Roma ha due celebri facce, quella classica imperiale e quella sgargiante dei papi. Ma fra lo splendore dei due periodi si nasconde quasi un millennio in cui era moribonda. All’apogeo dell’impero, verso il II secolo d.C., la città ospitava più di un milione di abitanti. Tuttavia, verso la fine del VI secolo erano rimasti solo 20mila sopravvissuti a una moltitudine di guerre, carestie e pestilenze. Se n’erano andati i mercanti, i marinai, le prostitute, i lavoratori e la plebe, mentre la nobiltà era salpata per Costantinopoli. Roma non era più caput mundi. Anzi, era governata come una provincia dell’impero bizantino.
La Roma di Gregorio Magno
È così che la trovò Gregorio Magno nel 590 d.C., l’anno della sua elezione al trono di Pietro: una città in bilico fra un glorioso e intimidatorio passato e un presente di abbandono. Tanto che lo stesso Gregorio ne parlava usando i simboli dell’impero caduto: «Roma è diventata calva come un’aquila che ha perduto le piume».
Una sezione di Campo Marzio, un ampio quartiere compreso tra il foro e il Tevere, illustra i cambiamenti urbani vissuti da Roma nel V secolo
©2001 Ministero peri Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Archeologica di Roma. Realizzazione Editoriale di Electa, Milano. Elemond Editori Associati. Scientific Supervisor Mirella Serlorenzi.
Vista dall’alto delle colline, la città aveva ancora l’affascinante skyline del suo glorioso passato: svettavano le statue mastodontiche, le piazze ricoperte di marmo, le colonne decorate, i tetti di bronzo sgargianti, le ville patrizie e le insule, i condomini della plebe. Eppure, era una città fantasma: le vie erano ricoperte di muschio e i palazzi avvolti dall’edera, abitati da volpi e gufi. Il Tevere era straripato molte volte e l’assenza di manutenzione aveva fatto sì che uno strato di fango indurito rivestisse le strade.
Uno degli edifici più imponenti, l’anfiteatro Flavio, ovvero il Colosseo, aveva chiuso i battenti da anni. Gli ultimi spettacoli risalivano a circa sessant’anni prima, ossia al tempo di Teodorico, che aveva fatto tumulare i sotterranei per non doverne pagare la manutenzione.
San Gregorio Magno. Antonello Da Messina, XV secolo
Foto: Mondadori / Album
Di fronte al Colosseo si stagliava ancora la statua di Nerone, che era alta 34 metri, aveva dieci piani ed era tutta in bronzo. Era lei il colosso da cui l’anfiteatro prende il nome. Un tempo doveva essere stata abbagliante, ma dopo tanta incuria era annerita dal tempo e le mancavano le braccia: si dice che fu proprio il pontefice Gregorio Magno ad aver dato ordine di mutilarla per recuperare il metallo e fonderlo. Negli anni successivi Gregorio Magno completerà il lavoro prendendosi il resto. Era un papa devoto e pragmatico che, alla rimozione di un falso dio, univa il profitto del metallo prezioso per aiutare i poveri della città.
Il bosco invade la città
La via Sacra parte ai piedi del Colosseo e arriva fino all’altro cuore monumentale di Roma, il Campo Marzio: si stagliavano all’epoca le imponenti basiliche – dove un tempo si riunivano i commercianti –, gli enormi teatri di Pompeo e di Marcello e le lussuose terme di Agrippa.
La lista della magnificenza è lunga, ma la sparuta popolazione non sapeva più che farsene di tanto clamore architettonico. I pochi abitanti, abituatisi all’abbandono, non si curavano delle erbacce o del fango che, sedimentatosi, aveva alzato il livello della strada, e si ingegnavano aprendo sentieri che si incuneavano nella boscaglia attecchita fra i templi. Sulle strade erano cresciuti degli alberelli che, con il tempo, sarebbero diventati querce secolari, ben visibili da Carlo Magno quando, nell’800, farà il suo ingresso da nord per la via Lata, l’odierna via del Corso.
