in segreto la religione islamica, anche se adempivano esteriormente agli obblighi del cristianesimo. Un ufficiale del Sant’Uffizio riuscì a convincere una giovane di 19 anni, Mari Pérez Limpati, a trasferirsi a casa sua «affinché dicesse più liberamente quello che aveva da dire e fosse esaminata in modo più approfondito».

Spirale di denunce

Sotto pressione e spaventata, Mari Pérez diede il via a una spirale di denunce che sarebbero culminate in un autodafé tenuto a Toledo nel 1606, nel quale furono bruciate sei persone tra familiari e vicini. Altre 18 furono condannate al carcere a vita e alla confisca dei beni. Mari Pérez – che riconobbe di aver praticato i riti islamici per un anno e mezzo – denunciò una vedova ottuagenaria, Isabel de Jaén. L’aveva sentita dire: «Perché dovrei credere in Cristo? È un supplizio», e l’aveva vista fare il «digiuno degli arabi e la cerimonia dell’acqua», cioè il digiuno del mese del Ramadan e le abluzioni quotidiane dei musulmani. Aveva inoltre raccontato che un giorno l’anziana era andata a casa sua e aveva cercato di convincerla a praticare il guadoc (un’abluzione facciale) «in osservanza alla setta di Maometto».

Il tribunale ordinò di torturare la donna: «Dopo averle passato cinque giri di corda, al successivo sembrò svenire, non rispondeva a quello che le domandavano, non si lamentava, né tornava in sé». Fu condannata a fare un autodafé. Un’altra anziana, Isabel de Cañete, di 78 anni, fu accusata di aver praticato diverse cerimonie islamiche e la divinazione con le fave. Dopo essere stata torturata fu condannata alla confisca dei beni e al carcere perpetuo.

Anche il padre di Mari Pérez, Diego Pérez Limpati, di professione negoziante, fu accusato da sette testimoni, fra i quali sua figlia. Tutti l’avevano visto compiere cerimonie e il digiuno arabo, le abluzioni del guadoc, e la çalá (invocazione a Dio dopo le abluzioni). Un testimone assicurò che «si riuniva con altri moriscos per cena, al termine dei digiuni del Ramadan» e che «aveva in casa dei fogli scritti in caratteri arabi». Fu condannato alla confisca di tutti i beni e a essere bruciato sul rogo. Lo zio della giovane, Miguel Ruiz de Mendoza, di 54 anni, ebbe la stessa sorte; sua sorella, di 14, fu condannata ad abiurare, e sua madre al carcere a vita irrevocabile. 

Un altro vicino, il calzolaio Hernando de Palma, fu accusato di aver insegnato l’arabo ai suoi vicini mentre gli riparava le scarpe e di celebrare funerali islamici. Ritenuto colpevole, fu condannato alla confisca dei beni e al rogo.

Sacrifici

Foto: Prisma / Album

Lo stregone che denunciò una falsa cospirazione contro il potere

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Lo stregone che denunciò una falsa cospirazione contro il potere

Jerónimo de Liébana nacque intorno al 1592 a La Ventosa, in provincia di Cuenca. Il padre e il nonno paterno erano notai, mentre il nonno materno era medico. Sin da giovane Jerónimo condusse una vita nomade, viaggiando per tutta la penisola iberica, talvolta sotto lo pseudonimo di Juan Calvo. Iniziato alle arti magiche, nel 1620 subì un primo processo da parte dell’Inquisizione di Saragozza, che lo accusò di aver celebrato messe demoniache e di aver distribuito foglietti per rendere invisibili o per vincere al gioco. Ventinove persone testimoniarono contro di lui al processo, durante il quale subì il supplizio del cavalletto (una pena corporale simile alla flagellazione). Dovette sottoporsi all’autodafé, ovvero alla proclamazione della sentenza, vestito da penitente e con la coroza (cappello conico di carta): gli diedero cento frustate e lo condannarono a otto anni di galere e all’esilio dalle terre di Aragona. Tre anni dopo fu processato di nuovo, stavolta a Barcellona, per aver continuato a praticare la magia. Davanti al tribunale Liébana raccontò una storia sorprendente. Poiché si era sparsa la voce che fosse capace di trovare tesori, due aristocratici catalani, il conte di Zabellán e il cavaliere Bertrán Desvalls, avevano pagato una cauzione per riscattarlo dalle galere; poi l’avevano trasferito a casa di Desvalls. Durante la notte lo portavano in carrozza, con gli occhi bendati, fino a una casa del conte di Zabellán, con il pretesto di evocare gli spiriti. Una notte Jerónimo si era trovato davanti a un nascondiglio di libri di magia e a molti congegni a forma di pianeti, collocati intorno a una statuetta di Filippo IV: questo gli aveva fatto pensare che il gruppo, cui appartenevano altri nobili, stesse tramando qualcosa contro il re. Così lo comunicò all’Inquisizione, che però non lo ascoltò.

Cospirazione contro il re

Nel 1627 Jerónimo andò a Málaga e poi a Ocaña, dove riuscì a farsi nominare vicerettore del collegio dei gesuiti. In seguito andò a Cuenca, dove venne accolto dal fratello sacerdote. Arrestato nuovamente nel 1631, denunciò un altro complotto, che sosteneva di aver scoperto a Málaga nel 1627, ai danni di Filippo IV. Questa volta gli diedero retta e lo mandarono a Madrid per riferire tutto ciò che sapeva al conte-duca di Olivares, primo ministro del re. Jerónimo gli raccontò che per 71 giorni il marchese di Valenzuela e altri cavalieri avevano realizzato una serie di sortilegi astrologici, culminati in una cerimonia alla quale aveva partecipato un mago francese, un certo Guñibay. Per prima cosa avevano bruciato una serie di statuette per propiziare la caduta del conte-duca e la sua sostituzione con il marchese. Dopo tre ore Guñibay aveva detto ai presenti di non spaventarsi, visto che gli spiriti sarebbero entrati nella stanza sotto forma di tori, uccelli o come semi di una pianta speciale. Fra un fuggifuggi di pipistrelli, alle cinque del mattino Guñibay aveva messo le statuette bruciate in un baule di legno di ulivo, foderato in ferro, e l’aveva buttato in mare con una zavorra.

