Li chiamavano pederasti, invertiti, deviati, oppure ricioni o arrusi secondo alcune varianti dialettali. Durante il ventennio fascista in tutta Italia centinaia di persone omosessuali, soprattutto maschi, si trovarono a condurre esistenze precarie. Furono costretti a vivere le proprie relazioni nella clandestinità, negli orinatoi delle stazioni, nei giardini pubblici, in certe sale cinematografiche o locali da ballo. Erano motivo d’ilarità e scherno. Il timore delle misure di polizia amministrativa li portava nella maggior parte dei casi a celare le proprie preferenze sessuali. Vivevano nel timore della diffida, dell’ammonizione giudiziale e, ancora di più, del confino in luoghi lontani, senza la possibilità di un processo. Le persone omosessuali erano considerate socialmente pericolose in quanto la loro stessa essenza, una «deviazione abnorme» dalla natura, avrebbe potuto generare uno scandalo inaccettabile. A San Domino, nelle isole Tremiti, a partire dal 1939, fu istituita addirittura una colonia di confino per sole persone omosessuali.
L’indagine storica sulle relazioni tra individui dello stesso sesso durante il fascismo è un filone abbastanza recente e ancora poco praticato. Un decisivo passo in avanti è stato compiuto dai registi Fabrizio Laurenti e Gabriella Romano che hanno portato sul grande e piccolo schermo documenti e testimonianze. Baci rubati. Amori omosessuali nell’Italia del fascismo (Istituto Luce-Cinecittà, Ita, 2020) è un collage di voci, alcune delle quali anonime, di persone che vissero il fascismo da giovani: «Da allora ho avuto coscienza di questa mia tendenza verso lo stesso sesso e la sessualità la consideravo un peccato […] e quindi cercavo assolutamente di non rendermene vittima e di dominarlo, tendevo molto al dominio di me».
Stringa tratta dal volume “In Italia sono tutti maschi”, di Sara Colaone e Luca De Santis. Oblomov Edizioni (2019)
Foto: Oblomov Edizioni
Contro natura
Nell’Enciclopedia italiana del 1935 il medico Giuseppe Mariani definisce “pederastia” (dal gr. παῖς "fanciullo" ed ἐραστής "amante") «una parola con significazione incerta e variabile per esprimere tendenze e abitudini sessuali molto diverse», come ad esempio la pedofilia erotica, cioè la tendenza morbosa ai rapporti con fanciulli. Secondo Mariani però «uno dei significati più ampi è quello di rapporti omosessuali maschili». Il dibattito sulla pederastia cominciò nei primi anni del novecento con diverse teorie messe in campo da medici legali, psichiatri, neuropatologi e antropologi criminali. Secondo Paolo Mantegazza i pederasti passivi provavano una sensazione di voluttà nella penetrazione anale a causa di «un’anomalia nel tratto dei nervi genitali […] che invece di terminare negli organi della generazione si distribuirebbero alla mucosa rettale ed anale». Due voci autorevoli che riscuotevano ampio consenso e numerose citazioni nel dibattito italiano erano quelle di Albert Moll e Julien Chevalier. Il primo sosteneva che «gli uomini che si sono dati alla pederastia generalmente si sono mastuprati sin dalla loro più tenera età», mentre il secondo traccia una sorta di “psicologia del pederasta”: «Nel mondo della pederastia tutto è alla rovescia. Il pederasta vive, sente, pensa, vuole, agisce differentemente dal resto degli uomini: un abisso ne lo separa […] Le pratiche contro natura, infatti, hanno per risultato fatale un’alterazione della personalità psichica».
Con tono quasi sprezzante Chevalier va alla ricerca dei propri “oggetti di studio” nelle serate danzanti, nelle riunioni mondane, nelle feste di fidanzamento dove «si chiacchiera, si cicala e soprattutto si dice male del prossimo con voce melliflua». Il giudizio finale è netto, senza sconti: «Sono invidiosi, vendicativi, capricciosi. Non è in loro nessuna energia, nessuna vitalità». Malformazioni, anomalie, inversioni dal naturale ordine delle cose, alterazioni psichiche insieme ai peggiori comportamenti negativi caratterizzarono l’approccio medico-psichiatrico all’omosessualità. Di tale impalcatura teorica il fascismo si nutrì, specie dalla fine degli anni ’30. Secondo la storica Anna Foa «le leggi antiebraiche e la campagna razzista sulla purezza della razza italica sembrano così aver segnato un giro di vite nella repressione e aver influenzato il destino di chi, pur non essendo ebreo, rischiava di compromettere le caratteristiche di purezza della razza ebraica».