Vista della chiesa di Santa Maria Antiqua e del tempio di Castore e Polluce nel foro romano
Foto: Alamy / Aci
Percorreva quella stessa strada il nascente turismo religioso che dal nord Europa veniva a visitare i luoghi sacri dei martiri. E cominciavano a prosperare il mercato nero delle reliquie e le visite organizzate che, per qualche moneta, conducevano i pellegrini a inginocchiarsi davanti alla graticola dove era stato bruciato vivo san Lorenzo, oppure alla colonna in marmo rosso dove santa Bibiana aveva subìto il supplizio della flagellazione con corde piombate. Nascevano allora anche le prime guide turistiche, una sorta di Lonely Planet del tempo: l’Itinerario di Einsiedeln, dell’VIII secolo, ad esempio, era una pianta di Roma per orientare i pellegrini verso le attrazioni, religiose o turistiche, della città.
Il destino dei reduci
Ma dove era finito quel che restava della popolazione? Dove erano i discendenti di coloro che erano stati i signori di tutta l’Europa? Probabilmente erano concentrati fra la riva sinistra del Tevere e il quartiere di Trastevere, a bere nelle osterie ricavate dai vecchi templi pagani. Chissà se avevano memoria della grandezza dell’impero romano o se si domandavano chi avesse costruito quella città enorme.
Romani al lavoro nella calcara ricavata all’interno del teatro di Balbo
©2001 Ministero peri Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Archeologica di Roma. Realizzazione Editoriale di Electa, Milano. Elemond Editori Associati. Scientific Supervisor Mirella Serlorenzi.
Il livello di alfabetizzazione della plebe, altissimo nella Roma classica, era precipitato: leggere e scrivere era diventato appannaggio delle classi alte. I trasteverini abitavano in insule fatiscenti e lavoravano nei piccoli commerci di paese. Erano vasai, allevatori, contadini. Sopravvissuti di un mondo pagano ormai sorpassato, riusavano quello che trovavano sepolto sotto le macerie della Roma imperiale: le stoviglie, le stoffe, gli attrezzi.
Quando un’insula crollava, gli abitanti si trasferivano in un’altra: la disponibilità di case vuote era talmente alta che non c’era nessun bisogno di costruirne di nuove. Ciononostante, era una condizione precaria: le latrine non scaricavano, le fognature non avevano più manutenzione e la Chiesa e l’amministrazione civile si rimbalzavano la responsabilità della pulizia delle strade. Anche la situazione idrica era drammatica. I sedici acquedotti – che in epoca imperiale portavano quotidianamente tonnellate di acqua fresca dagli Appennini – erano stati tagliati dai goti nel primo assedio di Roma (537-538), e da allora la manutenzione era stata molto discontinua.
Cinquant’anni dopo, Gregorio Magno si lamentava in una delle sue epistole delle condizioni dei pochi acquedotti, a stento ancora funzionanti. La vegetazione aveva corroso le tubature di piombo vecchie di secoli e le radici avevano scalzato le fondamenta. Gli impianti termali per cui Roma era famosa erano sbarrati da decenni.
La caduta di Roma è immaginata come un evento sanguinoso. In realtà non venne sparsa neanche una goccia di sangue
Foto: Granger / Album. Colore: santi pérez
Sul Palatino spiccavano ancora i lussuosi palazzi dove un tempo risiedevano gli imperatori, ora riconvertiti a sede dell’amministrazione di Costantinopoli: uffici e residenze di prestigio per i notabili bizantini, i funzionari e la piccola guarnigione militare di stanza nella città. Erano i privilegi degli espatriati che lavoravano in un Paese povero e non volevano mischiarsi con la popolazione locale.
Passeranno i secoli: la città arrancherà, le piazze si inabisseranno nella terra tramutandosi in boschi, gli edifici crolleranno e gli abitanti ricicleranno i materiali per farne nuove costruzioni. Invece di liberare le strade larghe e dritte dei romani che li avevano preceduti, la popolazione aprirà sentieri stretti e tortuosi per aggirare alberi e macerie. La salvezza della città sarà il fatto di essere la sede papale, privilegio che le permetterà di essere uno dei centri più importanti dell’Alto Medioevo italiano.
Eppure, per molto tempo, nulla potrà contro la sensazione di straniamento nell’ammirare una città così grande, così monumentale e così irrimediabilmente vuota.