Alle 17:58 del 23 maggio 1992, sul tratto autostradale Punta Raisi-Palermo, nei pressi di Capaci, una colossale esplosione travolge Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La deflagrazione è innescata da mille chili di tritolo sistemati in un condotto di scarico.
In un attimo le auto del corteo saltano in aria, sprofondano nel cratere e quindi spariscono sotto i detriti. Una nuvola nera s'innalza per centinaia di metri. Sembra un bombardamento.
Icona dell'antimafia
È il più clamoroso atto terroristico compiuto da Cosa nostra in Sicilia, inteso a celebrarne anzitutto la forza. Esso avviene a elezioni presidenziali in corso, quando un’impasse apre alla candidatura di Giulio Andreotti (Democrazia Cristiana), il leader più discusso del tempo, anche per fatti di mafia. L’eccidio porta, come primo effetto, alla sua esclusione dai giochi e, sull’onda dell’emergenza nazionale, alla rapida elezione di Oscar Luigi Scalfaro (DC).
Ai funerali, una folla furiosa tuona contro politici e uomini di Stato, accusandoli d’insipienza e complicità, di aver consentito (appoggiato?) un massacro ampiamente prevedibile. Sono trascorsi 29 anni da allora, da quando le foto dell’asfalto sventrato e dei cartelli verdi con le scritte bianche fanno il giro del mondo, imprimendosi nella coscienza collettiva, assumendo valore iconico e periodizzante. Nel corso di questo tempo molto è cambiato: eppure, la strage continua a condensare in sé una stagione tra le più drammatiche e sanguinose dell’Italia repubblicana.

Foto scattata pochi minuti dopo l'attentato che il 23 maggio 1992 uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro
Foto: Pubblico dominio
Essa s’inscrive, segnandone il culmine, in un epocale conflitto tra istituzioni e mafia, combattuto tra la fine degli anni settanta e i primi anni novanta. Del riarmo investigativo e giudiziario Falcone è, sin dall’inizio, un protagonista: appena rientrato a Palermo, sua città d’origine, dopo lunghi incarichi a Lentini e Trapani, nel 1979 aderisce al pool antimafia creato dal capo dell’Ufficio istruzione, Rocco Chinnici. L’idea è d'impiegare nel contrasto al crimine organizzato gli strumenti che stanno sgominando il terrorismo politico. Tanto più che la mafia è passata all’offensiva, massacrando uno dopo l’altro giudici (Cesare Terranova, Gaetano Costa, lo stesso Chinnici), funzionari delle forze dell’ordine, politici, giornalisti, imprenditori. Nella stessa fase, la scalata dei corleonesi alla leadership mafiosa palermitana, volta a sottrarne il ruolo nel mercato intercontinentale dell’eroina, provoca un’ecatombe di morti ammazzati.
A quel periodo risalgono le prime inchieste di Falcone sull’imprenditore Rosario Spatola e il narcotraffico siculo-americano e sui contatti mafiosi del banchiere Michele Sindona. Le sue indagini patrimoniali e la sua collaborazione con l’FBI (Federal Bureau of Investigation) lo rendono un simbolo di lotta e resistenza anche oltreoceano: un rapporto consacrato nel 1994 dalla dedica di un momumento in suo onore da parte dell’FBI Academy di Quantico, in Virginia.
Il maxiprocesso
È però con l’istruttoria del maxiprocesso che Falcone, in collaborazione col sodale e amico Paolo Borsellino, scrive un capolavoro di cultura giuridica portando in giudizio – secondo la formula allora in auge – «l’organizzazione denominata Cosa nostra». L’impianto valorizza al massimo la fattispecie penale dell’associazione mafiosa (articolo 416 bis del Codice Penale), introdotta nel 1982. La costruzione probatoria, invece, muove dal rapporto dei “114”, stilato dal funzionario della squadra mobile palermitana Ninni Cassarà (assassinato nel 1985), incentrato sui gruppi mafiosi palermitani e sullo scontro in atto. Il salto di qualità viene nel 1984 in seguito alla testimonianza di Tommaso Buscetta, capo-mafia e narcotrafficante, nemico giurato dei corleonesi, appena estradato dal Brasile: dalle sue parole affiora la mafia come sodalizio segreto e unitario, gerarchicamente ordinato, dotato di un rito iniziatico, di codici e tradizioni; oltreché una miriade di misfatti. Colpiscono di questo monumentale edificio (40 volumi, 8000 pagine) il rigore istruttorio e la precisione formale: le informazioni dei collaboratori di giustizia sono sottoposte a vaglio investigativo e riscontrate una ad una. Sicché il maxiprocesso, svoltosi tra il febbraio 1986 e il dicembre 1987, supera la prova dibattimentale portando a condanna centinaia di mafiosi, spezzando il mito della loro impunità. È il più grande risultato in più di un secolo di storia della mafia.