Filippo IV e il suo favorito diedero credito al racconto e inviarono a Málaga una commissione affinché recuperasse il baule dal fondo del mare. Siccome non trovarono nulla, l’Inquisizione condannò Liébana per superstizione manifesta. Il finto astrologo fu sottoposto a un autodafé a Cuenca il 4 luglio del 1632, con una candela in mano, la coroza in testa, una corda al collo e l’insegna di stregone. Fu costretto ad

Foto: Dea / Album

Il cristiano che voleva farsi ebreo

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Il cristiano che voleva farsi ebreo

Jacinto Vázquez Araújo nacque verso il 1650 a Santa Comba, a circa sette chilometri da Ourense. Era figlio del prete locale e di una ragazza nubile chiamata Dominga Rodríguez. Quando aveva tre anni fu mandato a vivere con i nonni materni, però a quattordici tornò a casa del padre. Dopo gli studi di grammatica a Monforte de Lemos e quelli di musica a Santiago andò in Andalusia. Lì iniziò a guadagnarsi da vivere cantando come contralto nella chiesa principale di Écija (Siviglia) e come insegnante dei figli di un avvocato, che poi seguì quando questi si trasferì a Córdoba. In questa città fu ordinato sacerdote e divenne cappellano della chiesa di Santa Cruz. Anni dopo tornò in Galizia, dove fu nominato canonico della cattedrale di Ourense. 

A causa dell’implacabile persecuzione da parte dell’Inquisizione, la pratica segreta dell’ebraismo era divenuta meno frequente tra i discendenti di ebrei convertiti: tuttavia Jacinto decise inaspettatamente di convertirsi al giudaismo. Quando venne arrestato, nel 1687, dichiarò che, sebbene nella sua famiglia fossero «cristiani vecchi», lui voleva essere un «ebreo nuovo». Come spiegazione disse di aver letto un libro, intitolato Sentinella contro gli ebrei, che gli era stato prestato da un presbitero e cappellano della cattedrale di Ourense. Si trattava di un’opera antisemita scritta intorno al 1674 dal frate Francisco de Torrejoncillo, nella quale si elencavano tutte le accuse classiche contro gli ebrei e si affermava la necessità di mantenere gli statuti di “purezza del sangue” per impedire che discendenti di ebrei accedessero a cariche della Chiesa o dello stato. Vázquez Araújo se n’era servito per scoprire i riti ebraici e metterli in pratica. Dopo il suo arresto l’Inquisizione ordinò che un altro sacerdote ripetesse gli oltre tremila battesimi impartiti da Vázquez. Inoltre lo accusò di “sollecitazione”.

Indizi di follia

I giudici dubitarono dell’equilibrio mentale dell’accusato. Vari testimoni dichiararono di averlo visto «restare a lungo a guardare l’acqua del fiume che scorreva». Un frate lo giudicò «uomo di fantasia soggetta a varie elucubrazioni». In ogni caso, un compagno di cella riferì che Jacinto osservava il riposo del sabato e i digiuni ebraici, e la guardia carceraria testimoniò che in prigione si era messo a gridare che voleva morire secondo la Legge di Mosè: questo decretò la sua condanna. Giunto il momento, gli misero un sambenito (tunica penitenziale) e gli lessero la sentenza con la quale gli veniva revocata l’ordinazione sacerdotale, gli si confiscavano i beni e lo si condannava al carcere a vita, oltre che a cinque anni di galere.  

Nell'immagine, Scena di torture inquisitoriali, di A. Magnasco, 1710. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

Foto: Akg / Album

Morte

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Morte

In un altro episodio di Palmerino d’Inghilterra, il Cavaliere del Valle, sconfitto, accetta la morte: «Io sono stato il peggiore in battaglia, perciò ha da essere che la sua fine sia anche la mia, perché non potrei vivere contro la mia volontà; così porterò a compimento quello che ho cominciato, mettendo fine ai miei giorni per onorare le mie intenzioni».

 

Foto: Romanzo di Tristano e Isotta. Museo di Chantilly. Dea / Album

Combattimento

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Combattimento

Nello stesso romanzo si narra di come il cavaliere Floraman, «lanciato il suo cavallo e ben riparato dietro il suo scudo si scagliò contro Florendos, e incontrandosi dappresso i due cavalieri si colpirono con tanta forza da rovinare a terra; ma prestamente si rialzarono, e messa mano alla spada cominciarono a menarsi gran fendenti».

 

Foto: Codex Manesse. Università di Heidelberg. Bridgeman / Aci

Dono d'amore

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Dono d'amore

Nel romanzo Palmerino d’Inghilterra, il cavaliere Alberín di Frisa veglia sul passaggio attraverso un bosco «per compiere il volere della signora che servo» e ordina a uno scudiero di fare la seguente dichiarazione ai passanti: «Dovete affermare che Arnalda, principessa di Navarra, è la più bella dama del mondo e la più meritevole di essere servita».

 

Foto: Codex Manesse. PRISMA / ALBUM

L'investitura di un cavaliere

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L'investitura di un cavaliere

Nel romanzo Don Cristalián de España, il nobile che sta per essere investito cavaliere trascorre una notte di veglia con le sue armi splendenti in una chiesa. Dopo aver ascoltato messa, il cavaliere riceve l’eucarestia e il signore gli calza gli speroni, lo bacia e gli dice: «Siate cavaliere». Una dama gli porge la spada dicendo: «Che Dio vi conceda una simile impresa». XIII secolo. 

 

Foto: Art Archive

Cavalieri e letteratura

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Cavalieri e letteratura

I primi romanzi cavallereschi vennero scritti nel XII secolo in Francia, e di qui si diffusero in tutta Europa. Le fonti di ispirazione erano molteplici e risalivano anche alla tradizione greco-bizantina, ma non vi è dubbio che riflettessero vividamente abitudini e ideali dei cavalieri medioevali. Nell'immagine, frontespizio dell'edizione spagnola di Amadigi di Gaula, di Garci  Rodríguez de Montalvo. 1533.

