Il primo settembre 1923 un tremendo sisma devasta la regione del Kantō, nell’isola giapponese di Honshū. Rade al suolo buona parte delle città di Tokyo, Yokohama e Kawasaki, generando incendi, alluvioni, un tornado di fuoco e uno tsunami. Nel folklore giapponese, i terremoti – molto frequenti nel Paese – sarebbero causati dalla coda irrequieta di un gigantesco pesce gatto (namazu), sfuggito al controllo del dio Kashima. Come sottolinea l’antropologa Hannah Gould nell'articolo “Exhibiting disaster”, questi animali «erano considerati gli dei della rettifica, in cui il cambiamento positivo è portato attraverso la distruzione».
L'illustrazione mostra degli uomini intenti a combattere il grande pescegatto Namazu
Foto: Pubblico dominio
L'origine dei disastri naturali era spesso imputata alla cattiva condotta della società, che dal 1868 in poi – ovvero nel periodo Meiji – si mostra progressivamente più aperta all’Occidente e lontana dalla tradizione. Il giudizio si abbatte in particolare sulle donne, che vivono le città sfidando gli stereotipi e l’idea di femminile tipica della cultura nipponica. Tuttavia, è proprio il tradizionale abito giapponese a causare la morte di moltissime donne, impedendo loro di mettersi in salvo dal terremoto e dagli incendi.
Cronaca del disastro
Il primo settembre 1923 segna un punto di non ritorno nella storia del Giappone. Verso mezzogiorno, una violenta scossa (stimata tra i 7.9 e gli 8.2 gradi della scala Richter) sconquassa gli edifici e le strade, scatenando il panico. È mezzogiorno, e molte persone sono rientrate a casa per pranzare. Le abitazioni popolari – costruite in legno – vengono divorate dalle fiamme, divampate probabilmente dai focolai domestici. L’incendio dilaga fino a generare un tornado di fuoco, mentre dall’oceano uno tsunami di dodici metri si abbatte sulla baia di Sagami. I morti sono più di 100mila, con oltre 570mila case distrutte e quasi due milioni di sfollati. La maggioranza delle vittime è costituita da donne, seguite da anziani e bambini: chi non è riuscito a scappare in tempo perché troppo fragile, giovane o perché intrappolato nelle case e, nel caso delle donne, rallentato dal kimono e dagli altissimi sandali. È il peggior disastro naturale registrato nella storia del Paese: si stima che l’energia prodotta dal sisma fosse pari a quattrocento bombe atomiche della taglia di quella sganciata su Hiroshima.
Un esempio della distruzione causata dal sisma del Kanto
Foto: Pubblico dominio
Le calamità naturali esulano dal controllo dell’uomo, che di fronte alla propria impotenza cerca spiegazioni al limite tra razionalità e superstizione. Il terremoto del Kantō non fa eccezione: leader politici, giornalisti, sacerdoti e parte dell’opinione pubblica giapponese lo interpretano come una punizione divina per la decadenza, l’individualismo, la frivolezza e il materialismo della società contemporanea. A riprova di questa tesi, si sottolinea come la distruzione abbia interessato soprattutto i distretti commerciali e i luoghi di aggregazione, in cui il numero di vittime è altissimo. Tra questi c’è il distretto a luci rosse Yoshiwara – il più famoso ed esteso di Tokyo –, dove le donne hanno pagato il prezzo più alto. Quando le fiamme hanno raggiunto le case di piacere, molte hanno cercato di scappare, trovando i cancelli d’ingresso sbarrati. La salvezza non è un’opzione per chi non ha buona condotta morale: disperate, si sono gettate nel fiume sperando di sopravvivere. Furono ritrovati 490 corpi: la maggioranza delle vittime aveva meno di vent’anni.