Nessun problema, nessuna legge
Nell’Italia fascista il «turpe vizio» della pederastia, com’è spesso definito nelle carte della polizia, venne trattato con ambiguità. L’omosessualità era considerata una deviazione innaturale e abnorme che avrebbe messo a repentaglio la virilità del maschio fascista. Tuttavia, se le relazioni tra persone dello stesso sesso venivano vissute in gran segreto, in modo da non dar luogo a pubblico scandalo, almeno fino al 1938 si preferì chiudere un occhio su tutte quelle questioni scottanti che avevano a che fare con la morale pubblica e le politiche sociali. Come spiega la storica Patrizia Dogliani l’indirizzo prevalente era quello di «tacere sull’esistenza di un problema quando non si ha la volontà o la capacità di affrontarlo e di risolverlo e quando pone sotto cattiva luce un paese pubblicamente trasformato e privo del problema spesso».
Eppure, dal maggio del 1925, in piena fase di riforma del codice penale italiano, si tentò d’investire lo stato del compito di «reprimere la menzogna, la corruzione, tutte le forme di deviazione e degenerazione della morale pubblica e privata». Il discorso alla Camera dei deputati del guardasigilli Alfredo Rocco venne accolto da applausi: la proposta era quella di una bozza di articolo, il 528, da inserire nel nuovo codice penale: «Chiunque […] compie atti di libidine su persona dello stesso sesso, ovvero si presta a tali atti, è punito, se dal fatto derivi pubblico scandalo, con la reclusione da sei mesi a tre anni». Ma, come detto, il riconoscimento dell’esistenza di un problema lo avrebbe amplificato, pertanto in fase d’attuazione un’apposita commissione si pronunciò affermando che «la previsione di questo reato non è affatto necessaria perché, per cultura e orgoglio d’Italia, il vizio abominevole che darebbe vita non è così diffuso tra noi, da giustificare l’intervento del legislatore».
Nella versione definitiva del codice del 1930 la disposizione venne soppressa, a differenza di quanto accadde in altri Paesi come Germania e Inghilterra. Nell’Italia fascista la punibilità dei reati contro la morale era affidata al TULPS (Testo Unico Leggi di Pubblica Sicurezza) che dava alla polizia la facoltà di colpire con i provvedimenti della diffida, dell’ammonizione giudiziale e del confino di polizia tutti coloro i quali costituivano motivo di scandalo. In quanto reati amministrativi, non c’era neppure bisogno di processo. Tramite una rete di spie e informatori, questure e prefetture trasmettevano alla Direzione generale di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno le informative sui potenziali sovversivi, sia politici sia sociali. Il Casellario politico centrale, che lo storico Lorenzo Pezzica definisce «grande biografia collettiva della nazione sovversiva» servì proprio a tale scopo.
'Atleta che scaglia una pietra'. Statua di Aroldo Bellini. Stadio dei Marmi, Roma
Foto: CCO
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
Arrusi al confino
Nel 1942 il ministero dell’Interno censì 186 confinati per pederastia nelle varie colonie sparse per l’Italia. Erano luoghi isolati, in zone montagnose e aspre, oppure isole remote. Qui i confinati politici e sociali conducevano vite di stenti, di separazione dalla società civile e da quegli affetti che rendevano degna un’esistenza. Se tra il 1927 e il 1940 ci furono trentacinque casi di omosessuali mandati al confino, tra il 1938 e il 1939 ci fu un inasprimento con sessantacinque pederasti confinati. Di questi, quarantacinque furono arrestati solo a Catania dove, secondo il questore: «La piaga della pederastia in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché giovani finora insospettati, ora risultano presi da tale forma di degenerazione sessuale sia passiva che attiva […] in passato molto raramente si notava che un pederasta frequentasse caffè e sale da ballo o andasse in giro per le vie più affollate […] oggi si nota che molte spontanee e naturali repugnanze sono superate […] la Questura è intervenuta a stroncare o, per lo meno, arginare tale grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza». Gli arrusi (cioè coloro i quali erano soliti farsi penetrare) catanesi arrestati portavano nomi singolari e tutti al femminile: leonessa, turca, caprara, placidina. Erano in gran parte giovanissimi, prima buttati in carcere e poi al confino in due casermoni a San Domino, un’isola in cui «se non ci si arriva da turisti, come oggi, può mettere paura». Le Tremiti, come la maggior parte dei luoghi di confino, furono liberate dagli americani nell’autunno del 1943. Di quei “pervertiti” o “signorine” come li apostrofavano i membri della direzione della colonia, quasi nessuno ha memoria. Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio in La città e l’isola l’hanno definita «la più ampia operazione in quanto a confinamento» che «ha contribuito involontariamente a farci conoscere da vicino una realtà omosessuale di cui altrimenti sapremmo pochissimo».
Per saperne di più:
Gianfranco Goretti, Tommaso Giartosio, La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista, Donzelli, Roma 2006.
Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Utet, Torino 2014.
Anna Foa, Andare per luoghi di confino, Il Mulino, Bologna 2018.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!