 

 

Foto: Oronoz / Album

Aladino deve combattere contro tre avversari

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Aladino deve combattere contro tre avversari

La povera Sherazade doveva allungare la storia per non perdere la vita. Quindi è normale che il racconto di Aladino fosse molto lungo: la versione giunta fino a noi è molto semplificata. Nella storia originale però il protagonista affronta tre nemici. Il primo è un mago malvagio che lo convince a cercare una lampada a olio per regalargliela. Ma Aladino decide di tenersela, appropriandosi anche di un anello e, soprattutto, dei geni contenuti da questi due oggetti. Grazie a loro, riesce a sposare la figlia del sultano, avendo la meglio sul figlio del suo secondo avversario, il gran visir. Dopo alcuni anni di felicità coniugale, il suo primo rivale, il mago, fa ritorno per riprendersi la lampada ma finisce vittima dell'ingegno (e dei geni) di Aladino. Infine, il fratello del mago ormai defunto, si reca in Cina per vendicarsi, ma Aladino e i suoi magici servitori hanno di nuovo la meglio. Dopo molte peripezie il futuro sultano e sua moglie possono vivere felici e governare il loro regno con giustizia.

Foto: Pubblico dominio

I geni erano due

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I geni erano due

E non solo: al contrario di quanto riportano le versioni moderne della fiaba, il ragazzo non aveva limite al numero di desideri che poteva esprimere. Nella storia originale il primo genio è descritto come “simile un uomo nero come il catrame, con una testa come un calderone, una faccia orribile ed enormi occhi rossi fiammeggianti" e viene fuori da un anello. Il secondo è proprio il genio della lampada del titolo, così brutto che la madre di Aladino, non potendo sopportare "un viso repellente e spaventoso come quello, cadde svenuta". E, a scanso di equivoci, nessuno dei due geni aveva la pelle blu.

Illustrazione di H.J. Ford per il libro Aladino e la lampada meravigliosa.

Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press

Aladino viveva con sua madre

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Aladino viveva con sua madre

 

La storia racconta che suo padre, Chin Fu, morì quando il ragazzo era adolescente. Ma Aladino aveva ancora la mamma, che lo amava così tanto da perdonargli i comportamenti più bizzarri. La donna faceva enormi sacrifici e lavorava giorno e notte per guadagnare i pochi soldi che suo figlio spendeva così incoscientemente, ma ad Aladino non mancava mai un buon piatto di cibo. Nonostante il suo carattere, Aladino portava inoltre un nome benedetto, che deriva dall’arabo Allah al-Din: Altezza o Gloria di Allah.

Nell'immagine, acquerello di Arthur Rackham inserito nel suo 'Fairy Book', pubblicato nel 1933.

Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press

Aladino era cinese

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Aladino era cinese

Il racconto classico ha un incipit diverso da quello che conosciamo noi: “In una città tra le città della Cina”, si spiega, viveva un povero sarto. Suo figlio, Aladino, “era un bambino poco istruito e che fin dalla più tenera età dimostrò di possedere un carattere irruento”. Il giovane era uno scavezzacollo e con il suo comportamento e il rifiuto di frequentare la sartoria di famiglia provocò la morte di suo padre, afflitto dal futuro che attendeva il figlio. Imperterrito, Aladino continuava a vagare per le strade e i vicoli del quartiere in compagnia di altri ragazzi della stessa risma.

Nell'immagine, un'illustrazione di Edmund Dulac per il volume The Arabian Nights, pubblicato nel 1938.

Foto: ZUMAPRESS.com / Cordon Press / Cordon Press

Aladino è un’aggiunta recente

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Aladino è un’aggiunta recente

I racconti di Le mille e una notte furono aggiunti in modo disordinato alla raccolta araba tra il IX e il XVI secolo. Il numero e i titoli integrati in ciascuna versione variano notevolmente a seconda della collezione consultata. Ma i racconti più famosi in Occidente, Sinbad il marinaio, Alì Babá e i quaranta ladroni, o Aladino e la lampada meravigliosa, sono aggiunte molto più recenti al corpus originale. Aladino, in particolare, non appariva in nessuna versione fino a quella di Galland (nella foto). Sembra che questi fosse venuto a conoscenza della storia grazie ai racconti di un cristiano siriano, che gli narrò questa ed altre quindici fiabe, tra cui quella di Alì Babá, e che il francese decise di includere nell’ultimo volume della sua edizione.

 

Foto: Pubblico dominio

La storia fa parte di 'Le mille e una notte'

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La storia fa parte di 'Le mille e una notte'

Aladino e la lampada meravigliosa forma parte di Le mille e una notte, una famosa antologia medievale in lingua araba di racconti tradizionali, raccolti e scritti a partire dal IX secolo. Il titolo all’inizio voleva indicare che si trattava di un gran numero di storie che avevano come filo conduttore il racconto di Sherazade, la sposa del sultano che lascia la narrazione incompleta all’alba per riprenderla al tramonto e avere così salva la vita. Nel corso dei secoli però sono stati aggiunti altri racconti fino a raggiungere il numero indicato nel titolo. La provenienza geografica di queste storie è molto ampia e comprende tradizioni orali di India e Cina, fino all’Egitto e alla Turchia. La prima versione europea, del francese Antoine Galland, risale al XVIII secolo e si basa su una traduzione di un manoscritto sirio composto da quattro volumi. Fu un successo letterario immenso e registrò un altissimo numero di vendite.

 

Foto: Pubblico dominio

Gli occhiali

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Gli occhiali

Lo sviluppo delle tecniche di lavorazione del vetro portò alla creazione delle lenti. Nell'Europa medievale un monaco ebbe la brillante idea di unire due lenti convesse e creare una struttura per sorreggerle sul naso: nacquero così i primi occhiali della storia. Sebbene all'inizio fossero un oggetto accessibile solo a pochi, con il passare del tempo divennero popolari e resero decisamente più facile la vita di coloro che soffrivano di problemi di visione. 

