«Sono tanto brava lungo il giorno. Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad aver orgoglio, quasi fossi un uomo. Ma, al primo brivido di viola in cielo, ogni diurno sostegno dispare». Quando scrive questi versi, Sibilla Aleramo ha poco più di quarant’anni. Ha lasciato il marito e il figlio per cercare nell’inchiostro la propria identità di donna. Come molte scrittrici si cela dietro un nome d’arte, che sarà la firma di una rivoluzione sociale lenta e profonda, maturata anche attraverso le proprie opere.
I diari che raccoglie per tutta la vita saranno la traccia per poesie e romanzi autobiografici, rivendicando il ruolo attivo delle intellettuali nelle lotte sociali e culturali che si affacciano al XX secolo. Per Sibilla, «scrivere è un atto necessario»: sulla carta riscopre se stessa, si spoglia di paure e fragilità, consapevolmente diversa da ciò che quel mondo si aspetta da lei, anche quando le sembra «d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra». La sua storia è il suo testamento, in grado d’infrangere gli stereotipi di genere e riaffermare il diritto ad un’esistenza libera, autentica, pienamente vissuta.
Sibilla Aleramo, immagine da Catalogo Feltrinelli, passata allo scanner e modificata
Foto: Pubblico dominio
Una ragazza in fabbrica
Rina Marta Felicina Faccio nasce il 14 agosto 1876 ad Alessandria, in Piemonte. È la prima di quattro figli, abituati a viaggiare per seguire l’attività del padre Ambrogio, ingegnere dal carattere volubile e dalle idee anticonformiste. Nel giro di dieci anni si trasferiscono prima a Vercelli e poi a Milano, dove Rina frequenta le scuole elementari. Nel 1881 raggiungono Porto Civitanova Marche, dove il padre assume la direzione di una vetreria. «Tutto scintillava», ricorda Rina, in quel luogo incastonato tra le colline e il mare, così diverso dai prati verdi della Brianza e del Piemonte. La bambina vive una «giovinezza libera e gagliarda», coltivando interesse e ammirazione per il lavoro del papà, che considera un uomo fiero e rispettato. A soli dodici anni lo affianca in fabbrica, in veste di segretaria e contabile: sarà per lei una posizione privilegiata per osservare da vicino il mondo del lavoro e sviluppare quel senso di «audacia indipendente» che l’accompagnerà negli anni a venire.
Con l’adolescenza, Rina inizia la sua trasformazione: taglia i capelli, assume «un’aria di ragazzo»: né bambina né donna, ma un «individuo affaccendato» nel ventre della fabbrica, che come un «essere gigantesco» inghiotte le giornate e dà loro un senso, un nobile scopo. Vive il lavoro come una missione, rifiutando le attività solitamente assegnate alle ragazze della sua età, già dedite alle faccende domestiche e desiderose di creare una famiglia. Il percorso intrapreso la fa sentire ancora più distante dalla madre Ernesta, che considera una persona dal temperamento debole e malinconico. La frattura diviene più profonda quando la mamma – silenziosamente afflitta dalla depressione – tenta il suicidio, per poi scivolare lentamente nella malattia mentale che la porterà al ricovero nel manicomio di Macerata, da cui non uscirà più.
Sibilla Aleramo. Foto di Mario Nunes Vais scattata nel 1917
Foto: Pubblico dominio
Spezzare la catena
A quindici anni Rina si trova a gestire i fratelli e la casa, senza abbandonare l’impegno in fabbrica. Il nuovo equilibrio viene infranto da Ulderico Pierangeli, impiegato del padre. La corteggia a lungo in modo insistente, poi la violenta. Nel 1893 l’offesa viene soffocata in un matrimonio riparatore. La situazione non migliora nemmeno con l’arrivo del figlio Walter, che ama teneramente ma che non riuscirà a sanare la ferita subìta. La cittadella marchigiana diventa una prigione, il marito un carceriere, geloso e distante dalla profonda sensibilità di Rina, che nella scrittura coltiva la sua «sotterranea seconda vita». Lei inizia a collaborare diverse testate, tra cui la Gazzetta letteraria, L’Indipendente di Trieste e il giornale femminista Vita Moderna, avvicinandosi ai primi movimenti per l’emancipazione della donna che si accendono alle soglie del XX secolo.