Il prezzo della dignità
Paradossalmente, malgrado il giudizio severo dell'opinione pubblica il terremoto del 1923 accelera la transizione sociale e culturale del Giappone, che era stata avviata nella seconda metà del XIX secolo su impulso della dinastia Meiji. Lo sguardo del Sol levante si rivolge a Occidente: oltre a importare conoscenze e tecnologie, l’attenzione si focalizza sulla moda europea, che ben presto diviene simbolo di potere ed emancipazione. Già dal 1850 si registrano importazioni di abiti realizzati in Occidente: i primi a utilizzarli sono gli ufficiali dell’armata militare e della marina, seguiti dalla nobiltà e da chi vanta un impiego statale, considerato di grande prestigio. La nuova moda fatica ad imporsi tra la popolazione, che fino alla prima metà del XX secolo rimane legata alla tradizione. L’unica eccezione riguarda le Moga (abbreviazione di “modern girl”), donne che già tra 1910 e 1920 scelgono di vestire all’occidentale, spesso attirando sguardi di ammirazione e invidia.
Donne giapponesi alla fine del XIX secolo, con indosso i kimono e le calzature tipiche
Foto: Cordon Press
Nel disastro del Kantō molto è andato perduto – abiti compresi – e le fabbriche tessili sopravvissute trovano conveniente riconvertirsi al trend occidentale, importando abiti e stili di lavorazione. Tra i motivi del cambiamento, c’è la convinzione che il kimono sia ormai troppo pericoloso per lo stile di vita moderno. Un’ipotesi rafforzata da un altro terribile incendio scoppiato pochi anni più tardi allo Shirokiya department store di Tokyo. Anche in questo caso la maggior parte delle vittime sono donne – molte delle quali erano commesse – a cui l’abito tradizionale ha impedito di mettersi in salvo e guidare verso l’uscita i clienti. Nelle cronache dell’epoca si legge che alcune vittime hanno rifiutato di gettarsi nelle reti di salvataggio per pudore: il salto dalle finestre avrebbe mostrato il corpo nascosto sotto al kimono, compromettendo la loro dignità.
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Verso una nuova identità
La strage del 1923 porta l'attenzione su un movimento sorto già l’anno precedente: in una lezione intitolata "Improvement of clothing" ("migliorare l'abbigliamento") la docente accademica Hamako Tsukamoto sostiene che le donne debbano iniziare a indossare abiti occidentali. La stessa tesi è sostenuta da Takako Kaetsu (fondatrice della prima scuola privata femminile giapponese), secondo la quale durante il terremoto del Kantō il kimono fu causa di morte per molte donne: l’abito stretto e i sandali in legno (geta) avrebbero impedito loro di scappare e mettersi in salvo. Il bisogno d’introdurre un cambiamento si riflette sul comparto produttivo: nel 1924 viene costituita un’associazione per l’industria dell’abbigliamento di donne e bambini di Tokyo (Tokyo Women’s and Children’s Clothing Industry Association) che contribuisce alla rinascita dell’industria tessile giapponese. Da allora prende il via un processo di modernizzazione che inizia dall’abbigliamento e accompagna la crescente apertura del Giappone all’Occidente.
Sarte di corte giapponesi con indosso abiti occidentali
Foto: Cordon Press
La grande ricostruzione post-sismica dura diversi anni e cambia profondamente il volto delle città nipponiche: si realizzano strade più ampie, case in mattoni e architetture studiate per resistere alle oscillazioni dei terremoti, che rimangono una costante per l’arcipelago giapponese. Anche la tradizione integra in parte il cambiamento in atto, a partire dall’abbigliamento: verso la metà del XX secolo la maggior parte delle donne lavoratrici e una minoranza di casalinghe adotta abiti occidentali, considerati più pratici e meno costosi. Lo stesso kimono cambia linea e integra nuovi materiali e fantasie importate dall’Occidente: in seguito sarà utilizzato principalmente durante e cerimonie tradizionali e in contesti privati. L'evoluzione dell'abito giapponese per eccellenza incarna i cambiamenti di un secolo, in cui le diseguaglianze sociali e di genere si sono abbattute sulla popolazione con la stessa forza delle catastrofi naturali. La consapevolezza di quanto accaduto ha dato l’impulso per abbracciare un profondo cambiamento sociale verso il mondo contemporaneo.
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