Splendori e miserie delle signorie

Usurpatori e tiranni ma anche uomini di cultura e promotori delle arti, i signori italiani furono i protagonisti di un’epoca che cambiò il volto del nostro Paese. In tutti i sensi

La fioritura di liberi comuni, in Italia ma anche in altre regioni europee, come le Fiandre, è stata una delle manifestazioni più significative della civiltà medievale. Questa fioritura era la conseguenza della rinascita dell’economia e dei commerci successiva all’anno Mille. A Genova, Pisa, Firenze, Milano, Venezia e in tante altre città la popolazione si era enormemente accresciuta, gli artigiani si erano moltiplicati e i mercanti e i banchieri avevano accumulato ricchezze favolose e le avevano in parte reinvestite nella costruzione dei palazzi, delle chiese e dei monumenti che ancora oggi rendono straordinario il paesaggio urbano italiano.

La famiglia Gonzaga ritratta nella camera degli Sposi. Castello di San Giorgio di Mantova. Andrea Mantegna, 1465-1474

La famiglia Gonzaga ritratta nella camera degli Sposi. Castello di San Giorgio di Mantova. Andrea Mantegna, 1465-1474

Foto: Alinari / Bridgeman

La libertà comunale non significava solo difesa dell’autonomia delle città contro i grandi feudatari, i re e gli imperatori, ma anche un’ampia partecipazione dei cittadini alla vita politica. Ciò non significa naturalmente che i comuni medievali fossero delle democrazie come noi le conosciamo oggi. Solo una minoranza degli abitanti godeva infatti dei diritti politici e in ogni caso le donne, qualunque fosse la loro condizione sociale, ne erano escluse. Tuttavia, anche gli artigiani e i piccoli commercianti ebbero la possibilità di organizzarsi e di far sentire la loro voce, eleggendo i loro rappresentanti.

Esisteva però anche un rovescio della medaglia, ovvero la conflittualità endemica che opponeva fra loro i diversi ceti sociali, le corporazioni, le famiglie più ricche e potenti a capo di fazioni che aspiravano al controllo della città. Popolani contro magnati, popolo minuto contro popolo grasso, guelfi contro ghibellini: le strade e le piazze dei comuni italiani erano troppo spesso il terreno di scontri sanguinosi che lasciavano uno strascico di odio e vendetta. In breve, le istituzioni comunali non erano state mai in grado di conciliare l’ordine e la sicurezza con la libertà.

A questi conflitti interni si aggiungevano i contrasti tra le città e le campagne e quelli fra diverse città rivali. Le città infatti esercitavano un controllo rigido, e spesso tirannico, sul territorio circostante, il cosiddetto contado. Gli abitanti dei borghi e dei villaggi, che non godevano di alcun diritto politico e di scarsi diritti civili, obbedivano infatti ai funzionari cittadini, «più per paura che per amore», come scriveva il cronista fiorentino Dino Compagni, ed erano pronti a cogliere ogni occasione per ribellarsi e scuotere il giogo che gravava su di loro. Un odio ancora più profondo, alimentato anche dalla rivalità economica, contrapponeva le città vicine, come Firenze e Siena o Milano e Pavia.

Borso d'Este, esercitata la giustizia, parte per la caccia. Francesco del Cossa (1469-70), palazzo Schifanoia, Ferrara

Borso d'Este, esercitata la giustizia, parte per la caccia. Francesco del Cossa (1469-70), palazzo Schifanoia, Ferrara

Foto: Scala, Firenze

Nuovi ricchi e antiche famiglie

Il mondo dei comuni italiani negli ultimi secoli del Medioevo era certamente un mondo capace di sprigionare grandi energie economiche, sociali e culturali,ma era anche un mondo violento e instabile. L’aspirazione all’ordine e alla pace era universale e spiega la tendenza, altrettanto universale, ad affidarsi all’autorità di un “uomo forte”, di un personaggio che per capacità e prestigio personale, per l’influenza familiare e per le aderenze clientelari, sembrava in grado di porre termine alle contese garantendo nello stesso tempo il prestigio e gli interessi della città verso l’esterno. I signori che concentrarono progressivamente nelle loro mani tutte le leve del potere si presentarono in primo luogo come dei pacificatori, capaci di assicurare la tranquillità e la prosperità. Di fronte a questi benefici, il sacrificio di una libertà politica, che per molti non era stata che una parola priva di sostanza, sembrava in fondo accettabile.