Nel 1899 si trasferisce a Milano con il marito e il figlio. Licenziato dalla fabbrica marchigiana, Ulderico tenta di avviare un’attività commerciale che non avrà fortuna. Rina trova però terreno fertile per riprendere contatto con le proprie aspirazioni: dirige L’Italia femminile, settimanale di stampo socialista con cui collaborano donne come Maria Montessori e Matilde Serao. L’esperienza milanese s’interrompe bruscamente con il ritorno a Civitanova, dove il marito assume la direzione della fabbrica prima in capo al padre. La depressione s’impossessa di lei, portandola a compiere lo stesso gesto della madre. È il momento in cui decide di fuggire, rinnegando la condiscendenza che converrebbe ad una donna sposata. Abbandona la famiglia e si trasferisce a Roma. Il figlio resta con il marito, segnando per Rina una rinuncia dolorosa ma necessaria: decide di spezzare la “mostruosa catena” che impone alle donne il sacrificio di sé, come una dote ereditata di madre in figlia. Dimostra che per onorare la vita non è necessario abdicare a se stesse.
La novellista e poetessa Rina Faccio, più conosciuta come Sibilla Aleramo
Foto: Alinari / Cordonr Press
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La nascita di “Sibilla”
Nella capitale, Rina intreccia una relazione con il poeta Giovanni Cena, direttore della Nuova Antologia, per cui lei inizia a collaborare sotto pseudonimo. Sarà proprio il nuovo compagno a suggerirle il nome “Sibilla”, che Rina adotta aggiungendo il cognome Aleramo come richiamo alle proprie origini piemontesi. Inizia a scrivere dell’infanzia, trasformando i diari in pubblicazioni che riscuotono un grande successo, non privo di critiche. L’opera autobiografica Una donna (1906) è il primo manifesto letterario femminista in un’Italia ancora timorosa e arretrata rispetto allo scenario europeo, da oltre un secolo animato da movimenti di emancipazione. Sibilla racconta in prima persona, mette a nudo fatti, paure e riflessioni profonde e personali, segnando un approccio inedito teso tra scandalo e acclamazione. Via via prende le distanze dal «viver cauto» tipico delle intellettuali femminili coeve, perseguendo l’azione attraverso la parola scritta.
Inizia a frequentare Parigi, dove incontra Gustave Apollinaire e Gabriele D’Annunzio. La sua “terza vita” è un susseguirsi di legami più o meno brevi con intellettuali e artisti italiani, tra cui Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Salvatore Quasimodo, e un’intensa relazione di due anni con Dino Campana, conclusa dal ricovero del poeta al manicomio toscano di Castelpulci. Gli uomini della sua vita faranno capolino tra le righe de Il passaggio (1929)e nelle prime due raccolte liriche Momenti (1921) e Poesie (1929), cui se ne aggiungono altre cinque nei vent’anni successivi. L’amore è protagonista e sentimento contraddittorio, denso ed evanescente come un’illusione. L’uomo non ne è destinatario, ma solo uno specchio specchio attraverso cui la scrittrice “forgia” sé stessa.
La “quarta vita”
Le numerose collaborazioni intessute tra le due guerre mondiali le permettono a malapena di sbarcare il lunario. Nel 1933 si iscrive all’Associazione nazionale fascista delle donne artiste e laureate, un’adesione discussa, ma necessaria per il contesto in cui si muove. Ha ormai sessant’anni, quando vive l’ultima passione per il poeta ventenne Franco Matacotta. Con lui, nel 1946 decide d’iscriversi al Partito Comunista Italiano, «ispirata – scriverà – dalla fede in un più giusto e più umano avvenire della nostra specie». Un cambio di rotta criticato ma frutto di onestà intellettuale che in breve la rende voce del partito, con conferenze e articoli pubblicati su l’Unità e altre testate di sinistra.
Lontana dall’estetica letteraria, sceglie di mettersi al servizio della società: «Non voglio fare dell’arte – afferma – ma opera di verità». Continua coltivare i diari, che saranno in parte pubblicati postumi, preservando la naturalezza che contraddistingue la sua figura e la sua prosa. Dopo una lunga malattia trascorsa in solitudine e ristrettezze, il 13 gennaio 1960 a Roma Sibilla incontra la morte, «madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia». Così la evoca in una poesia, ultima compagna per quello spicchio di vita spesa senza sconti. Forse ancora non sa che la sua esistenza è stata in grado di cambiare il corso di un destino personale quanto collettivo, trasformando il dolore in un cammino di rinascita.
Sibilla Aleramo assieme a Ennio Flaiano, vincitore del Premio Strega
Foto: Alinari / Cordon Press
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