Nel Rinascimento lo sviluppo delle lenti avrebbe portato a inventare i primi telescopi. 

Foto: Album

Attrezzi per la distillazione

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Attrezzi per la distillazione

Gli arabi furono pionieri nell'utilizzo del vetro per fabbricare alambicchi, serpentine e oggetti simili. La loro creazione permise lo sviluppo della chimica e costituì il primo passo per ottenere alcol, profumi e altri prodotti che potevano essere utilizzati sia per scopi scientifici sia nella vita di tutti i giorni. 

Nella foto, un'illustrazione di Le livre de la propriete des choses, scritto dal monaco inglese Bartholomew Glanville (noto come Bartolomaeus Anglicus) tra il 1230 e il 1249. 

Foto: World History Archive /Cordon Press

Strumenti per la navigazione

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Strumenti per la navigazione

Nel il Medioevo si produssero diverse innovazioni nel campo della navigazione. Le più decisive furono il dritto di poppa, che rendeva le navi più maneggevoli; la vela latina, che permetteva navigare controvento; la chiglia, che serviva da contrappeso alla forza del vento e aumentava la stabilità delle imbarcazioni; la bussola magnetica, per orientarsi con una maggiore precisione. Tutte queste invenzioni resero la navigazione molto più affidabile e sicura, e di conseguenza favorirono il commercio tra luoghi molto lontani fra loro e l'esplorazione di nuove rotte e mondi sconosciuti.

Nella foto, acquatinta raffigurante l'invasione dell'Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore dall'arazzo di Bayeux.
 

 

 

Foto: Cordon Press

La stampa

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La stampa

Generalmente si considera Johannes Gutenberg come il padre della stampa, anche se in realtà questi ebbe dei predecessori. L'orefice tedesco sviluppò un sistema di caratteri mobili che già esisteva in Cina e in Corea nell'VIII secolo, e su cui alcuni europei avevano precedentemente iniziato a lavorare. I miglioramenti applicati da Gutenberg permisero di ridurre drasticamente il tempo e il costo della stampa, che insieme alla diffusione della carta come supporto, rese i documenti scritti accessibili a un pubblico maggiore. 

Foto: Josse / Scala, Firenze

L'orologio meccanico

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L'orologio meccanico

Prima di questa straordinaria invenzione medievale, il tempo si misurava con una gran quantità di strumenti come meridiane, clessidre, orologi ad acqua, le cui misurazioni risultano difficili da equiparare. L'orologio meccanico, inventato intorno al 1300, permise di unificare la misurazione del tempo e cambiò il modo di quantificare il lavoro e di retribuirlo in base alle ore effettivamente impiegate. Sebbene nei primi tempi fossero poco precisi a causa della frizione dei meccanismi, durante il Rinascimento migliorarono notevolmente fino a presentare un ritardo di appena un minuto al giorno. 

Foto: PA Wire/Press Association Images / Cordon Press

Le finestre di vetro

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Le finestre di vetro

Anche se il vetro non è stato inventato nel Medioevo, fu proprio in questo periodo quando l'uso più comune a noi conosciuto iniziò a diventare popolare. Una delle novità più importanti fu proprio la sua applicazione alle finestre per sostituire i materiali opachi, come tele o arazzi usati precedentemente. Grazie all'impiego del vetro la luce naturale poteva finalment penetrare negli ambienti chiusi senza abbassare le temperature delle stanze. 

Foto: Cordon Press

L'aspetto del diavolo

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L'aspetto del diavolo

Con rare eccezioni, gli autori ecclesiastici ritenevano che i demoni – originariamente degli angeli caduti – fossero esseri spirituali, non corporei. A volte, per tentare le sue vittime, il diavolo assumeva un aspetto ingannevole, come le fattezze di un’avvenente fanciulla o dell’apostolo Giacomo. In campo artistico, invece, veniva normalmente ritratto con sembianze terrificanti, allo scopo di spaventare e dissuadere i peccatori. L’immagine del demonio era in genere priva di bellezza, armonia e struttura, a indicare la distorsione della natura ideale degli angeli e degli uomini. A partire dall’XI secolo divennero abituali gli elementi bestiali, come la coda, le orecchie di animale, la barba da capro, gli artigli, le corna e spesso le ali. Se all’inizio del Medioevo queste ultime erano in genere piumate come quelle degli uccelli o degli angeli, a partire dal XII secolo diventarono comuni le ali da pipistrello.


Un esempio di come veniva ritratto il diavolo nel Medioevo è dato dal quadro di Michael Pacher del 1483, Sant'Agostino e il diavolo, oggi conservato nell'Alte Pinakothek, a Monaco di Baviera. 

 

Foto: BPK / RMN-Grand Palais

Il patto con il maligno

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Il patto con il maligno

Il patto tra gli esseri umani e il diavolo ha sempre affascinato gli europei, forse perché la volontà di potere e di conoscenza portata alle sue estreme conseguenze è stata un pilastro fondamentale della civiltà occidentale. Il tema si diffuse per la prima volta in Europa durante il Medioevo, esattamente nel X secolo, quando la monaca e poeta Roswitha di Gandersheim scrisse (attingendo a una tradizione di origine greca) la storia del diacono Teofilo. Caduto in disgrazia presso il suo vescovo, grazie all’ausilio di un ebreo esperto di arti magiche, Teofilo firmò un patto di sangue con il diavolo: gli vendette la sua anima in cambio del potere, come avrebbe fatto secoli dopo il dottor Faust. Ma Teofilo poi si pentì, invocò la Vergine e riuscì a sciogliere il patto. Nel XIII secolo il dramma liturgico Il miracolo di Teofilo di Rutebeuf diede ulteriore diffusione a questo motivo. In Europa il patto tra Teofilo e il demonio veniva spesso rappresentato come un omaggio feudale, l’atto che univa un signore al suo vassallo in un reciproco giuramento di fedeltà. Trattandosi di un gesto rituale molto importante, il suo uso in tale contesto doveva provocare indignazione e inquietudine.

