Nel XVIII secolo la scoperta delle rovine di Pompei provocò un’autentica emozione tra gli appassionati dell’antichità. La città campana era scomparsa nel 79 d.C., quando la devastante eruzione del Vesuvio la seppellì insieme ad altre località come Ercolano e Stabia. Nel corso degli anni fu mantenuto il ricordo dell’esistenza di rovine nella zona, e alcuni si spinsero perfino a segnalarne l’ubicazione grazie ad alcuni ritrovamenti. Ma fu solo nel 1738 che il futuro Carlo III di Spagna, allora re di Napoli, incaricò un ingegnere militare spagnolo, Roque Joaquín de Alcubierre, di iniziare gli scavi.
Le prime prospezioni furono effettuate nella zona di Ercolano, un’area particolarmente difficile da scavare perché la città era rimasta sepolta sotto uno strato solidificato di lava vulcanica che raggiungeva addirittura i ventisei metri di spessore. Malgrado il fatto che si riuscirono a dissotterrare alcune splendide statue, questi problemi tecnici indussero il sovrano e i suoi consiglieri a spostare la zona delle ricerche. Fu così che, a partire dal 1748, si cominciò a scavare nella zona dell’antica Pompei, anche se la città non venne identificata come tale fino a molto tempo dopo, nel 1763.
Archeologi e turisti
Pompei era rimasta coperta da uno strato molto meno spesso di ceneri vulcaniche solidificate. E se ne trovò uno ancor più sottile di lapilli (piccoli frammenti solidi di lava espulsi durante un’eruzione vulcanica), perciò l’accesso alle rovine fu molto meno difficoltoso che a Ercolano. Ma inizialmente gli scavatori rimasero delusi, poiché non rinvennero i reperti preziosi che Carlo III bramava. Per due anni esplorarono due zone opposte della città, l’Anfiteatro e la Via dei Sepolcri. Dopo una pausa, nel 1755, i lavori furono ripresi, sempre sotto la direzione di Alcubierre, che rimase sul posto fino al 1780. I ritrovamenti si susseguirono: la Villa di Cicerone, la Casa di Giulia Felix, poi il Teatro Grande, l’Odeon, la Villa di Diomede e il Tempio di Iside.
La curiosità sui ritrovamenti di Pompei si diffuse immediatamente per tutta Europa
Le aspettative legate alla scoperta si diffusero in tutta Europa, e un grande numero di studiosi, ma anche di semplici curiosi, quelli che oggi chiameremmo turisti, iniziarono ad arrivare nel sito per ammirare gli edifici dissotterrati, le statue e i primi affreschi che tornavano alla luce dopo millesettecento anni. Il tempio di Iside risvegliò un interesse particolare: si trattava del primo spazio sacro che veniva portato alla luce a Pompei, quello meglio conservato e, soprattutto, il primo santuario egizio che gli europei potevano ammirare, visto che il viaggio nel Paese dei faraoni per quell’epoca era davvero una rarità.

Un gruppo di turisti visita il tempio di Iside a Pompei nel 1779. Incisione di Louis-Jean Desprez
Foto: Bridgeman / Index
Il lavoro di Alcubierre e della sua squadra fu sin dal principio oggetto di forti critiche. Lo studioso tedesco Johann Winckelmann, per esempio, scriveva nel 1762: «L’incompetenza di quest’uomo [Alcubierre], che ha avuto tanti contatti con l’antichità quanto le gambe con la Luna, ha causato la perdita di molte cose belle». Fra i motivi che muovevano la critica vi era anche il fatto che il fine ultimo degli scavi non fosse altro che quello di trovare oggetti di valore, in particolar modo sculture per abbellire il palazzo del re, e che quindi si gettassero via gli altri oggetti, considerati irrilevanti.
Molti criticarono il fatto che a Pompei si cercassero unicamente statue per abbellire il palazzo del re
Queste obiezioni erano forse dettate in parte anche dalla frustrazione legata al fatto di non potere aver accesso liberamente ai ritrovamenti. Bisogna infatti tenere presente che l’archeologia, come disciplina, era ai suoi albori e che iniziò a svilupparsi proprio a partire dalle scoperte di Pompei, che portarono a sistematizzare un metodo sulla conduzione degli scavi di grandi dimensioni.
L’esplorazione intrapresa da Alcubierre permise di comprendere che Pompei offriva l’opportunità unica di recuperare una città romana rimasta intatta nel tempo e di entrare in contatto diretto con la vita quotidiana degli antichi, dei quali si erano conservati gli alimenti carbonizzati, il mobilio, gli abiti e perfino le impronte dei carri sulle strade.