I magistrati Francesca Morvillo e il marito, Giovanni Falcone, entrambi in toga
Foto: Pubblico dominio
A cavallo del processo l’operato del pool suscita aspre polemiche, non necessariamente ascrivibili alla mafia o ai suoi complici. La più celebre (e improvvida) resta, in questo senso, quella di Leonardo Sciascia sui Professionisti dell’antimafia (Corriere della Sera, 10 gennaio 1987). Recensendo il libro di Christopher Duggan su La mafia durante il fascismo, il grande scrittore del Giorno della civetta accusa il sindaco palermitano Leoluca Orlando e Paolo Borsellino, chiamato alla Procura di Marsala non già per anzianità ma per i suoi successi contro Cosa nostra, di strumentalismo, di ridurre l’antimafia a retorica, lotta fazionaria, carrierismo. Ai suoi occhi (e non solo) il reato associativo è una minaccia liberticida: il prefetto fascista Cesare Mori, spiega parafrasando Duggan, ha piegato l'accusa di mafia a intenti politici, perseguitando insieme delinquenti, antifascisti e, financo, fascisti "eterodossi". La democrazia repubblicana sembra imboccare una strada simile. Liberticidi secondo Sciascia sono anche gli apparati speciali antimafia e antiterrorismo, coi loro metodi (pentiti, infiltrati) al limite o anche al di là delle garanzie di legge.
Intanto, Falcone diviene per molti il giudice-sceriffo, il sociologo, il propugnatore di teoremi. Lo si rimprovera di attentare alla vita dei cittadini coi suoi spostamenti sotto scorta, di peccare di protagonismo con articoli e interviste e infine col libro Cose di Cosa nostra, scritto con la giornalista francese Marcelle Padovani. La sua stessa carriera va incontro a crescenti ostilità: quando, nel 1988, il giudice si candida a capo dell’Ufficio istruzione, il Consiglio superiore della magistratura gli preferisce Antonino Meli, anteponendo il criterio di anzianità a quello di competenza. Dopo di che il pool viene smantellato e i suoi metodi accantonati. Nel 1989 Falcone diviene bersaglio di infamanti lettere anonime, quelle del cosiddetto Corvo, e del fallito attentato all’Addaura del 21 giugno 1989, quando gli uomini della scorta rinvengono 58 cartucce di esplosivo davanti alla villa affittata dal magistrato. Tanti, (anche nell’antimafia) derubricano la bomba a mero spot promozionale.
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«Riconoscere che ci somiglia»
Nella dialettica tra antimafia politica e antimafia giudiziaria s’inquadra l’accusa, rivoltagli da più parti a cominciare da Orlando, di celare «nei cassetti» clamorosi dossier sui delitti politico-mafiosi. Falcone ha già accettato, tra roventi polemiche, l’incarico di direttore dell’Ufficio affari penali, offertogli dal guardasigilli Claudio Martelli. Chiamato nell’ottobre 1991 dal Consiglio Superiore della Magistratura a ribattere sul punto, dichiara: «A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nell’assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare “intanto io contesto il reato, poi si vede”, perché da queste contestazioni poi derivano, soprattutto in determinate cose, conseguenze incalcolabili”». Ergo: nulla può affermarsi, meno che mai in sede penale, prescindendo dai riscontri; compito della magistratura non è, come molti auspicano, la riforma della politica ma l’esercizio dell’azione penale sulla base di prove. Come dichiara nella stessa audizione: «Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo». Quella di Falcone è un’opzione di stretta aderenza alla dimensione probatoria, alla correttezza formale e sostanziale delle procedure.

Da sinistra a destra Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, gli uomini della scorta di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, vittime anche loro dell'attentato del 23 maggio 1992
Foto: 1. e 2. Pubblico dominio / 3. ZUMAPRESS.com / Cordon Press
Alla stessa sobrietà, e al rifiuto di scorciatoie interpretative, s’ispirano le sue analisi sulla mafia. Scrive nel saggio Il fenomeno mafioso (1988): «Al di sopra dei vertici organizzativi non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino o determinino gli indirizzi di Cosa nostra». Ciò che non esclude «specifiche convergenze di interessi fra la mafia e altri centri di potere». L’argomento risponde a esigenze sia concettuali che empiriche: gli strumenti a disposizione (i pentiti, il 416 bis) permettono di aggredire molto di più la mafia "militante" - ovvero il nucleo degli affiliati - che i suoi protettori (cioè la politica). La ricerca di più vaste responsabilità senza prove certe si rivela inefficace se non controproducente.
Estrema, infine, è l’attenzione di Falcone al linguaggio e alle sfumature semantiche, piano sul quale definisce il rapporto con Buscetta. Blandendone l’ideologia onorifica e protettiva (la mafia rispettosa delle regole, creatura tradizionalistica), facendo perno sulla sicilianità come comune background, stabilisce con lui un proficuo canale comunicativo. Si tratta di una brillante operazione culturale: l’idea è di mostrare che la stessa società da cui origina la mafia, genera anche l’antimafia. Di qui l’invito a non trasformare il fenomeno «in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro», a «riconoscere che ci rassomiglia».
Nel gennaio 1992 la Corte di Cassazione conferma la sentenza del maxiprocesso (altro che teoremi!). Per Cosa nostra è un colpo durissimo: le condanne sono tante, severe e, soprattutto, definitive. Il 12 marzo cade assassinato Salvo Lima, eurodeputato andreottiano, ritenuto il grande tramite fra mafia e politica. La sua colpa è di non aver salvato i boss dall’ergastolo. Quanto al giudice-intellettuale, la sua condanna è pronta da tempo: non resta che darle esecuzione. Il 23 maggio, dopo vittorie e sconfitte, polemiche, calunnie e tradimenti, lezioni di filosofia giudiziaria, di intelligenza e cultura, carattere e mitezza, Falcone diviene cielo.

I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ritratti in un monumento alla memoria. L'iscrizione recita: "Perché quel sorriso viva per sempre"
Foto: ZUMAPRESS.com / Cordon Press
Per saperne di più:
G. Falcone, La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia, Rizzoli, Milano 1994.
F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Rizzoli, Milano 1993.
S. Lupo, La mafia. Centosessant’anni di storia, Donzelli, Roma 2018.
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