Nel 1911 l’ambizione di essere i primi a mettere piede al Polo Sud si tramutò in una competizione concreta tra una spedizione britannica, comandata dal capitano Robert Falcon Scott, e una norvegese, con a capo l’esploratore Roald Amundsen. Entrambi i gruppi si misero in marcia in parallelo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, dando inizio a un viaggio verso il sud della costa antartica di più di mille chilometri. Non bastava arrivare alla meta, bisognava essere i primi: arrivare secondi sarebbe stato un fallimento. Il risultato finale si sarebbe scoperto solo all’arrivo, nel vedere se c’era già la bandiera di un altro Paese piantata nell’anelato suolo.
Il triste arrivo
Il capitano Scott raggiunse la meta il 17 gennaio 1912, un sogno che aveva inseguito per metà della sua vita. Ma non riuscì a essere il primo. La spedizione di Amundsen lo aveva preceduto, arrivando con più di un mese di anticipo, il 14 dicembre. Le facce dei cinque esploratori britannici ritratte in fotografia riflettono la delusione di essere arrivati secondi in questa gara estrema, ma mostrano anche la fatica accumulata per le dure condizioni del tragitto.
Il triste arrivo
Foto: Cordon Press
Al momento dello scatto non potevano immaginarlo, ma li aspettava un finale ancor più tragico: nessuno di loro sarebbe sopravvissuto al viaggio di ritorno. Conosciamo la loro drammatica vicenda proprio grazie ai diari di Scott, ritrovati accanto al suo corpo molto vicino al deposito di cibo che gli avrebbe salvato la vita, se lo avessero raggiunto in tempo.
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
Amundsen contro Scott
Il confronto tra quella che Apsley Cherry-Garrad, il leggendario cronista della spedizione britannica, chiamò «l’operazione di efficacia infallibile» di Amundsen e la «tragedia in piena regola» di Scott è difficile da delineare, ma mette in rilevo questioni che ancora oggi preoccupano avventurieri ed esploratori. Amundsen usò i cani, Scott pony e slitte a motore. Il norvegese si muoveva sugli sci, con cui sia lui sia i suoi uomini avevano molta esperienza; l’inglese non era mai stato un buono sciatore, e dunque lui e la sua squadra avanzarono a fatica, spingendo personalmente le proprie slitte. Amundsen rifornì il percorso con tre volte le riserve alimentari accumulate da Scott; Scott soffrì la fame e si ammalò di scorbuto.
Per Scott l'aiuto dei cani avrebbe «sottratto la gloria» all'uso delle slitte
Foto: Herbert Ponting / National Geographic
Alcuni degli errori fatali di Scott sono giustificabili alla luce dei precedenti dell’epoca: il suo compatriota e rivale, Ernest Shackleton, aveva usato dei pony e aveva quasi raggiunto il Polo. E alcune delle tattiche di Amundsen erano inquietanti, come quella di sacrificare dei cani a cui era anche affezionato per dar da mangiare alle altre bestie e agli uomini.
In fondo, però, la differenza tra Amundsen e Scott non si trova nei dettagli di programmazione, ma nella prospettiva generale: quella del professionista contro quella dell’appassionato. L’immagine di Scott passata ai posteri è proprio quella di un uomo pieno di coraggio, che lottò chilometro dopo chilometro fino a morire tragicamente tra i ghiacci.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!