Il 29 luglio 1900 il re d’Italia Umberto I si recò a Monza per presiedere la cerimonia di chiusura di un concorso ginnico. Attorno alle dieci e trentacinque di sera il monarca decise di andarsene: mentre saliva a bordo della sua carrozza accompagnato da alcuni militari, improvvisamente un uomo si erse tra la folla e gli sparò uccidendolo. Il regicida si chiamava Gaetano Bresci.

Gaetano Bresci spara al re Umberto I al termine di una cerimonia sportiva tenutasi a Monza. Incisione di 'L’illustrazione italiana'
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Originario di Prato, tessitore di professione, era rientrato da poco dagli Stati Uniti, dov’era emigrato qualche anno prima. Bresci era un anarchico convinto e rivendicò la sua azione non appena arrestato: «Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un re, ho ucciso un principio». Il desiderio di vendetta dell’anarchico toscano veniva da lontano. Lavorando sin da giovanissimo in uno stabilimento tessile aveva conosciuto i turni massacranti, le angherie e la mancanza di garanzie cui erano soggetti i lavoratori. Bresci era parte attiva degli scioperi organizzati dalla sezione anarchica di Prato e nel 1892, poco più che ventenne, era stato condannato a quindici giorni di carcere per oltraggio alla forza pubblica e rifiuto d’obbedienza.
Per gli “anarchici pericolosi” come Bresci la vita non era facile, soprattutto dopo le leggi eccezionali emanate dal governo Crispi nel 1894 e la repressione dei moti popolari in Sicilia e Lunigiana. Migliaia gli oppositori erano stati assegnati al domicilio coatto, una misura preventiva che implicava l’obbligo di dimora in una determinata località. A Bresci era toccata l’isola di Lampedusa, dove era rimasto fino alla fine del 1896 quando, per effetto di un’amnistia ricevuta proprio da re Umberto I, era stato rimesso in libertà. Ma come tanti anarchici, considerati “malfattori”, alla fine aveva deciso di emigrare.

La cavalleria dell’esercito di Bava Beccaris in un viale di Milano nel 1898
Foto: Alinari / Cordon Press
Nell’inverno del 1897 si era imbarcato da Genova per New York sul piroscafo Columbia, stabilendosi a Paterson, nel New Jersey. Nella “città della seta”, dove lavorava soprattutto manodopera italiana immigrata, Bresci aveva trovato impiego nella ditta Hamil&Booth dove percepiva una paga di 14 dollari a settimana con cui manteneva la moglie Sophie Knieland e la piccola Maddalena. Il resto del tempo lo trascorreva all’hotel Bertoldi’s, dove gli appartenenti ai circoli anarchici discutevano di problematiche di lavoro e di emancipazione sociale. Dall’Italia, intanto, non arrivavano buone notizie.
Vendicare il popolo
Nel maggio 1898 era giunta una notizia che aveva impressionato fortemente il tessitore. I cannoni dell’esercito italiano agli ordini del generale Fiorenzo Bava Beccaris avevano sparato sulla folla, insorta per chiedere la riduzione del prezzo del pane, provocando un’ottantina di morti e centinaia di feriti. Il 5 giugno il re Umberto I si era mostrato «lieto ed orgoglioso di onorare la disciplina, l’abnegazione e il valore» delle truppe guidate dal generale, cui aveva conferito un’alta onorificenza. Il fatto aveva suscitato un risentimento tale nell’anarchico da portarlo alla pianificazione del regicidio. Alla fine di febbraio 1899 Bresci aveva acquistato una rivoltella della ditta Harrington&Richardson e cominciato a esercitarsi nel tiro a segno.
Il re si congratulò con i responsabili del massacro dei lavoratori milanesi
Ai primi di maggio aveva lasciato la fabbrica, ritirato le somme dovute e acquistato un biglietto per Le Havre sul piroscafo Gascogne, col quale era partito da New York alla volta dell’Europa il 17 maggio del 1900.
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Giunto insieme ad alcuni compagni a Parigi col proposito di visitare l’Esposizione universale, Bresci si era dedicato in quei giorni alla sua passione per la fotografia. Il 6 giugno era rientrato in Italia, destinazione Prato, per incontrare i pochi famigliari rimasti; nei giorni successivi era stato a Bologna, Piacenza, Milano e infine Monza, dove era arrivato il 27 luglio. La sera del 29 il regicida si confuse tra la folla del Parco reale che attendeva festante il re Umberto I al termine della premiazione di alcuni atleti. Intorno alle ventidue e trentacinque, mentre il sovrano risaliva sulla carrozza insieme al suo seguito, all’improvviso tre colpi sparati da distanza ravvicinata lo raggiunsero al petto, a un polmone e al collo. Dopo alcuni attimi di smarrimento la folla cercò di raggiungere l’attentatore per linciarlo, ma i carabinieri riuscirono a sottrarlo alle percosse. Trasportato in una sala della Villa reale, il re sarebbe morto di lì a poco. «Questa è l’ora del dolore», commentò il 30 luglio il Corriere della Sera; Il Messaggero parlò di «mano vigliacca di un volgare assassino», mentre Il Giorno apostrofò Bresci come «uno sciagurato che si deve, pel decoro del genere umano, credere un pazzo».

