Quando Mao Tse-Tung dichiarò guerra ai passeri

Nell’epoca del «grande balzo in avanti», il leader cinese promosse
 una campagna di sterminio spregiudicata per massimizzare i profitti dell’agricoltura,
 che portò ad una delle peggiori carestie della storia del Paese

'Venite a uccidere i passeri', recita questa vignetta propagandistica di Bi Cheng. 1956

'Venite a uccidere i passeri', recita questa vignetta propagandistica di Bi Cheng. 1956

Foto: IISH collection; https://chineseposters.net

«Venite ad uccidere i passeri». Suona più o meno così lo slogan stampigliato a caratteri cubitali su uno dei manifesti affissi per le vie di Pechino nel 1956. Il poster ritrae un bimbo armato di fionda, intento a prendere la mira verso il cielo. Al suo fianco, una bambina lo osserva tenendo nella mano sinistra una corda cui sono appesi diversi uccellini morti. Questa è solo una delle immagini veicolate durante una delle campagne più controverse messe in atto nel XX secolo. L’ideatore è Mao Tse-tung, leader del Partito Comunista Cinese e presidente della Repubblica Popolare istituita nel 1949 sulle ceneri lasciate in eredità dalla Seconda guerra mondiale e dai conflitti civili che fino a quel momento avevano attraversato la Cina.

Con la promessa di risollevare il Paese fino ad equiparare economicamente le potenze occidentali, il "Grande timoniere" promuove una serie di politiche d’ispirazione sovietica, tanto audaci quanto inadeguate al contesto in cui sarebbero state applicate. Tra queste, la massimizzazione della produzione agricola e l’eliminazione di ogni potenziale “ostacolo”, compresi quelli naturali. All’epoca ancora non si parlava di danni ambientali e crisi dell’ecosistema, ma fu presto chiaro come e quanto la mano dell’uomo potesse incidere sulla vita di un intero popolo, al contempo vittima e inconsapevole artefice di questo destino.

'Eliminare l'ultimo passero'. Poster propagandistico del 1958. Shen Zhan.

'Eliminare l'ultimo passero'. Poster propagandistico del 1958. Shen Zhan.

Foto: IISH collection; https://chineseposters.net

Importare il comunismo

L’affermazione di questa politica segue l’ascesa del regime Comunista e del suo leader, che sull’onda lunga dell’ottimismo post-bellico punta a mettere in atto una rivoluzione industriale senza precedenti. Tra il 1953 e il 1958 viene promosso il primo piano quinquennale di modernizzazione del settore produttivo ispirato a ciò che l’URSS aveva fatto vent'anni prima. Nonostante la cooperazione sovietica, Mao Tse-Tung si trova a fare i conti con un Paese arretrato e impreparato alle nuove richieste. Servono riforme radicali: la prima consiste nella collettivizzazione dell’agricoltura, che costituiva la principale fonte di sussistenza per il Paese.

L’imponente esproprio delle terre – si parla di circa 47 milioni di ettari – beneficia le famiglie contadine, che riunite in cooperative rappresentano l’unità di misura della rivoluzione economica teorizzata da Mao. Il popolo diventa così un’unica forza produttrice, in cui beni, strumenti e ricavi sono in comune: ognuno ha ciò che basta per vivere; il surplus viene destinato allo Stato per finanziare lo sviluppo dell’industria pesante. Ciò che inizialmente sembra funzionare non rispetta tuttavia le proiezioni di rendita auspicate dal Governo, che crea cooperative ancora più ampie per aumentare i profitti, a scapito delle centinaia di famiglie che ne fanno parte, con margini di benessere sempre più risicati.

Il giovane Mao-Tse-tung interviene nella riunione di Kutien. Dicembre 1929

Il giovane Mao-Tse-tung interviene nella riunione di Kutien. Dicembre 1929

Foto: Everett / Cordon Press

Il grande balzo

Alll’ombra di una nuova crisi socio-economica, la fiducia del popolo nella linea comunista inizia a vacillare, così come l’appoggio degli intellettuali. Serve una nuova visione per ricompattare il consenso e l’identità del Partito comunista, che in quegli anni prende le distanze dalla linea sovietica – caratterizzata dalla destalinizzazione – per rilanciare una politica ancora più spregiudicata. Nel 1958 Mao promette alla Cina un «grande balzo in avanti», e s'impegna a raggiungere in pochi anni lo standard di Regno Unito e Stati Uniti. Per farlo, agricoltura e industria avrebbero dovuto svilupparsi in parallelo, spinte dalla forza lavoro del popoloso stato cinese.

