«Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto». Trent'anni dopo quel 19 luglio 1992, questo è tutto quello che sappiamo degli attimi che precedono la strage di via d'Amelio, che costò la vita al magistrato Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (la prima agente donna a restare uccisa in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. A parlare è l'unico sopravvissuto, l'agente Antonino Vullo, che al momento dell'esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta giunte quel pomeriggio all'altezza del numero civico 21 di via Mariano D'Amelio a Palermo, il palazzo in cui viveva la madre del magistrato.
Un'immagine di via D'Amelio dopo l'attentato
Foto: Pubblico dominio
L'attentato arriva cinquantasette giorni dopo quello di Capaci, dove avevano perso la vita il suo collega e amico Giovanni Falcone insieme alla moglie e agli agenti della scorta, all'altezza di Isola delle Femmine, davanti allo svincolo per Capaci, nel tratto di strada che dall'aeroporto porta alla città. Una strage, quella di via d'Amelio, su cui si è consumato quello che i giudici del tribunale di Caltanissetta hanno definito come "il più grande depistaggio della storia d'Italia".
Chi era Paolo Borsellino
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940, si laurea con lode in giurisprudenza e nel 1963 diventa il più giovane magistrato italiano. Dopo alcune esperienze a Mazara del Vallo e Monreale, dal 1975 è impiegato presso l’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, dove si occupa di mafia. Lavora al fianco del giudice Rocco Chinnici, che in quegli anni mette al centro l'esigenza di una specializzazione dei magistrati sul tema della lotta mafia e l'idea di un lavoro in team per ricostruire collegamenti e rapporti fra le famiglie mafiose.
Dopo l’omicidio di Chinnici, nel 1983, a capo dell’ufficio viene nominato Antonino Caponnetto, che darà vita al “pool antimafia” di cui faranno parte – oltre a Borsellino – anche Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Nascono quindi indagini coordinate fra magistrati che seguono le diverse famiglie siciliane di Cosa nostra, in cui si mettono tutti i diversi elementi in un quadro d'insieme e si seguono i soldi e i legami con i professionisti palermitani. Arrivano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, fondamentali per l’istruzione del cosiddetto maxi processo.
Borsellino insieme a Giovanni Falcone e Antonino Caponnetto
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Nel 1985, per ragioni di sicurezza, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone vengono trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara per scrivere gli atti necessari alla preparazione del maxi processo, che nel 1987 si concluderà con 346 condanne: un durissimo colpo per gli uomini di Cosa nostra. Per la prima volta una sentenza riconosce l'esistenza di un'unica organizzazione mafiosa, con un vertice e delle regole interne. Gli omicidi, le estorsioni, i traffici illeciti non sono più considerati come singoli reati, ma come parte dell'attività criminale dell'organizzazione.
Dopo il maxiprocesso Paolo Borsellino viene trasferito a Marsala, dove ha modo di intuire il ruolo dei clan trapanesi dentro Cosa nostra. Torna poi alla procura di Palermo, accanto a Giovanni Falcone, in quegli anni isolato e spesso al centro di polemiche che lo porteranno a lasciare la città per Roma, alla direzione affari penali del ministero della Giustizia. Grazie a Falcone in quegli anni al ministero verranno pensati strumenti fondamentali nella lotta alla mafia, come la Direzione investigativa antimafia e la Direzione nazionale antimafia.
Nei cinquantasette giorni che separano la morte di Falcone da quella di Borsellino, il magistrato indaga senza sosta sulle ragioni della strage di Capaci, riprende in mano i fascicoli su cui aveva lavorato con Falcone, segue nuove piste, ascolta collaboratori di giustizia. Sa che il tempo a disposizione per lui è poco, che il prossimo sulla lista di Cosa nostra potrebbe essere lui. Una consapevolezza che hanno in molti, ma le misure di sicurezza a sua tutela non vengono intensificate. Fra le altre, era stata chiesta l'istituzione di una zona rimozione sotto casa della madre del magistrato in via d'Amelio, ma non fu mai realizzata.
Via D'Amelio pochi minuti dopo l'esplosione
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Quattro processi e nessuna verità
Le indagini sulla strage di via d'Amelio presentano da subito anomalie, vuoti, improvvise sparizioni di oggetti e verbali. Per oltre vent'anni però nessuno se ne accorge e l'indagine, guidata dal capo della mobile Arnaldo La Barbera, coordinato dai pm di Caltanissetta, viene portata davanti ai giudici del tribunale. Con vicende alterne, regge davanti a diversi gradi di giudizio e trova il sigillo della Cassazione in ciascuno dei filoni processuali in cui si articola a partire dal 1996. Per oltre vent'anni tutto quello che abbiamo saputo su via d'Amelio era falso, ma processualmente accertato.