Ma chi erano e da dove venivano questi signori? Le loro origini erano disparate. Talvolta si trattava di “uomini nuovi”, provenienti da famiglie che erano uscite dall’oscurità in epoca relativamente recente, grazie al commercio o alle manifatture. Era questo il caso dei Medici, originari forse del Mugello, che nel duecento avevano fatto fortuna nella manifattura di panni di lana e poi avevano ricoperto varie cariche nel governo comunale.

Di origini ancor più recenti e umili furono gli Sforza, che subentrarono a metà quattrocento ai Visconti nel dominio sul ducato di Milano. Il fondatore della dinastia, Giacomuzzo (1369-1424), di origini contadine, nato nel paesino romagnolo di Cotignola, aveva fatto fortuna come condottiero, lo stesso mestiere di suo figlio Francesco, poi signore di Milano. Gli Sforza erano in fondo dei popolani arricchiti, guardati con sufficienza, ma anche con timore, dagli esponenti dell’antica aristocrazia milanese, come Gian Giacomo Trivulzio, che ironicamente chiamava il suo signore “Francesco da Cotignola” per metterne in evidenza le modeste origini.

Castelvecchio di Vernoa. Costruito da Cangrande II della Scala (1354- 1375), aveva funzione difensiva oltre che di residenza signorile

Castelvecchio di Vernoa. Costruito da Cangrande II della Scala (1354- 1375), aveva funzione difensiva oltre che di residenza signorile

Foto: Shutterstock

Nella maggioranza dei casi tuttavia i signori avevano origini più illustri e antiche e provenivano da famiglie della nobiltà feudale e militare che conservavano ancora vasti possedimenti terrieri e castelli, e quindi potere economico e influenza politica. È su queste basi che i futuri signori costruirono il loro potere. In questa categoria rientrano, per esempio, i Visconti di Milano, feudatari di antica data, i da Carrara di Padova, i Malatesta di Rimini, i Montefeltro di Urbino, i Gonzaga di Mantova o gli Estensi di Ferrara.

Astuzia e spregiudicatezza

Sia che appartenessero ad antiche famiglie feudali sia che fossero “uomini nuovi” o quasi, arricchitisi con la mercatura, i signori che riuscirono a imporsi nelle città italiane avevano un problema comune: il loro potere aveva delle basi di legittimità molto fragili. I sovrani che negli stessi secoli consolidavano e ampliavano il loro potere in Francia, Spagna o Inghilterra appartenevano a dinastie che vantavano un’autorità indiscussa e un prestigio più che secolari e che nel loro albero genealogico esibivano antenati eccellenti, reali come Carlo Magno o immaginari come Artù. La loro figura e la loro funzione era circondata da un alone di sacralità che li poneva al di sopra dei comuni mortali e delle famiglie nobili più importanti. La loro autorità trovava inoltre un fondamento solido nel diritto romano e nelle consuetudini normative dei loro regni.

I signori italiani non avevano questi vantaggi: il potere che esercitavano, e di cui si erano impadroniti quasi sempre con la forza e con l’astuzia, non aveva alcuna base giuridica. In quanto principi “nuovi”, ossessionati dal pericolo di congiure e rivolte, dovevano quindi muoversi con prudenza e circospezione. L’umanista Pier Decembrio, nel suo elogio del signore di Milano Filippo Maria Visconti (1392-1447), ricorda come «nessuno gli fu pari per capacità di dissimulare; a tal punto d’astuta sagacia che avrebbe potuto regnare in perpetuo». La capacità di simulare e dissimulare non era certo una delle virtù classiche del principe cristiano, dei quali nel Medioevo si lodavano soprattutto la magnanimità, la benevolenza verso i sudditi, la temperanza e il senso di giustizia. Ma i tempi e le circostanze erano cambiati. I signori del quattro e cinquecento non potevano permettersi di assomigliare al pio Luigi IX, re di Francia. Il modello del principe “nuovo”, sarebbe diventato piuttosto lo spregiudicato e cinico Cesare Borgia.