In queste pagine illustrate di The Maastricht Hours, un libro d'ore edito nella zona di Liegi all'inizio del XIV secolo e oggi custodito nella British Library di Londra, è rappresentata la storia di Teofilo.

 

Foto: Akg / Album

Gli esorcismi

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Gli esorcismi

Un documento medievale della metà del XV secolo fornisce una testimonianza del timore che ecclesiastici e laici nutrivano nei confronti di Satana e dei suoi servitori in un’epoca di carestie, guerre ed epidemie. Si tratta del Libro di Egidio, decano di Tournai, un manuale per esorcisti le cui domande mirano a penetrare i misteri dell’aldilà, a conoscere il comportamento degli abitanti dell’inferno e i limiti dei loro poteri. Prima di rivolgersi al demonio, l’esorcista deve pregare con devozione, «con il cuore contrito» e proteggersi «con il segno della croce». Per prima cosa chiederà al diavolo il suo nome e quindi gli porrà domande come queste: «Perché prendi sembianze differenti?»; «Perché affliggi più gli ecclesiastici che i laici? A causa di quali peccati?»; «Qual è il peccato di cui tu e i tuoi compagni più vi rallegrate?»; «Quali opere pie più vi rattristano?». L’esorcista fa anche domande sulle streghe: «Le mistificazioni causate a volte dall’azione di quelle donne […] che abusano dell’ignoranza della gente sono prodotte da uno spirito maligno? O altrimenti, come avvengono? Ed esistono donne, uomini o animali [diabolici] simili?».

In questa vetrata della Cattedrale di Chartres si illustra la leggenda di San Giacomo. Un Fileto posseduto tocca le vesti del santo e in quell'istante, il demonio abbandona il suo corpo

 

Foto: Scala, Firenze

Demoni e castighi

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Demoni e castighi

La rappresentazione medievale dell’inferno, il regno del diavolo, è legata alla credenza secondo cui, durante il giudizio universale, Dio premierà chi ha compiuto buone azioni e castigherà i peccatori. I giusti potranno contemplare Dio per l’eternità, mentre i malvagi saranno tormentati perpetuamente e in sintonia con i peccati commessi. Dopo aver varcato la soglia dell’inferno (che a volte assume la forma di una porta divoratrice), ciascuno riceve la sua pena indipendentemente dalla posizione sociale. Proprio come avviene nel Giudizio Universale opera di Beato Angelico: serpenti immobilizzano gli oziosi; rospi e serpi mordono i genitali di chi si è macchiato di lussuria; i colpevoli di peccati di gola sono obbligati a mangiare l’immondizia che hanno nei piatti; gli avari devono inghiottire oro fuso; i rei d’ira si fanno violenza gli uni con gli altri. Ovunque ardono le fiamme e i demoni tormentano i peccatori con i loro tridenti. Nella parte inferiore compare Satana, il capo dei diavoli: la sua triplice testa divora tre dannati.

 

Foto: Erich Lessing / Album

Al servizio dei demoni

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Al servizio dei demoni

Nel 1409 una lettera di papa Alessandro V diretta all’inquisitore francescano Ponce Fougeyron denunciava una «nuova setta» ereticale composta da stregoni. Nel corso del XV secolo vari pontefici scrissero bolle e lettere simili, che nel 1484 culminarono con la Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII. Il testo non faceva riferimento esplicito alla stregoneria, ma per i suoi toni radicali l’accusa del pontefice era diversa dalle comuni denunce di pratiche magico-superstiziose. Venne infatti usata come prefazione al Malleus maleficarum (ossia Il martello delle malefiche, generalmente tradotto come “streghe”) del domenicano Heinrich Krämer, testo in cui si denunciano le azioni delle fattucchiere «che scatenano grandinate, venti dannosi con fulmini, procurano sterilità negli uomini e negli animali, i bambini che non divorano li offrono ai diavoli […] o li uccidono in altro modo». Questa posizione metteva in crisi le antiche idee di Agostino, che attribuiva ai demoni poteri ben più limitati

Difatti non tutte le posizioni laiche ed ecclesiastiche si conformarono all’estremismo del Malleus. Per esempio, nel 1526 un concilio svoltosi a Granada dichiarò impossibile il volo magico e affermò che, secondo la maggior parte dei giuristi, le streghe non esistevano. Tuttavia, la caccia alle streghe aveva ormai preso piede in molti paesi europei, sostenuta dalla credenza in ritrovi notturni di donne malefiche che andavano in volo su bastoni o cavalcature, e stringevano un patto mortifero con il demonio. Tali riunioni avevano diversi nomi a seconda delle realtà regionali, come ludus, tregenda, akelarre, anche se il più celebre e comune sarebbe diventato il sabba.

In quest'incisione su legno appartenente alla Bibbia stampata a Strasburgo nel 1485 da Johann Grüninger, è raffigurata proprio una riunione di streghe

Foto: Akg / Album

Cacciatori nella neve

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Cacciatori nella neve

Questa quadro ritrae una scena invernale, ambientata tra dicembre e gennaio. Due uomini a capo chino rientrano al villaggio, attraversando il paesaggio innevato dopo una battuta di caccia infruttuosa. Una piccola volpe rappresenta l’unica preda della giornata. Persino i cani hanno un’aria dimessa e camminano con la coda tra le gambe. I fuochi sembrano indicare che i paesani si apprestano ad affumicare carni e pesci. Sullo sfondo uomini e donne trasportano la legna in spalla o sui carri. Il freddo ha interrotto i normali passatempi del mondo campestre, ma adulti e bambini si dedicano ad altre attività ricreative, come pattinare sui due laghetti ghiacciati.

Ogni elemento di questo quadro trasmette la sensazione di un inverno gelido. Il terreno ricoperto di neve è privo di ombre e gli alberi sono completamente spogli. I pochi falò visibili non sono sufficienti a proiettare calore nel vento ghiacciato.

