Relazioni familiari insanguinate nella pontificia Bologna

Tra XVI e XVII secolo maltrattamenti, ferimenti, uxoricidi, stupri e sodomia venivano trattati e puniti nel Tribunale criminale del Torrone. Le vittime erano soprattutto giovani donne, ma solo il dieci per cento delle circa tremila querele all’anno si traduceva in un procedimento penale

«Cominciò a gridare, a dire che me volea scannare et che me volea ammazzare, che volea magnar la mia carne in tavola et che se volea lavar le mani nel mio sangue». Francesca è una delle migliaia di donne comparse dinanzi ai giudici del Tribunale del Torrone di Bologna per raccontare il proprio “inferno” coniugale. Nei primi giorni di febbraio del 1590 era fuggita di casa in compagnia del giovane amante Biasio. Leso nel proprio onore, il marito Isidoro si era rivolto alla giustizia e di lì a poco i due amanti sarebbero stati scoperti in un’osteria fuori porta e tratti in arresto. Nel suo interrogatorio Francesca giustificò la fuga con il racconto delle indicibili violenze del marito: insulti e percosse cui si aggiungeva l’assurda richiesta da parte di Isidoro di concedere favori sessuali ad altri uomini a scopo di lucro. In modo coerente con le prescrizioni giuridiche del tempo i giudici liquidarono la “faccenda” adducendo che «è lecito al marito di dare alla moglie che non si porta bene». L’amante Biasio, etichettato come «colui che leva il honor delle mogli», fu condannato per adulterio a tre strappi di fune. I polsi del reo venivano legati dietro la sua schiena con una lunga corda che scorreva in una specie di carrucola pronta a issarlo. Il peso del corpo gravava così sulle spalle del torturato provocandogli danni muscolari. Per aumentare l’efficacia del supplizio la corda veniva allentata e poi improvvisamente bloccata, creando lo "strappo". Non una parola di condanna fu spesa sul comportamento di Isidoro il quale, con la dottrina dalla propria parte, probabilmente non tardò a far valere nuovamente con brutalità l’autorità maritale.

 'The Miseries and Misfortunes of War'. Foglio 10: 'il tratto di corda1. 1633. Collezione privata

'The Miseries and Misfortunes of War'. Foglio 10: 'il tratto di corda1. 1633. Collezione privata

Foto: Fine Art Images/Heritage

Il Torrone

Attraverso lo studio dei processi penali, storiche e storici cercano ormai da anni di penetrare le fitte trame di quella violenza familiare, spesso di natura sessuale, che lo storico francese Alain Corbin definì «maledizione della bellezza, della gioventù, della debolezza». Il tribunale criminale del Torrone di Bologna (dalla torre del palazzo comunale), operante dal 1505 al 1796, è uno dei fori criminali d’età moderna che ha conservato la maggiore integrità dei fondi documentari, al punto da essere considerato all’altezza dei grandi archivi criminali di Londra e Parigi. Qui la giustizia era nelle mani di un giudice uditore, nominato direttamente dal papa e affiancato da sotto-uditori, ma sottoposto all’autorità di un cardinal-legato che governava Legazione di Bologna. A trarre in arresto i rei, e in generale a gestire l’ordine pubblico, c’era un bargello, affiancato da una compagnia di soldati detti “birri” o “sbirri”. Eccetto una serie di reati particolarmente gravi, come ad esempio l’assassinio o lo stupro, per cui l’uditore poteva precedere d’ufficio nell’istruzione del procedimento, normalmente tutto partiva da una denuncia della parte lesa o di un pubblico ufficiale, sempre sulla base di indizi sufficienti o testimoni disposti a provare l’accusa.

In mancanza di prove inconfutabili si procedeva alla tortura. Quella maggiormente praticata consisteva nella sospensione del presunto reo alle corde. In una prima fase d’attività del tribunale la tortura veniva inflitta fino alla confessione dell’inquisito, ma col passare degli anni l’erogazione del supplizio venne regolamentata sia nei modi sia nei tempi. Il tribunale era competente su tutti i reati commessi in città e nel contado, dove in un anno venivano presentate mediamente tremila querele, delle quali solo il dieci per cento circa arrivava a processo. Di questi la metà circa si riferiva a crimini consumati nella sfera privata e, in particolare, maltrattamenti dei mariti a danno delle proprie mogli. Secondo la storica Cesarina Casanova «un primo dato che s’impone è lo scarto tra denunce e processi […] La denuncia, nella maggior parte dei casi serve a regolare il contenzioso, ad avviare un procedimento davanti all’autorità giudiziaria per poi poterlo chiudere privatamente, con la pace e la rinuncia cioè il ritiro della querela», ovviamente dietro pagamento di una qualche somma di denaro.