Ritratto di Niccolò Machiavelli. Santi di Tito. XVI secolo. Museo di Palazzo Vecchio. Firenze

Ritratto di Niccolò Machiavelli. Santi di Tito. XVI secolo. Museo di Palazzo Vecchio. Firenze

Foto: Alinari / Cordon Press

Autorità assoluta ma informale

Proprio come i primi imperatori romani, i signori italiani del tardo Medioevo e del Rinascimento dovettero almeno inizialmente “mimetizzare” la loro autorità, nascondendosi dietro le tradizionali cariche comunali che ricoprivano. Dopo aver sconfitto a Desio i rivali Torriani (1277), Ottone Visconti, allora arcivescovo di Milano, cercò di stabilizzare il potere della sua famiglia facendo nominare suo nipote Matteo capitano del popolo.

Un secolo e mezzo più tardi, i Medici seguirono la stessa strada a Firenze, dove i sentimenti repubblicani erano particolarmente vivi. Cosimo il Vecchio (1389-1464), in pratica il fondatore della signoria medicea, dopo il suo ritorno in città nel 1434, fu infatti molto attento a non urtare questa sensibilità e a evitare ogni accusa di volersi ergere a “tiranno”. L’impalcatura istituzionale del regime comunale rimase infatti formalmente intatta, anche se di fatto venne manipolata e svuotata dall’interno. Cosimo il Vecchio fu solo due volte gonfaloniere di giustizia e negli ultimi dieci anni di potere non ricoprì alcuna carica ufficiale, anche se naturalmente tutti sapevano che a comandare a Firenze era lui. Anche sotto questo aspetto, il nipote Lorenzo il Magnifico (1449-92), il principe rinascimentale per eccellenza, è stato un modello. Questi infatti non ricoprì cariche ufficiali, la sua autorità era assoluta ma informale ed egli, con una certa civetteria e molta sfacciataggine, amava definirsi un semplice cittadino di Firenze.

Almeno fino all’inizio del cinquecento la signoria dei Medici era una signoria di fatto ma una repubblica di diritto. I signori, dunque, soprattutto in una prima fase cercarono di legittimare almeno formalmente il loro potere, dal basso, attraverso il consenso popolare, e di presentarsi come continuatori del governo comunale. Un po’ come Napoleone, che iniziò la sua carriera di autocrate come primo console della repubblica francese. Ma appunto come avrebbe fatto Napoleone, cercarono presto di andare oltre e legittimare il loro potere anche dall’alto. I signori italiani non cercarono di ottenere il titolo di re, ma cercarono e spesso ottennero una sanzione dall’alto, dal papa o dall’imperatore, che formalmente avevano la sovranità su gran parte del territorio italiano, del potere che di fatto già detenevano.

L'Adorazione dei magi', di Sandro Botticelli (1475), ritrae nelle vesti dei magi Cosimo il Vecchio e i figli Piero il Gottoso e Giovanni. Tra gli astanti, a sinistra Lorenzo il Magnifico, a destra il fratello di Giuliano

L'Adorazione dei magi', di Sandro Botticelli (1475), ritrae nelle vesti dei magi Cosimo il Vecchio e i figli Piero il Gottoso e Giovanni. Tra gli astanti, a sinistra Lorenzo il Magnifico, a destra il fratello di Giuliano

Foto: Bridgeman

Ancora una volta ad aprire la strada furono i Visconti di Milano, i creatori di una delle prime signorie. Nel 1311 Matteo Visconti acquistò dall’imperatore Enrico VII, sempre a corto di denaro, il titolo di vicario imperiale, ovvero di rappresentante di questi a Milano, città che rientrava nel territorio del Sacro Romano Impero, anche se da tempo gli imperatori germanici non avevano più alcuna autorità di fatto in Lombardia.

