Quest’incisione pubblicata nel 1880 mostra una vestale intenta a effettuare delle libagioni di olio sul fuoco sacro di Vesta e a istruire le future vestali sull’importanza dei loro doveri
Foto: Renfields Garden / Getty images. Colore: Santi Pérez
Marco Licinio Crasso era uno dei più ricchi e potenti cittadini romani del I secolo a.C. Eppure perse quasi tutto quando venne accusato di essere troppo intimo con la vestale Licinia. Questa non è una storia romantica: Crasso voleva sedurre Licinia per riuscire a mettere le mani su una villa che le apparteneva. Crasso fu assolto, ed entrambi ebbero salva la vita. Uno degli elementi più sorprendenti di questa storia è il fatto che Licinia avesse delle proprietà, dato che nella Roma antica non era una pratica comune per le donne possederne. Ma non è una circostanza casuale: Licinia aveva il diritto di avere proprietà perché era una vestale. La storia del suo processo dimostra anche il fatto che questa prerogativa avesse un prezzo: una vestale doveva rimanere vergine. Il calendario dell’antica Roma era segnato da numerose festività religiose, che venivano officiate da un’ampia varietà di sacerdoti: pontefici, àuguri, flamini, feziali, salii…
Ma a Roma c’era anche un sacerdozio di esclusiva competenza femminile: quello consacrato alla dea del focolare, Vesta (l’equivalente della greca Estia). Le sacerdotesse vestali, e in particolare la Vestalis maxima, la più eminente di loro, erano le “matrone di stato” per eccellenza, modello di ogni mater familias. La loro carriera iniziava tra i sei e i dieci anni, quando le bambine erano captae, cioè arruolate, dal pontefice massimo. Il verbo capio significa “prendere”, “rapire”, retaggio dell’arcaico rapimento vero e proprio della sposa. Le sacerdotesse erano selezionate all’interno delle migliori famiglie romane: dovevano essere libere per nascita, patrizie (nei primi secoli), con i genitori in vita, il padre residente in Italia ed esenti da imperfezioni fisiche. Vi erano alcuni impedimenti, poi, legati all’appartenenza a gentes in cui fossero presenti personaggi con determinati incarichi politici o religiosi. Le vergini venivano investite del ruolo durante una cerimonia pubblica, attraverso una formula rituale pronunciata dal pontefice massimo e rimanevano in carica trent’anni. Durante questo periodo avevano appunto l’obbligo di rimanere vergini.
Il compito principale delle vestali era evitare lo spegnimento della fiamma sacra che ardeva in onore della dea Vesta, raffigurata in quest’olio del XVII secolo di Ciro Ferri
Foto: Scala, Firenze
Il ruolo delle sacerdotesse vestali non era solo religioso, ma anche politico. A Roma l’intera organizzazione collettiva e statale era vista come un’emanazione della famiglia: lo stato era concepito come un’unica grande stirpe che comprendeva tutti i lignaggi della città, le cosiddette gentes. Ecco perché al centro di Roma ardeva un fuoco sacro, in analogia con l’organizzazione della domus, che gravitava attorno a un focolare originariamente situato nell’atrio (termine che deriva dal latino ater, “scuro”, a causa del fumo, anche se questo ambiente divenne in seguito una specie di cortile interno). Il fuoco sacro della città era ospitato nel tempio di Vesta, dove le sacerdotesse della dea erano incaricate di custodirlo. Il parallelismo tra lo stato e la famiglia spiega anche le similitudini esistenti tra il comportamento delle vestali e quello delle donne che si ispiravano all’ideale della matrona romana.
Sposate con lo stato
La stretta relazione tra sacerdotesse e matrone è evidente nell’aspetto delle une e delle altre: mogli e madri romane dovevano essere immediatamente riconoscibili dal loro abbigliamento in quanto donne honestae, e così anche le vestali. Inoltre, allo stesso modo in cui la novella sposa abbandonava l’abitudine dei capelli sciolti, alle vestali i capelli venivano recisi in un rito pubblico, per poi essere appesi a un albero, forse un loto.
La vestalis maxima era la sacerdotessa più importante di Roma e aveva la responsabilità di sorvegliare le altre. La statua del II secolo d.C. raffigura la vestale massima con il suo abito tradizionale
Foto: Akg / Album
Ancora, queste due tipologie femminili erano accomunate dalla vitta crinalis, una benda o nastro che aiutava a tener ferma la pettinatura. Anche la divisione dei capelli in sei ciocche o trecce, i sei crines posti sul capo delle vestali dopo la tonsura rituale (sulla cui forma e concetto tanto hanno disquisito storici e archeologi), fu usuale anche per le matrone. Era identico perfino l’uso della stola, veste lunga fino ai piedi, annodata in vita con un particolare nodo (detto “erculeo” per le vestali). L’elemento distintivo era il suffibulum, un lembo di stoffa quadrangolare posto sul capo durante i sacrifici per le vestali, mentre alle spose spettava il flammeum, il velo nuziale arancio-rosso, colore simbolo del matrimonio anche per la sua affinità con quello del fuoco, che risplendeva nelle case e nel tempio di Vesta.