Piazza Maggiore, con Palazzo d'Accursio e il Torrone che dava nome al tribunale. Incisione del 1874

Piazza Maggiore, con Palazzo d'Accursio e il Torrone che dava nome al tribunale. Incisione del 1874

Foto: Mary Evans P.L. / Cordon Press

Violenze domestiche

Maltrattamenti, lesioni e ferimenti erano spesso frutto di scoppi d’ira improvvisi. Moglie e marito si trovavano infatti a condividere gli angusti spazi di un edificio con altri nuclei familiari legati da vincoli di parentela. Dai dissidi verbali alle percosse il passo era assai breve. Gli episodi criminosi erano dovuti però principalmente alla necessità maschile di tutelare il proprio onore messo a repentaglio anche soltanto da un semplice sospetto di tradimento. La notizia avrebbe potuto spargersi per il vicinato, pregiudicando la fama, ovvero l’opinione che si formava riguardo a una persona. Per questo gli uomini – mariti, padri, fratelli – si ergevano al ruolo di custodi dell’onorabilità sessuale delle proprie donne, trasformandosi non di rado in carnefici. Come spiega la storica Ottavia Niccoli: «Ira e aggressività spingevano a colpire col primo oggetto trovato sottomano, e poiché i limitati spazi abitativi prevedevano spesso l’unione fra casa e bottega, l’oggetto in questione poteva essere un mattarello per la pasta, un coltello da cucina, un punteruolo […] non che le mani nude, comunque, non si adoperassero». Ad esempio nel 1671 una certa Giacoma denunciò il marito Angelo Michele che l’aveva picchiata con la paletta di ferro del focolare. Interrogata, la donna sostenne che il coniuge non aveva voglia di lavorare, che gli piaceva la bella vita e che avrebbe voluto che facesse la prostituta per mantenerlo.

Lucia, quarantenne «honorata e da bene» non resse nel 1672 alla scarica di bastonate che le furono inferte dal marito Giacomo, ossessionato da un sospetto di tradimento. Per l’omicidio della propria moglie l’uomo fu condannato a morte e alla confisca dei beni, ma un anno dopo chiese e ottenne la grazia. L’uxoricidio, cioè l’uccisione della moglie o del marito, è secondo la storica Cesarina Casanova «il tipo di parricidio che più frequentemente viene scoperto e perseguito e a volte sembra l’approdo obbligato di ménages brutali». Gelosia e senso esasperato dell’onore sono i moventi più frequenti alla base dei delitti commessi da uomini già noti alla giustizia. È il caso del bandito Girolamo Rossi, che fu denunciato per aver strangolato e gettato in un canale il cadavere della moglie Domenica. Nel 1675 venne ritrovato in un bosco del Bolognese il corpo di Camilla, uccisa dal marito-soldato Giovanni il quale confessò di non sopportare «che detta sua moglie avesse vita disonesta». In altri casi sono invece le donne, stanche delle continue vessazioni, a porre fine alla vita dei propri aguzzini, incaricando altri uomini di eseguire i loro disegni criminosi. Ad esempio nel 1672 una certa Antonia indusse il suo amante Lorenzo a sparare alla moglie Margherita uccidendola. L’uomo fu condannato a morte, la donna all’esilio. Nel 1673 Caterina fu accusata di aver avvelenato e ucciso il marito Lorenzo Maria prima negandogli i medicinali che i medici gli avevano prescritto, poi chiedendo a un amico speziale di ucciderlo a colpi di archibugio o con “qualche acqua velenosa”. Alla fine del procedimento Caterina, che intanto si era risposata ed era in stato di gravidanza, venne graziata previo pagamento di 40 scudi