 

Foto: Akg / Album

Danza dei contadini

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Danza dei contadini

Bruegel aveva un grande interesse per questi momenti tradizionali. Nel Libro della pittura, pubblicato nel 1604, Karel van Mander racconta che il pittore fiammingo si recava spesso nei villaggi in compagnia di un suo amico, il mercante tedesco Hans Franckert, per partecipare a nozze e feste. Scrive van Mander che i due uomini «si vestivano con abiti popolari e distribuivano doni e regali come tutti gli altri invitati, fingendosi parenti dello sposo o della sposa. Al pittore piaceva molto osservare le usanze dei contadini, studiarne le maniere a tavola, le danze, i giochi, i corteggiamenti e gli scherzi, che poi riproduceva con grande sensibilità e umorismo».

In Danza dei contadini (1568) Bruegel immortalò una festività religiosa, anche se i protagonisti del quadro non sembrano preoccuparsi troppo della chiesa locale, cui voltano le spalle, né della stampa della Madonna appesa a un albero. In primo piano una coppia si affretta con passo goffo verso il centro della strada per unirsi agli altri danzatori. Al tavolo sulla sinistra sono seduti non solo il suonatore di zampogna e il suo amico rubicondo con una caraffa di birra in mano, ma anche il sordo, il cieco e lo scemo del villaggio, che hanno anch’essi diritto di godersi la baldoria. Dietro di loro due giovani si baciano amorevolmente, un evento che forse prelude a un futuro matrimonio.

 Nei villaggi dei Paesi Bassi si svolgono delle feste annuali per commemorare la dedicazione della chiesa locale, dette kermesse (dal neerlandese kerkmisse, “messa di chiesa”). Bruegel rappresentò queste celebrazioni in vari quadri; su uno di essi aggiunse un commento in fiammingo: «Durante le feste i contadini si divertono a ballare, saltare e bere fino a ubriacarsi come bestie. Non perderebbero l’opportunità di partecipare a queste kermesse per nulla al mondo, anche se durante il resto dell’anno dovessero morire di fame». 

Foto: Erich Lessing / Album

Banchetto nunziale

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Banchetto nunziale

Nel Banchetto nuziale (1568) l’artista si concentra su un’altra festività rurale fiamminga. Il pranzo di nozze si celebra nel granaio del villaggio, con le balle di fieno accatastate a mo’ di parete su cui sono fissati due covoni con un rastrello. La sposa, con i capelli sciolti e un vestito verde, ha alle sue spalle un telo scuro a cui è appesa una corona di carta capovolta. Forse lo sposo è l’uomo seduto all’estremità del tavolo più prossima allo spettatore: con una casacca marrone e un berretto rosso in testa è intento a servire i convitati. Sulla destra, in elegante abito nero, il signore feudale che ha autorizzato il matrimonio parlotta con un frate. In mancanza di un vero e proprio vassoio per le scodelle, i due contadini in primo piano portano il cibo in tavola su un uscio di legno. Due suonatori di zampogna si occupano della musica. Sulla sinistra, uno dei commensali versa la birra (probabilmente prodotta dai contadini stessi) in una brocca; accanto a lui, una bambina lecca il suo piatto. Si può quasi sentire il trambusto dei festeggiamenti che, se la famiglia degli sposi ha soldi a sufficienza, continueranno per vari giorni.

 

 

Foto: Oronoz / Album

La strage degli innocenti

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La strage degli innocenti

Attraverso le sue opere l’artista stava ricordando ai suoi contemporanei che i veri sconfitti di ogni evento bellico erano sempre i contadini: non solo dovevano finanziare il conflitto pagando tributi maggiori del solito, ma erano anche le vittime preferenziali degli attacchi nemici, che miravano a tagliare i rifornimenti agli eserciti locali.

Nella Strage degli innocenti (tra il 1564 e il 1567) l’artista trasfigurò l’episodio biblico del massacro dei bambini di Betlemme, ordinato da re Erode, in una vicenda della sua epoca: il saccheggio di un villaggio fiammingo da parte di soldati spagnoli e mercenari tedeschi. Nell’opera Bruegel mostra con sguardo critico il comportamento delle truppe di occupazione nel preludio della rivolta olandese contro la dominazione spagnola. Ogni scena all’interno del quadro rappresenta una piccola tragedia, dove il dolore dei contadini nasce dall’impossibilità di difendere i propri figli dal brutale attacco (va comunque notato che i dettagli più cruenti furono aggiunti dopo la morte dell’artista). Il futuro che attende questa gente è cupo e desolante come il paesaggio innevato in cui si svolge la scena.

Si ritiene che quando l’imperatore Rodolfo II vide il quadro originale di Bruegel, fu talmente disgustato dalla verosimiglianza della scena che fece sostituire le figure dei bambini. Al centro dell’opera si vede per esempio una madre seduta a piangere con un fagotto in braccio, che in origine era il figlio morto. Nell’edificio sulla sinistra si possono scorgere due soldati intenti a portar via due fanciulli, che non sono stati ridipinti. Il personaggio vestito di nero davanti al plotone di cavalieri è probabilmente il duca d’Alba. 

Foto: © Her Majesty Queen Elizabeth II, 2018 / Bridgeman / Aci

La mietitura

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La mietitura

Realizzata da Bruegel nel 1565 per il banchiere di Anversa Niclaes Jonghelinck, la serie Mesi illustra la vita ciclica, difficile e monotona della campagna. L’opera era composta da sei quadri dedicati ai lavori campestri secondo i periodi dell’anno (due mesi per quadro), anche se solo cinque di essi sono giunti fino a noi. In Mietitura Bruegel ritrae l’attività agricola ad agosto e settembre. In questa vista panoramica del paesaggio si possono osservare alcuni contadini che falciano il grano e legano i covoni da terra mentre altri, seduti all’ombra di un albero, riposano, bevono da una brocca e mangiano avena, pere, formaggio e pane. Alcune figure visibili in lontananza raccolgono mele, si bagnano in un lago e si dedicano ad attività ricreative. Il calore soffocante emerge dal modo in cui Bruegel tratta il paesaggio e gli effetti del clima – due delle sue grandi innovazioni.

