Uno spaccato dell'orrore che avvenne a Verdun, un comune francese del dipartimento della Mosa nella regione del Grand Est, è il messaggio che un giovane soldato tedesco di nome Johannes Has scrisse ai genitori da una delle trincee: «Cari genitori, sono sdraiato sul campo di battaglia e ho una pallottola in pancia. Credo di star per morire». Il 18 dicembre 1916 segnerà la fine di quella terribile carneficina, uno scenario di orrore dove ormai regnava il silenzio. Le trincee in cui tanti giovani vissero e morirono sono diventate una metafora della profonda cicatrice che si aprì tra Francia e Germania.
Soldati dell’artiglieri francese sul fronte della battaglia di Verdun
Foto: Pubblico dominio
Preparazione della carneficina
«La fine della guerra del 1870, che oppose i francesi ai prussiani, fu decisa a Parigi; la fine di questa guerra sarà decisa a Verdun», disse il Kaiser Guglielmo II il 1° aprile 1916, quando la battaglia, che infuriava da sei settimane, aveva già fatto più di 100mila vittime. L'opinione del sovrano tedesco si basava sul giudizio del generale Erich von Falkenhayn, che aveva aperto due fronti, uno in Russia e l'altro a Verdun. Indignato dalla pedanteria mostrata da von Falkenhayn durante il conflitto, Erich Ludendorff, uno dei più brillanti generali tedeschi, arrivò a dire di lui: «Posso odiare quell'uomo e lo odio». Qualunque cosa il generale Ludendorff pensasse del suo collega, però, questi aveva il favore dello stato maggiore e alla fine del 1915 aveva elaborato un piano di attacco a Verdun.
Il Kaiser Guglielmo II si fidava del giudizio del generale Erich von Falkenhayn, che aveva aperto due fronti, uno in Russia e l'altro a Verdun
L'intelligence tedesca aveva riferito che l'artiglieria e la fanteria francesi si erano ritirate dalla zona per spostarsi in altri punti dove si stavano svolgendo accaniti combattimenti. Ritenendo che un rapido attacco sul fianco francese sarebbe stato sufficiente a ribaltare la situazione, Von Falkenhayn elaborò una strategia che avrebbe costretto i francesi a mobilizzarsi in un unico punto e una volta lì attaccarli. Con i macchinari tedeschi in posizione, von Falkenhayn posizionò strategicamente oltre ottocento pezzi di artiglieria, ma il maltempo lo costrinse a rimandare l'attacco fino a quando la pioggia non si fosse attenuata.
L’inferno di Verdun
Foto: Cordon Press
Pioggia di fuoco e schegge
Alle 7.15 del 21 febbraio 1916 le porte dell'inferno si aprirono a Verdun. La "grande Berta", il temuto cannone tedesco da 420 mm in grado di sparare proiettili a dodici chilometri di distanza e di provocare crateri profondi sei metri, e l'efficace Skoda da 35 mm iniziarono ad aprire il fuoco. Alle quattro del pomeriggio più di un milione di granate era caduto dal cielo, trasformando il suolo francese in un paesaggio lunare pieno di crateri: le trincee erano crollate e la maggior parte dei difensori era sepolta sotto il fango. Al tenente colonnello Driant sembrò che la foresta «fosse spazzata da una tempesta, un uragano di pietre che continuava a crescere». E questo fu solo il primo dei 302 giorni che durò la battaglia.
Alle quattro del pomeriggio più di un milione di granate era caduto dal cielo, trasformando il suolo francese in un paesaggio lunare pieno di crateri
Il pittore e paesaggista tedesco Franz Marc, arruolatosi volontario qualche anno prima, scrisse dal fronte: «Ho visto le cose più terribili che l'immaginazione umana possa concepire». Una granata lo sventrò il 4 marzo, ma la cronaca di quella carneficina continuò per mano di un soldato francese che presidiava una mitragliatrice: «La trincea non esisteva più, era stata seppellita. Eravamo accovacciati all'interno delle buche create dalle granate, il fango di ogni esplosione ci seppelliva sempre più in profondità. I nostri stessi soldati feriti o accecati ci cadevano addosso ruggendo e urlando. Morivano sprizzando sangue».
L’esplosione di una granata a Verdun
Foto: Cordon Press
Il 10 aprile il capitano Cochin descrisse in una lettera i primi giorni dell'assalto: «Sono di ritorno dalla prova più dura della mia vita: quattro giorni e quattro notti, novantadue ore, gli ultimi due giorni sommerso nel fango gelido, sotto un terribile bombardamento, senza altro riparo che la ristrettezza della trincea, che appariva persino troppo larga; non un buco, non una grotta, niente [...] Sono arrivato lì con 175 uomini; sono tornato con trentaquattro, molti dei quali impazziti». Dopo quell'attacco piovve ininterrottamente per dodici giorni. La cronaca ufficiale tedesca racconta: «L'acqua nelle trincee arrivava fino alle ginocchia; non c'era nemmeno una grotta che potesse offrire un alloggio asciutto. Il numero di malati cresceva in modo allarmante».