Nei decenni successivi, altre grandi famiglie signorili italiane ottennero un riconoscimento analogo dall’imperatore o dal papa: gli Scaligeri di Verona, con Cangrande della Scala, o i Gonzaga di Mantova che ottennero il vicariato imperiale nel 1329. Alcuni signori dell’Italia centrale, i cui “stati” rientravano nei confini dello stato della Chiesa, come i Malatesta o i Montefeltro, cercarono invece di ottenere dal papa il riconoscimento del loro potere. Anche in questo caso, i Medici furono gli ultimi ad abbandonare la finzione “repubblicana”: nel 1531 Alessandro de’ Medici divenne il primo duca di Firenze per concessione dell’imperatore Carlo V.

Rivolte, congiure e assassinii

Nonostante gli sforzi per dar loro stabilità, i regimi signorili rimanevano estremamente instabili. Le famiglie e le fazioni che erano uscite in un primo tempo perdenti, come i Torriani a Milano o gli Albizzi e i Pazzi a Firenze, non si davano per vinte e per lungo tempo, forti delle loro alleanze dentro e fuori la città, continuarono a rappresentare per i signori al potere una minaccia spesso mortale.

Stemma dei Pazzi, i principali sostenitori della congiura del 1478 contro i Medici. Giovanni della Robbia, 1515 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze

Stemma dei Pazzi, i principali sostenitori della congiura del 1478 contro i Medici. Giovanni della Robbia, 1515 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze

Foto: Scala

Nel 1412 congiurati appartenenti ad alcune delle più illustri famiglie milanesi, come i Pusterla e i Trivulzio, assassinarono il duca Giovanni Maria Visconti. Nel 1476, un altro duca di Milano, questa volta uno Sforza, Galeazzo Maria, cadde sotto i colpi dei congiurati. Anche la signoria dei Medici ebbe una vita alquanto travagliata. Nel 1478 Giuliano venne ucciso e suo fratello Lorenzo ferito, in un agguato organizzato dalla famiglia rivale dei Pazzi, e nel 1494, dopo la morte di Lorenzo, i Medici furono cacciati da Firenze, dove venne ristabilita per circa un ventennio la repubblica. Rientrati nel 1512, vennero nuovamente allontanati nel 1527, per farvi poi definitivamente ritorno, come “clienti” di Carlo V, nel 1530.

Il potere e la vita dei signori non erano insidiati solo da famiglie rivali o dai nostalgici delle libertà repubblicane e comunali. Molto spesso la minaccia proveniva dall’interno stesso della propria ramificata parentela. Rami principali, rami cadetti, zii, cugini, fratelli e altri parenti più o meno lontani erano divisi spesso da aspre rivalità. La Milano dei Visconti e degli Sforza offre la casistica più sinistra. Ancora agli albori della signoria viscontea, nel 1339, Lodrisio Visconti aveva cercato di rovesciare il nipote Azzone. Nel 1385 Barnabò era stato detronizzato, e in seguito fatto probabilmente assassinare dal nipote Gian Galeazzo. Circa un secolo dopo sarebbe stato invece un altro Gian Galeazzo, questa volta Sforza, a essere prima estromesso dal potere e poi verosimilmente fatto assassinare dallo zio, Lodovico il Moro.

Molto spesso a minacciare il potere e la vita dei signori erano membri della loro stessa famiglia

Quando non vi erano motivazioni politiche, erano le vicende private a provocare fosche tragedie familiari: nel 1285 Giovanni Malatesta di Rimini uccise la moglie Francesca da Polenta e il fratello Paolo colpevoli di adulterio, gli sventurati amanti immortalati da Dante nella Divina Commedia.

Leonardo da Vinci ala presenza di Lodovico il Moro. Affresco di Nicola Cianfanelli (XIX secolo), tribuna di Galileo, Firenze

Leonardo da Vinci ala presenza di Lodovico il Moro. Affresco di Nicola Cianfanelli (XIX secolo), tribuna di Galileo, Firenze

Foto: Scala, Firenze

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Verso lo stato regionale

A rendere la situazione più intricata per i signori vi erano le minacce esterne, provenienti da altre città e signorie e, poi, dalle monarchie territoriali che nel resto d’Europa si stavano consolidando. Nei secoli finali del Medioevo, la tendenza alla sostituzione di istituzioni repubblicane con regimi signorili s'intreccia infatti con un’altra tendenza politica, quella verso la formazione di stati regionali. Le città più ricche e potenti riuscirono progressivamente a soggiogare le altre. In Lombardia Milano sottomise nel corso del tempo Como, Pavia, Lodi, Cremona e tante altre città. In Veneto fu Venezia, già padrona del Mediterraneo, a imporsi su Padova, Vicenza, Verona e a spingere la propria zona d’influenza fino a Bergamo, dopo una lunga contesa con Milano. In Toscana a primeggiare era Firenze, che però dovette fare i conti con la resistenza tenace di città come Pisa e Siena.