In un cielo senza nuvole il sole di mezzogiorno offusca i colori brillanti e bagna la terra di tonalità dorate. Dall’altopiano dove si trovano i contadini il pittore invita a guardare verso il basso, attraverso una distesa verde segnata da filari di alberi e sentieri, fino a raggiungere il porto e il mare che si perde in lontananza.

È considerato uno dei primi paesaggi moderni dell’arte occidentale. Bruegel cerca di dare al panorama una realistica profondità di campo grazie all’uso della prospettiva aerea: le figure più lontane non sono solo più piccole, ma anche più sfumate e azzurrine per la densità dell’aria.

 

Foto: Fine Art / Album

Ritorno della madria

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Ritorno della madria

 

In un altro quadro della stessa serie dedicato ai mesi di ottobre e novembre, i contadini conducono gli animali giù dai pascoli di montagna, quando il calore estivo ha ormai ceduto il passo al freddo e al maltempo. Gli alberi hanno perso le foglie e il sentiero è fangoso. I mandriani risalgono lentamente una collina in direzione del villaggio pungolando il bestiame. In lontananza un fiume scorre all’ombra delle vette montane minacciate dalla tormenta.

Non è facile la vita di questi uomini infreddoliti, immersi in un ambiente imponente e desolato. Una volta in paese, gli animali verranno rinchiusi nei fienili o nelle piccole abitazioni dove le famiglie vivono ammassate in un’unica stanza, con i pagliericci ricoperti di pulci e pidocchi.

Nei suoi paesaggi Bruegel ritrae i contadini integrati nell’ambiente. Il clima è visto come la manifestazione esterna di una natura che governa la vita di donne e uomini. Come le stagioni si susseguono periodicamente, così anche l’essere umano ha il suo ciclo, che va dalla nascita fino alla morte. Rose-Marie e Rainer Hagen hanno fatto notare che in questa scena i mandriani sono dipinti con gli stessi colori del bestiame, per mostrare che gli uomini non sono i signori della natura, ma semplicemente una parte di essa. 

Foto: Akg / Album

Santa Brigida e sua figlia, due crani per niente familiari

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Santa Brigida e sua figlia, due crani per niente familiari

Non è una santa qualsiasi. È la patrona di Svezia e delle vedove, e dal 1999 è anche una delle tre patrone d’Europa nominate, motu proprio, da Giovanni Paolo II. Brigida di Svezia era una cattolica fervente del XIV secolo, che oltre ad avere visioni premonitrici e a godere di apparizioni divine nel corso di tutta la sua vita, fondò un ordine religioso. Morì a Roma dopo essere stata in pellegrinaggio in Terra Santa. I suoi resti furono portati nella località svedese di Vadstena (nella foto) e lì vennero sepolti. Brigida fu canonizzata nel 1391 e, cinque anni dopo, fu nominata patrona di Svezia. Da allora i pellegrini si recano a venerare i suoi resti e quelli di sua figlia, santa Caterina: i crani sono conservati in due scrigni esposti nell’abbazia di Vadstena.

Nel 2010 il Dipartimento di genetica e patologia dell’Università di Uppsala ha compiuto una minuziosa analisi di antropologia forense e del DNA mitocondriale sulle reliquie di santa Brigida e della figlia, santa Caterina. Le conclusioni sono state deludenti, almeno per le autorità ecclesiastiche. Mentre è noto che la Brigida storica visse tra il 1303 e il 1373, le analisi del cranio della persona più anziana hanno rivelato che era appartenuto a una donna vissuta tra il 1215 e il 1270, ovvero un secolo prima della santa. E, come se non bastasse, i due teschi non avevano nessuna relazione familiare tra loro, pertanto le proprietarie non potevano essere madre e figlia. La verità scientifica ha pertanto contraddetto una tradizione religiosa vecchia di 600 anni. Che fare? Lasciare le cose come stanno: i due crani continuano a essere venerati esattamente come prima

 

Foto: Dea / Age Fotostock

Filippo II, il collezionista di reliquie

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Filippo II, il collezionista di reliquie

Fra José de Sigüenza, consigliere del re spagnolo Filippo II, definì «santa avarizia» l’ossessione del sovrano di accumulare resti di uomini e donne canonizzati. Dicono che arrivò a mettere insieme un tesoro di 7.422 reliquie nel monastero dell’Escorial. Tra esse si annoveravano 12 corpi interi, 144 teste e 306 ossa lunghe, anche se la maggioranza, circa quattromila, erano reliquie piccole. Padre Sigüenza riferiva: «Non abbiamo notizia di nessun santo del quale ci manchino reliquie, eccetto san Giuseppe, san Giovanni Evangelista e Giacomo il Maggiore». Filippo II fece costruire due altari speciali ai lati dell’altare maggiore della basilica dell’Escorial e diede incarico di fabbricare centinaia di reliquiari per custodire la sua collezione. Questa ossessione lo portò a collegare il buon esito di alcune sue decisioni all’acquisizione di determinate reliquie: quando decise di sposarsi con sua nipote, l’arciduchessa Anna, volle comprare la testa di sant’Anna in modo che «colei che porta il suo nome avesse più devozione per questa casa», come lo stesso monarca riferiva in una lettera al duca d’Alba. Per alleviare i costanti dolori, nella fase finale della sua vita volle con sé alcune reliquie, che baciava e cui chiedeva aiuto. Si faceva inumidire il letto con acqua santa e si passava un lignum crucis sulle zone più dolenti. Il re morì il 13 settembre 1598 circondato dalle sue reliquie preferite: un pelo della barba di Cristo, un capello della Vergine, il ginocchio di san Sebastiano, un braccio di san Vicenzo Ferrer e la costola del vescovo Albano.