Tomba del re Umberto I nel Pantheon di Roma costruita su disegno di Giuseppe Sacconi
Foto: Akg / Album
Tutti i quotidiani uscirono listati a lutto a eccezione del socialista L’Avanti! che, pur sostenendo che il diritto alla vita «è sacro; chiunque vi attenta merita condanna», asseriva: «Col crescere degli errori del governo e del malcontento, crescono le follie e i delitti», additando come responsabili «il governo Pelloux e la folla reazionaria». Le manifestazioni popolari al grido di “viva Savoia” e “morte agli assassini” si accompagnavano alla richiesta di ripristino della pena capitale (in vigore in Italia fino al 1889) avanzata da alcuni senatori. Tra gli anarchici emigrati si moltiplicarono attestati di solidarietà a Bresci. Più cauto fu invece l’atteggiamento degli italiani residenti in patria, anche frutto di un’indiscriminata “caccia all’anarchico”.
Il processo si celebrò il 29 agosto 1900 in una Milano blindata per il timore d’insurrezioni. Rinchiuso prima a Monza e poi a Milano, a Bresci venne assegnato d’ufficio l’avvocato Luigi Martelli. Dopo il rifiuto del leader socialista Filippo Turati scelto dall’imputato, Martelli venne affiancato dall’avvocato ed ex anarchico Francesco Saverio Merlino. Nella requisitoria il procuratore generale Francesco Ricciuti cercò di bollare il gesto di Bresci come frutto di pura criminalità, commesso «da gente senza patria che minaccia di ricacciarci nelle peggiori epoche barbariche», aggiungendo che lo stesso «cammino dell’anarchia nel mondo è tracciato da atrocissimi delitti». Al contrario, l’arringa di Merlino mirava a dimostrare il “fattore politico” del gesto: «C’è stato chi [Bresci] ha creduto […] di opporre alla violenza del Governo la violenza privata». E aggiungeva: «Il regicidio non può essere un principio anarchico [ma] è stato praticato da tutti gli altri partiti politici».

Scena del processo a Bresci nel tribunale di Milano, in un’illustrazione sul quotidiano francese 'Le Petit Journal'
Foto: White Images / Scala, Firenze
L’avvocato di Bresci ne approfittò anche per denunciare le pratiche repressive dello stato. Nel suo intervento sottolineò come fosse necessario che chi aveva «opinioni contrarie al vigente ordinamento dello stato» potesse farle valere «per mezzo della propaganda pacifica». E poco più avanti affermava: «Per impedire il delitto non vi è che un solo metodo: la libertà per tutte le opinioni. Quando negate libertà a certe opinioni […] inducete la minoranza ad uscire anch’essa dal terreno della legalità».
La sentenza, in applicazione dell’articolo 117 del codice penale, sembrò a tutti scontata. A Bresci toccò la pena massima dell’ergastolo con sette anni d’isolamento, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, il pagamento delle spese, la perdita del diritto di far testamento e il sequestro dell’arma. «La vostra condanna mi lascerà indifferente […] Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione», furono le sue ultime parole.
Un prigioniero scomodo
Rinchiuso per cinque mesi a San Vittore a Milano, ai primi di dicembre Bresci prese il mare da La Spezia per raggiungere il reclusorio di Portolongone sull’isola d’Elba, dove sarebbe rimasto poche settimane. Il 23 gennaio del 1901 giunse nella prigione definitiva: il penitenziario di Santo Stefano, nei pressi dell’isola di Ventotene.

La morte di Bresci su 'Le Petit Journal'
Foto: White Images / Scala, Firenze
Il 22 maggio il suo corpo penzolerà legato a un asciugamano dalla finestra della cella. Secondo la versione ufficiale si tratterà di suicidio. Ma tra i detenuti circolerà sempre un’altra verità: perché il detenuto disponeva di un asciugamano quando il regolamento carcerario lo vietava? Come avrebbe potuto impiccarsi con le catene ai piedi e una sorveglianza continua? Sarà Sandro Pertini, che a Ventotene era stato confinato durante il fascismo, a darle voce istituzionale nel 1947: «Bresci è stato percosso a morte, poi hanno appeso il cadavere all’inferriata della sua cella di Santo Stefano».
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