'Miracolo del marito geloso'. Affresco di Tiziano. Scuola del Santo, Padova. 1511

'Miracolo del marito geloso'. Affresco di Tiziano. Scuola del Santo, Padova. 1511

Foto: Pubblico dominio

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Vitio nefando

«Ha tentato di conoscermi carnalmente nel vaso sodomitico havendomi ricercato sin dalli primi giorni che diventò mio marito» confessò Giuliana Maria in un suo memoriale al legato. Dinanzi al reiterato diniego della donna, il marito Paolo usò le maniere forti: «Mi strapazzava e mi batteva segno che sono stata doi mesi a letto per le gran percosse che mi ha dato perché mi fece cadere doi denti mascellari, e sono stata anco con un occhio tutto pisto». La sodomizzazione forzata delle mogli da parte dei mariti era un reato grave, abbastanza ricorrente e spesso diventava aggravante nei processi istruiti contro i coniugi violenti.

Il diritto del tempo parlava chiaro: si trattava di un "vitio nefando" punibile con la pena di morte, ma se l’atto veniva compiuto da persone di sesso diverso le pene erano più miti. Buzzarona o buzzarone (colei o colui che si fa sodomizzare) e buzzarare (sodomizzare) sono termini molto frequenti nelle carte processuali del Torrone in un’accezione ovviamente negativa perché indicavano una pratica ignobile ammessa solo dalle prostitute. Anche se i rapporti anali venivano praticati anche con una certa frequenza e in maniera consensuale da uomini e donne al fine di limitare le gravidanze indesiderate, le denunce presentate erano comunque successive alla rottura della complicità sessuale delle coppie e in tal senso la fattispecie della sodomizzazione forzata serviva semplicemente ad aggravare il quadro accusatorio.

'Susanna e i vecchioni'. Artemisia Gentileschi. Castello di Weißenstein, 1610 circa

'Susanna e i vecchioni'. Artemisia Gentileschi. Castello di Weißenstein, 1610 circa

Foto: Pubblico dominio

Condanne

Nel 1557 fu bruciato vivo nella pubblica piazza un certo Camillo Pio per «aver scannato la propria moglie e poi apertala in mezzo e fatto mangiare gli interiori a propri figli quali dopo gli accoppò». Il rogo era una delle modalità d’esecuzione praticate in caso di crimini particolarmente efferati, anche se in alcuni casi il condannato veniva dato alle fiamme già cadavere. Per reati gravi relativi alla sfera familiare come l’uxoricidio, ma anche per pratiche sessuali illecite come la sodomia, i giudici sceglievano l’impiccagione o la decapitazione, quest’ultima considerata una pena capitale meno disonorevole. Ma nel caso di un tale Ippolito, che nel 1542 accoppò la propria moglie e scannò i suoi due figli affinché non rivelassero un furto commesso, i giudici scelsero un’esecuzione efferata: «Fu appiccato, anzi accoppato, scanato e squartato». Se nel XVI secolo (1505-1599) le condanne a morte superarono le mille unità, nei due secoli successivi le esecuzioni diminuirono nettamente perché, come spiega Cesarina Casanova «aumenta invece la percentuale di pene aggiuntive ad deterrendum: poche condanne a morte ma esemplari. È noto che incrudelire l’esecuzione aveva la finalità di rappresentare pubblicamente in funzione deterrente il potere di coercizione del sovrano e dei suoi giudici».

Ingresso dell'ex tribunale del Torrone, a Bologna

Ingresso dell'ex tribunale del Torrone, a Bologna

Foto: @Costanza Travaglia

Ingresso dell'ex tribunale del Torrone, a Bologna

 

 

Per saperne di più:

Alain Corbin, La violenza sessuale nella storia, Laterza, Roma-Bari 1993.
Cesarina Casanova, Crimini nascosti. La sanzione penale dei reati “senza vittima” e nelle relazioni private, Clueb, Bologna 2007.
Cesarina Casanova, Giancarlo Angelozzi, La giustizia criminale in una città di antico regime. Il tribunale del Torrone di Bologna (secc. XVI-XVII), Clueb, Bologna 2008.
Ottavia Niccoli, Storie di ogni giorno in una città del Seicento, Laterza, Roma-Bari 2004.

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