La vista aerea mostra l’area degli scavi effettuati agli inizi del XIX secolo. Vi si vedono il Foro, al centro, e il Tempio di Apollo, sulla sinistra
Foto: Guido Alberto Rossi / Age Fotostock
Francesco La Vega, un collaboratore di Alcubierre, fu incaricato di sovrintendere agli scavi nel 1780 e subito prese una serie di provvedimenti con i quali mirava a ottenere una migliore pianificazione dei lavori. Si preoccupò anche di conservare adeguatamente quanto era stato già dissotterrato e, per esempio, fece costruire tetti sugli edifici per fare in modo che i dipinti e gli altri reperti antichi potessero essere conservati sul posto. La Vega ordinò anche di rimettere nella loro collocazione originaria alcuni monumenti che erano stati precedentemente trasferiti al museo di Portici.
L’arrivo dei francesi
Pochi anni dopo ebbe inizio una delle fasi più attive e produttive degli scavi di Pompei. Nel 1808 divenne re di Napoli un maresciallo di Napoleone Bonaparte, Gioacchino Murat. Sua moglie Carolina, sorella dell’imperatore francese, mostrò particolare interesse per gli scavi di Pompei, e tutelò e controllò personalmente i lavori diretti da Pietro La Vega, fratello del precedente direttore dei lavori. Durante quegli anni furono portati alla luce il perimetro delle mura, le porte della città e alcune delle strade più importanti. Inoltre furono collegate zone che erano state dissotterrate separatamente e si lavorò nel Foro.
Dopo la restaurazione dei Borbone di Napoli Spagna sul trono della città nel 1815, i lavori archeologici subirono un rallentamento per la mancanza di fondi. Tuttavia, furono scoperti alcuni degli edifici più celebri di Pompei, come la Casa del Fauno, dove venne ritrovato il famosissimo mosaico che rappresenta la battaglia di Isso tra Alessandro Magno e Dario.

Rinvenuta nel 1830, la Casa del Fauno è la più grande di Pompei. Il suo atrio ha una fontana decorata con la statua di bronzo di un fauno, dal quale prende il nome
Foto: Scala, Firenze
Il numero di visitatori non cessò di aumentare, soprattutto dopo che nel 1839 fu costruita la ferrovia Napoli-Portici, prima strada ferrata italiana. Seguì l’apertura dei primi alberghi e ristoranti che offrivano i loro servizi ai viaggiatori, a prezzi, stando alla cronaca dell’epoca, piuttosto esosi. Ma il grande salto in avanti nell’esplorazione di Pompei avvenne nel 1863, poco dopo la caduta dei Borbone e l’annessione di Napoli al Regno d’Italia. In quell’anno assunse la direzione degli scavi uno degli archeologi più famosi dell’epoca, il napoletano Giuseppe Fiorelli.
La rivoluzione di Fiorelli
L’archeologo napoletano, prima di tutto, volle completare l’esplorazione del sito, poiché all’epoca del suo incarico ne era stato scavato solo un terzo. Fiorelli si distinse immediatamente per il suo metodo di scavo. Egli divise Pompei in nove regioni che suddivise a loro volta in isolati e ingressi, per localizzare con esattezza ciascuno degli edifici scavati in città. Per esempio, la Casa del Menandro è I.10.4 cioè: regione I, isolato 10, ingresso 4. Da quel momento la “numerazione” delle case continuò ad ampliarsi e continua ancora oggi a ogni nuovo ritrovamento.
Inoltre, Fiorelli impose che gli scavi degli edifici fossero compiuti dall’alto – e non dai tunnel aperti nelle strade, come si era sempre fatto – per evitare che le pareti crollassero, il che era accaduto spesso. Archeologo di grande inventiva, Fiorelli suscitò un certo clamore con la sua idea di creare i calchi delle vittime dell’eruzione. Per farlo, fece colare del gesso nelle cavità che i corpi delle vittime, ormai decomposti, avevano lasciato sotto lo strato di ceneri vulcaniche.