L'impianto accusatorio si basava sulle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, quello che le indagini degli ultimi anni definiranno un "falso pentito", istruito a mentire, più volte sconfessato da altri uomini di Cosa nostra già collaboratori di giustizia. L'indagine su una delle più complesse e misteriose stragi realizzate da Cosa nostra si è retta sulle dichiarazioni di un piccolo contrabbandiere e autore di reati di borgata, che negli anni ha accusato innocenti, ritrattato e poi riconfermato le accuse. Oggi, davanti ai giudici di Caltanissetta che hanno scoperto l'impostura delle indagini su via d'Amelio, ha raccontato di essere stato costretto a dichiarare il falso, ad accusare innocenti, dagli investigatori, dall'allora capo della mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Fu un errore investigativo dettato dalla fretta di trovare i responsabili della strage o un vero e proprio depistaggio?
I magistrati di Caltanissetta hanno provato a dare una risposta: dopo tre gradi di giudizio (Borsellino uno, Borsellino bis, ter) il processo Borsellino quater è stata un'inchiesta sull'inchiesta. Un'istruttoria densa di dettagli, dichiarazioni riscontrate, sino alla scoperta della pista per anni coperta dal depistaggio: quella che porta ai vertici di Cosa nostra, al mandamento di Brancaccio, alla famiglia Graviano. Il racconto di Spatuzza, uomo di fiducia dei Graviano, fa entrare i pm dentro le diverse fasi dell'organizzazione della strage, dal furto della Fiat 126 poi imbottita di tritolo alla presenza di un uomo esterno a Cosa nostra di cui, a oggi, non si è riusciti a scoprire l'identità.
L'arresto di Gaspare Spatuzza il 2 luglio 1997
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Un falso pentito
Sulla vicenda Scarantino la Corte d'assise ha riconosciuto la completa falsità di tutte le sue dichiarazioni, emergente con assoluta certezza «non solo dalla dall’esplicita ammissione operata dallo stesso Scarantino, ma anche, e soprattutto, dalla loro inconciliabilità con le circostanze univocamente accertate nel presente processo, che hanno condotto alla ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato in senso pienamente coerente con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza».
La Corte, inoltre, cercando di dare una risposta sulle ragioni del falso pentimento di Scarantino, è giunta ad affermare che questo sarebbe stato determinato «da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione. Al riguardo, va segnalato un primo dato di rilevante significato probatorio: come si è anticipato, le dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità [...] È quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte».
La procura nissena è costretta a tornare indietro e riscrivere la storia della strage. Il 13 ottobre 2011 il procuratore generale presso la Corte d'appello di Caltanissetta chiede alla Corte d'appello di Catania la revisione delle sentenze di condanna dei processi Borsellino1 e Borsellino bis. Il 20 aprile 2017 arrivano le condanne per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e per i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Per Scarantino, invece, è stata dichiarata la prescrizione del reato. Il 13 luglio 2017, la Corte d’assise d’appello di Catania scagiona definitivamente tutti coloro che erano stati ingiustamente condannati sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti.
L'albero posto in via d'Amelio 21 per commemorare l'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta
Foto: Dedda71, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4661902
Il 28 settembre 2018 il gip di Caltanissetta ha disposto il rinvio a giudizio di tre dei componenti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” guidato, all'epoca delle indagini, dal dottor Arnaldo La Barbera. Per loro l'accusa è di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. Il 13 luglio 2022 il tribunale di Caltanissetta ha emesso nei loro confronti due sentenze di intervenuta prescrizione sul reato di calunnia, non riconoscendo l'aggravante di aver agevolato Cosa nostra, e ha assolto uno dei componenti del gruppo. Le motivazioni saranno note nelle prossime settimane.
Anomalie, depistaggi e mandati esterni
Dopo aver guardato in una sola direzione per due decenni, i pm della procura di Caltanissetta stanno ora cercando ovunque. Diversi fascicoli sarebbero stati aperti sui nodi irrisolti della strage. Perquisizioni e intercettazioni sono state disposte persino a carico di alcuni giornalisti, alla ricerca di fonti di notizie, dei pezzi mancanti. Quella della procura di Caltanissetta è una lotta contro il tempo.Un tempo, secondo molti, già scaduto. Quattro processi non sono bastati per chiarire misteri, anomalie e depistaggi. Come la scomparsa dell'agenda rossa che il giudice portava sempre con sé e che dal giorno della strage sembra scomparsa, inghiottita fra i tanti misteri che affollano questa strage. E gli appunti, l'inchiesta cui stava lavorando negli ultimi giorni della sua vita, tracce importanti che sono state cancellate, perse, per imperizia o per complicità.
In questi anni i famigliari del giudice hanno chiesto allo stato di fare chiarezza su questi elementi e sulle possibili convergenze di interessi dietro la strage. Lo ha chiesto anche il gip Graziella Luparello, che nel maggio 2022 ha respinto la richiesta di archiviazione per l'indagine sui mandanti esterni della strage avanzata dai pm nisseni e ha elencato trentadue punti da cui ripartire per proseguire le indagini. Dopo trent'anni dal depistaggio di stato su via d'Amelio, sarà ancora la procura di Caltanissetta a dover scrivere la storia della strage di mafia più impenetrabile della Repubblica.
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