L'altare di San Girolamo ritratto nella foto si trova nella navata sinistra della basilica del monastero dell’Escorial ed era stato destinato alle reliquie di santi e martiri di sesso maschile, secondo la distribuzione fatta da fra Juan de San Jerónimo, incaricato da Filippo II di gestire le reliquie. Nella navata destra del tempio si trova l’altare dell’Annunciazione, dove si conservano le reliquie delle sante e delle martiri

 

Foto: Oronoz / Album

Il legno della croce di Cristo

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Il legno della croce di Cristo

Nel Medioevo il possesso di un frammento di lignum crucis, o Vera Croce, il legno della croce sulla quale si racconta che morì Gesù, venne rivendicato da diverse chiese di città come Limburg, in Germania, o Napoli e Genova in Italia. In Spagna si conoscono le reliquie del monastero di Liébana (in Cantabria) e del santuario della Vera Cruz (nell'immagine ne è ritratta la cappella) nella località di Caravaca de la Cruz, in provincia di Murcia.

Secondo una leggenda, la croce di Caravaca fu portata nel 1231 da due angeli mentre un sacerdote diceva messa davanti a un re almohade scettico. Il frammento di legno, conservato in un reliquiario a forma di croce patriarcale, venne rubato tre volte: dopo le prime due fu ancora possibile recuperarlo, però la terza – nel febbraio del 1934 – fu quella definitiva. Il giornale La Verdad de Murcia riferiva: «Caravaca è in lutto. Una mano criminale e profana ha sottratto il gioiello più prezioso dal sacrario in cui era venerato». Un martedì di carnevale uno sconosciuto era entrato nel santuario facendo un foro in una delle porte e si era impossessato del reliquiario con la scheggia di legno sacro. Non gli interessava nient’altro del tempio. Non pensò nemmeno di portare via la piccola urna d’argento del XIV secolo che conteneva il reliquiario a forma di croce.

I sospetti caddero subito sulle persone che abitavano nei pressi del castello-santuario (ci mancò poco che linciassero il prete). Di fatto, il furto è rimasto fino a oggi un mistero. Nel 1945 papa Pio XII donò a Caravaca due piccole schegge di legno della Vera Croce, che da allora sostituiscono i resti originali.

 

Foto: Hermes Images / Age Fotostock

Di chi è la mummia di San Marco?

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Di chi è la mummia di San Marco?

Se ci fidiamo delle cronache più antiche, il corpo dell’evangelista san Marco, morto e sepolto ad Alessandria d’Egitto tre secoli prima, fu consumato dalle fiamme durante le rivolte pagane avvenute nel IV secolo in quella città. Ma, allora, di chi è la mummia che si trova attualmente nella basilica di San Marco? La storia è impagabile. Si narra che due commercianti veneziani, Buono (o Tribunus) da Malamocco e Rustico da Torcello, arrivarono al porto di Alessandria nell’828 e andarono ad adorare i resti del santo, allora conservati in una chiesa che portava il suo nome. E lì videro una mummia. Il monaco Staurazio e il sacerdote della chiesa, Teodoro, entrambi custodi del tempio e della reliquia, gli dissero che si trattava di san Marco. Quindi annunciarono ai commercianti che la chiesa sarebbe stata distrutta per erigere al suo posto una moschea, come i musulmani stavano già facendo in altri luoghi della città. Buono e Rustico non esitarono a chiedere aiuto a Staurazio e Teodoro per riuscire a impadronirsi del corpo santo (o perlomeno ritenuto tale) e portarlo nella loro città natale, Venezia. Questa è proprio la scena ritratta nel mosaico della foto, che si trova nella Basilica di San Marco a Venezia. Il corpo fu sostituito con quello di santa Claudia, di modo che nessuno avrebbe sospettato il furto. Il doge di Venezia accolse le reliquie con grandi onorificenze. Di fatto, non si sa esattamente chi furono gli ingannati, visto che i copti credono che la testa del santo rimase nella chiesa di San Marco di Alessandria. A meno che – come sostengono alcuni – a Venezia non fosse giunto il corpo mummificato di Alessandro Magno...

Foto: Scala, Firenze

Le undicimila vergini di Sant'Orsola

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Le undicimila vergini di Sant'Orsola

Una leggenda medievale racconta che nel V secolo un re della Britannia promise sua figlia, convertita al cristianesimo, a un nobile pagano. Prima di consumare il matrimonio la giovane, Orsola, intraprese un pellegrinaggio a Roma insieme a dieci compagne. Al ritorno, mentre giungevano all’attuale Colonia, in Germania, caddero nelle mani degli unni di Attila, i quali – se si trattava di omicidi e sequestri – non andavano molto per il sottile. L’agiografia dice che le undici donzelle morirono martiri per difendere la loro verginità: pertanto, con il tempo, furono elevate agli altari. Un documento dell’anno 922, trovato in un monastero vicino a Colonia, raccontava la storia di sant’Orsola e accennava al martirio di XIm virginum, che si sarebbe dovuto leggere come undecim martires virginum, “undici martiri vergini”. Invece, il testo fu interpretato come undecim millia virginum, “undicimila vergini”. Per secoli questo errore venne preso per verità, e la leggenda si consolidò sotto forma di teste e ossa di queste presunte undicimila vergini che, grazie alla furbizia dei truffatori, nel corso del Medioevo inondarono una gran quantità di templi cristiani in tutta Europa. La storia ha ispirato anche l’opera di scrittori e artisti, come Vittore Carpaccio, che tra il 1490 e il 1495 realizzò un ciclo di nove teleri per la Scuola di Sant’Orsola a Venezia. I nove dipinti, oggi custoditi presso le Gallerie dell’Accademia della città, ricostruiscono la vita della santa fino alla sua apoteosi.   

Questo reliquiario del XV secolo, opera di Hans Memling, riproduce diversi episodi della storia di sant’Orsola e delle undicimila vergini. Da sinistra a destra vediamo la partenza da Basilea, l’arrivo a Colonia con il martirio delle vergini e, infine, il supplizio di Orsola da parte degli unni. Nei medaglioni superiori si apprezzano un angelo che suona il liuto (a sinistra) e l’incoronazione della Vergine (al centro). Hans Memling Museum, Bruges.

 

Foto: Erich Lessing / Album

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