Questa foto scattata intorno al 1890 ritrae uomini e ragazzi al lavoro per rimuovere dalle dimore pompeiane la cenere che le ricoprì nel 79 d.C.
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Non solo. Fiorelli decise di autorizzare l’accesso agli scavi a tutti i visitatori, previo pagamento di un biglietto. Se fino ad allora soltanto i personaggi altolocati avevano avuto la possibilità di accedere alle rovine, ora chiunque poteva, pagando, passeggiare per le strade dell’antica città romana.
Fiorelli scavò gli edifici di Pompei dall'alto per scongiurare il pericolo di crollo dei muri
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Le grandi scoperte di Maiuri
Nel XX secolo la fama di Pompei continuò ad aumentare grazie ai mezzi di comunicazione e al continuo flusso di visitatori, mentre proseguivano le campagne archeologiche. La maggiore impresa fu rappresentata dallo scavo tra il 1910 e il 1923, da parte dell’archeologo Vittorio Spinazzola, di Via dell’Abbondanza, celebre per il grande numero di graffiti e decorazioni pittoriche delle facciate degli edifici.
Ma fu il grande archeologo Amedeo Maiuri, direttore del sito per trentasette anni, dal 1924 al 1961, a rivoluzionare le tecniche di scavo e di conservazione di Pompei. Si susseguirono così le scoperte, tra le quali la Casa del Menandro, rinvenuta da Maiuri tra il 1926 e il 1932, e fu riportata completamente alla luce la Villa dei Misteri, scoperta nel 1909.

Particolare di uno degli affreschi che decorano le pareti della Villa dei Misteri, scoperta nel 1909 nella zona suburbana di Pompei. Il nome della villa deriva dagli affreschi a tema misterico
Foto: Scala, Firenze
Maiuri inoltre restaurò gli edifici pompeiani che avevano subito bombardamenti nel corso della Seconda guerra mondiale e liberò le mura urbane dal terreno di scavo che i precedenti archeologici vi avevano depositato come se queste fossero state aree di scarico. È stato calcolato che la terra rimossa per liberare le mura fu pari a circa un milione di metri cubi. Infine, Maiuri compì scavi ad Ercolano, l’altra città sommersa dal Vesuvio, che fino a quel momento era rimasta in sottordine nell’interesse degli archeologi.
A partire dagli anni Sessanta furono fatte riemergere tre altre case: quelle di Fabio Rufo, di Giulio Polibio e dei Casti Amanti. Pompei tuttavia nasconde ancora molto: degli 86,5 ettari del sito ne sono stati scavati finora cinquanta e il resto è ancora da portare alla luce. Ma la maggiore sfida per Pompei riguarda ormai la messa in sicurezza e la conservazione di questo straordinario museo a cielo aperto, unico al mondo, che per anni non ha versato in condizioni particolarmente felici.
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Per saperne di più
Pompei è viva. Eva Cantarella, Luciana Jacobelli, Feltrinelli, Milano 2013.
Pompei: gli scavi dal 1738 al 1860. Antonio D'Ambrosi, Electa, Milano, 2002.