Perfette “donne di casa” – sia che quest’ultima fosse la domus privata per le donne maritate o la “casa di Roma”, cioè l’aedes Vestae per le vestali –, dovevano osservare gli antichi usi e costumi delle romane, cercando di evitare nel modo più assoluto di uscire dal solco della tradizione: per i romani la trasgressione femminile era una colpa tremenda, punita severamente. Anche le sacerdotesse avevano obblighi precisi. Il primo era quello di fare in modo che il “fuoco di stato” non si estinguesse mai a parte lo spegnimento rituale, voluto, del primo marzo, primo giorno dell’anno romuleo.
Durante la festività della bona dea le vestali interpretarono una fiamma come un presagio favorevole. Incisione a colori
Foto: Mary Evans / Age Fotostock
Il secondo, custodire nella parte più intima del tempio della dea (penus) alcuni talismani segreti e preziosissimi, tra cui un fallo sacro, il fascinus, beneaugurante come quelli all’esterno dei negozi pompeiani. Nel penus erano conservati anche i penati di Roma, e forse il Palladio – la statua di Pallade Atena che Enea, fuggito da Troia, aveva portato con sé in Italia e che garantiva la protezione degli dei. Infine, le vestali dovevano realizzare la mola salsa, una preparazione a base di farro e sale utilizzata tre volte all’anno durante le feste ufficiali e la muries, condimento sacro cotto in forno, sempre di uso rituale.
Punizioni esemplari
Donne di casa e vestali si somigliano anche nella durezza delle punizioni che ricevevano. Il diritto romano prevedeva vari tipi di punizioni per le mogli che non mantenevano un comportamento “onorevole”, come il ripudio o il divorzio. Nel caso delle vestali i castighi erano molto più severi dato che, secondo la mentalità romana, la loro trasgressione avrebbe certamente compromesso il buon andamento dello stato. Se una vestale lasciava che il fuoco sacro di Roma si spegnesse, veniva meno al suo compito originario di “custodire la casa”, il primo dovere di ogni donna sposata. La punizione in casi simili era la fustigazione, che veniva inflitta in un luogo appartato e sul corpo coperto, per rispetto nei confronti del suo pudore verginale.
Ancor più grave era la violazione dell’obbligo di castità. La relazione sessuale tra una vestale e un uomo veniva definita incestum, un termine che diventa comprensibile solo se si considera che le vestali erano ritenute le “madri” di ogni cittadino romano. Qui era la virtù matronale a essere stata violata, il casta fuit con cui erano elogiate le donne defunte, e la castità di una vestale valeva molto di più!
In quest'incisione la vestale Minucia è condotta al luogo del supplizio dove sarà sepolta viva
Illustrazione: Mary Evans / Scala, Firenze. Colore: Santi Pérez
La sanzione fu terribile a partire dagli ultimi re etruschi e consisteva nel venir sepolta viva nel cosiddetto Campus Sceleratus, a Roma, presso porta Collina (attuale area di via XX Settembre). La punizione fu inflitta per prima a Pinaria, forse personaggio leggendario dell’epoca di Tarquinio Prisco. Il pontefice massimo, contraltare pubblico del pater familias privato, aveva il potere indiscusso di giudicare e punire le vestali ree, poiché erano parte del collegio pontificale che lui dirigeva. È degno di nota osservare che tale luogo del supplizio fosse collocato entro il pomerium di Roma – contro ogni regola giuridico-religiosa romana, che prevedeva sepolture sempre extramurane – e che alla vestale non era tórto un capello. Ciò si spiega con la sacralità delle sacerdotesse, che non potevano essere uccise perché appartenenti agli dei. Il “complice”, invece, misero essere soltanto umano, veniva fustigato a morte, nudo, nel foro.
Pagarono amaramente l’appagamento del loro desiderio sessuale, ad esempio, Opimia, che frequentò addirittura due uomini secondo le accuse, Minucia, denunciata da uno schiavo, o Cornelia, accusata da Domiziano. Tutte furono mandate a morte defossa viva.
La vestale Oppia agonizza dopo essere stata sepolta viva. Incisione di Ballarini. Storia d'Italia. Luigi Stefanoni, 1882
Illustrazione: Mary Evans / Scala, Firenze. Colore: Santi Pérez
Quando l’ufficio trentennale della vestale si concludeva (dieci anni come apprendista, dieci come custode del fuoco e dieci come formatrice delle giovani) – pur avendo un’età decisamente avanzata per i tempi e considerato il fatto straordinario che restava comunque priva della tutela maschile - la ex sacerdotessa poteva sposarsi.
Dunque, finché era “in servizio” prevaleva il suo dovere verso la patria. Invece, cessata la carica poteva diventare una sposa qualunque: testimonianza ulteriore dello stretto legame tra le mogli e le ex vergini sacre. In un’antica cerimonia di cui si sa poco, le vestali si rivolgevano alla massima autorità religiosa di Roma, il rex sacrorum, così: Vigilasne, rex? Vigila! In altre parole: “Allora, re, vigili o no sullo stato?”. Il tono familiare, molto simile a quello di una moglie verso il marito, ben illustra l’analogia esistente tra le antiche vestali e le matrone romane.