La volontà egemonica delle città maggiori era già evidente in epoca comunale, ma i signori proseguirono su questa strada. Nel corso di questo processo non solo le città minori dovettero piegarsi di fronte a quelle più grandi e più ricche, ma anche molte piccole e medie dinastie dovettero rassegnarsi a cedere di fronte alle maggiori, prima che queste, a loro volta, venissero costrette alla resa dall’intervento sul suolo italiano delle monarchie europee. I da Carrara di Padova e gli Scaligeri di Verona finirono per essere eliminati dal gioco politico dalla potenza di Venezia e di Milano. Allo stesso destino andarono incontro le molte piccole signorie dell’Italia centrale, come i Baglioni di Perugia, che nel cinquecento furono riassorbite dal rinnovato stato della Chiesa. Miglior sorte toccò ad altre signorie di medio calibro, come gli Este a Ferrara e Modena o i Gonzaga di Mantova, che riuscirono a ritagliarsi uno spazio senza farsi assorbire dagli stati più grandi e sopravvissero fino al settecento.

I Visconti di Milano furono i protagonisti della più convinta spinta espansionista che li portò, all’epoca di Gian Galeazzo (1347-1402), a dominare su gran parte dell’Italia settentrionale e centrale. Oltre che sulle città lombarde, il dominio visconteo si estese allora su Verona, Vicenza, Bologna, Pisa, Siena e tante altre piccole e medie città, tanto che parve possibile che Gian Galeazzo aspirasse al titolo di re d’Italia. La morte del duca nel 1402 e la rapida disgregazione di questa compagine, vasta ma eterogenea, pose fine a questa possibilità e dimostrò ancora una volta l’instabilità congenita degli stati signorili.

Cosimo I a cavallo, piazza della Signoria, Firenze

Cosimo I a cavallo, piazza della Signoria, Firenze

Foto: Scala, Firenze

L’unificazione della penisola italiana si dimostrò dunque un obiettivo al di là della portata anche dei signori più potenti e intraprendenti. Tuttavia, a conclusione della lunga stagione di lotte, dopo la pace di Lodi del 1454, la carta politica d’Italia si presentava molto semplificata rispetto a due secoli prima. Al fitto mosaico di microstati cittadini subentrò un gruppo ristretto di stati di medie dimensioni: la repubblica di Venezia, quella di Firenze, il dominio dei Visconti di Milano, lo stato della Chiesa e il regno di Napoli.

La fine dell’indipendenza

Con la pace di Lodi, gli stati regionali sembrarono aver raggiunto un equilibrio più o meno stabile. Una sicurezza che però si sarebbe mostrata illusoria quarant’anni più tardi, quando il sovrano francese Carlo VIII decise di far valere quelli che reputava i propri diritti sul regno di Napoli. La calata dei francesi nel 1494 mise in evidenza la debolezza degli stati italiani, troppo piccoli per affrontare gli eserciti delle monarchie europee e troppo litigiosi per coalizzarsi efficacemente contro l’invasione “ultramontana”. Di fronte ai “leoni” francesi e spagnoli, le “volpi” italiane, per usare i termini di Machiavelli, dovettero rendersi presto conto di aver sopravvalutato la propria capacità di dominare gli eventi. La pace di Cateau-Cambresis, nel 1559, che pose finalmente termine alle guerre d’Italia, sancì l’egemonia della Spagna sulla penisola. Gli staterelli italiani erano ormai solo pedine secondarie in un gioco molto più grande di loro.

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Per saperne di più

Le Signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV). Andrea Zorzi, Mondadori, Milano, 2010.
Signori di popolo. Riccardo Rao, Franco Angeli Editore, Milano, 2013.

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