Un angelo custode a quattro zampe
Erich von Falkenhayn aveva previsto che le forze francesi si sarebbero «dissanguate goccia a goccia» sotto il bombardamento, ma ciò che non poté prevedere fu che durante l'avanzata della fanteria questa non sarebbe stata protetta dall'artiglieria e che la pioggia e la neve avrebbero trasformato le foreste di Verdun, devastate dalle granate, in un'enorme piscina di fango che avrebbe impedito ai cannoni pesanti di avanzare. L'organizzazione della difesa francese fu affidata al generale Philippe Pétain, che ideò un sistema basato sulla logistica: mantenne aperta l'arteria principale che portava a Verdun, su cui circolavano seimila camion al giorno per sfamare l'intera popolazione durante l'assedio tedesco, più tardi conosciuta come la Via Sacra. Fu lo stesso Pétain a dire ai suoi collaboratori: «On les aura!» (li prenderemo). Ma la frase più famosa fu pronunciata dal suo comandante in seconda, il generale Robert Nivelle, che arringò i suoi uomini al grido di: «Ils ne passeront pas!» (non passeranno).
Verdun bombardata
Foto: Cordon Press
A Verdun, Pétain incontrò Charles de Gaulle, allora giovane capitano di venticinque anni, che fu uno dei primi a essere ferito, ma venne decorato per le sue audaci intercettazioni nelle trincee nemiche. Tornato al fronte, De Gaulle fu ferito da baionette, schegge, mine e gas, oltre a essere catturato dai tedeschi e a cimentarsi in cinque tentativi di fuga.
Pétain mantenne aperta l'arteria principale che portava a Verdun, su cui circolavano seimila camion al giorno per sfamare l'intera popolazione durante l'assedio tedesco
Non meno coraggioso delle sue controparti umane fu Satan, un incrocio tra un levriero e un collie addestrato come cane messaggero. In quei giorni una posizione francese stava venendo massacrata dall'artiglieria tedesca e con essa i suoi difensori, ai quali erano rimaste poche munizioni. All'improvviso, i disperati soldati francesi videro una strana sagoma nera che attraversava le linee nemiche e si dirigeva verso la loro posizione. Era Satan, con una maschera antigas, bisacce e un messaggio legato al collo. In quel momento un proiettile tedesco lo colpì alla gamba e il cane cadde, ma tornò a rialzarsi e, zoppicando, continuò a correre verso le trincee francesi. Il messaggio recitava: «Per l'amor di Dio, resistete! Domani invieremo i rinforzi». Nelle bisacce che Satana portava legate alla schiena c'erano due piccioni viaggiatori. I soldati annotarono le coordinate dell'artiglieria tedesca e le inviarono con i piccioni. Uno di loro fu abbattuto, ma l'altro arrivò a destinazione e l'artiglieria francese riuscì a mettere a tacere definitivamente quella tedesca e a liberare i suoi. Di diabolico Satan aveva solo il nome, perché divenne un vero e proprio angelo custode per l'esercito francese.
Il generale Pétain a Verdun
Foto: Cordon Press
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Una generazione perduta
Il 18 dicembre 1916, poco prima della vigilia di Natale, i cannoni tacquero. Verdun era stata salvata, ma a un costo enorme: 700mila perdite (305mila morti e 400mila feriti), quasi equamente divise tra le due parti. Il consumo di munizioni nei primi sette mesi ammontava a 24 milioni di proiettili, nove villaggi erano stati cancellati dalla mappa e il paesaggio era carbonizzato. I quattro milioni di proiettili caduti sulla collina di Mort-Homme, dove oggi si trova un monumento commemorativo della battaglia, la trasformarono in un vulcano di fango e roccia. Sebbene le foreste ripiantate negli anni trenta siano cresciute fino a nascondere la maggior parte dei crateri di granata, i visitatori odierni del campo di battaglia possono ancora vedere un paesaggio lunare modellato da circa cinquanta granate per metro quadrato. Cento anni dopo al pubblico è ancora vietato l'accesso a circa 800 ettari di foresta, noti come Zone Rouge, a causa del pericolo che i milioni di proiettili caduti e non esplosi all'epoca possano farlo accidentalmente ora. Il Département du déminage (dipartimento dello sminamento) stima che nelle colline e nelle foreste intorno a Verdun rimangano ancora 12 milioni di granate inesplose.
I visitatori odierni del campo di battaglia possono ancora vedere un paesaggio lunare modellato da circa cinquanta granate per metro quadrato
Forse uno dei reporter che meglio descrisse quell'orrore fu Agustí Calvet Gaziel, inviato di La Vanguardia, un quotidiano spagnolo, che nella sua cronaca scrisse: «In una fossa giace un mucchio di cadaveri. La loro vista è orribile! I corpi sono mutilati, vestiti con uniformi militari stracciate, insanguinate e sudice. I volti appaiono contratti da macabri spasmi di rabbia e dolore supremo. Alcuni corpi sono stati fatti a pezzi. Nel mucchio ci sono arti staccati dal tronco [...]. Gli astanti rimangono con uno sguardo tetro d’infinita tenerezza davanti agli orribili resti dei loro fratelli, assorti, rassegnati, con gli occhi accesi dalla santa speranza di vendicare la loro morte».
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Orizzonti di gloria. Stanley Kubrick, 1957.