Ciò si riversa nuovamente sulle spalle dei contadini – donne comprese – che ora devono suddividere la manodopera tra campi e piccola industria rurale. I risultati sono modesti e spesso discutibili: ne è un esempio la produzione di acciaio, affidata a piccole fornaci “da cortile” costruite nelle comuni. L’inesperienza e la scarsa qualità dei materiali utilizzati – come stoviglie e scarti di metallo – danno un prodotto inutilizzabile, che vanifica gli sforzi e toglie cura all’agricoltura. Anche i metodi di coltivazione cambiano a favore di un sistema intensivo, che tuttavia non giova allo sviluppo del raccolto.

Contadini cinesi che coltivano una fattoria comunale negli anni cinquanta durante il "Grande balzo in avanti"

Contadini cinesi che coltivano una fattoria comunale negli anni cinquanta durante il "Grande balzo in avanti"

Foto: World History Archive / Cordon Press

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«L'uomo deve conquistare la natura»

Le criticità non arrestano il «grande balzo» voluto dal partito, la cui linea può essere riassunta nello slogan «ren ding shen tian» (l’uomo deve conquistare la natura). Lo ribadisce lo stesso Mao, la cui idea di progresso consiste nel «piegare la testa della più alta montagna e deviare il corso del fiume». Tuttavia la forza-lavoro è al collasso: laddove aumentare la produzione risulta impossibile, non resta altro che ridurre le potenziali perdite eliminando ogni minaccia, a partire da quelle ambientali. Ai contadini vengono distribuite grandi quantità d’insetticida per annientare zanzare e mosche, considerati portatori di malattie. Dopo la carneficina dei ratti – sui cui pende una ricompensa per ogni carcassa – i passeri sono vittima di una vera e propria campagna di sterminio, perché cibandosi di granaglie erano ritenuti responsabili dei danni al raccolto (orzo e riso in particolare).

Il compito di liberare le coltivazioni ricade ancora una volta sulla popolazione, incoraggiata ad allontanare il nemico alato con ogni mezzo. Milioni di cinesi scendono in piazza con armi rudimentali, o ancora pentole e oggetti rumorosi, per spaventare gli stormi e impedire loro di posarsi sugli alberi, fino ad ucciderli per sfinimento. Secondo le stime, vennero sterminati circa otto milioni di passeri, causando quasi la scomparsa della specie. Ciò che appare come una vittoria si rivela presto una catastrofe: in assenza dei loro predatori naturali, l’anno successivo locuste e insetti devastano i raccolti già messi a dura prova dalla siccità.

'Zai nali, zai nali!', ovvero 'Lì, lì'. Manifesto del 1956. Mao Junguang; Gan Xuru.

'Zai nali, zai nali!', ovvero 'Lì, lì'. Manifesto del 1956. Mao Junguang; Gan Xuru.

Foto: IISH collection; https://chineseposters.net

Uccisi dalla fame

La carestia che ne deriva uccide tra i 30 e i 40 milioni di persone tra il 1958 e il 1960, anche se con ogni probabilità il numero delle reali vittime è ancora più alto. La carenza di risorse si ripercuote in seconda battuta anche sulla produzione di grano, che nello stesso periodo crolla del 30 per cento. Durante questi «tre anni amari», fame e malnutrizione mettono in ginocchio la popolazione portando allo sviluppo di malattie e ad episodi di cannibalismo. Nel 1960 il «grande passo avanti» viene abrogato, ma le sue conseguenze si trascinano per anni. Lo scenario ricorda quanto accaduto nell’Unione sovietica tra il 1932 e il 1933, con sei milioni di morti per mano di politiche spregiudicate.

L’Occidente verrà a sapere di questo disastro solo dopo la fine del governo di Mao, che inizialmente nega ogni correlazione tra il “grande balzo” e gli effetti devastanti della carestia, imputabile alla mano dell’uomo più che alle condizioni ambientali. Le responsabilità politiche furono discusse anche durante la stesura della Risoluzione sulla Storia del Partito, in occasione della quale Deng Xiaoping – successore di Mao dal 1976 – sostiene che il lavoro svolto in quegli anni è stato «complessivamente buono», ammettendo che «ci furono passi indietro e sono stati fatti errori durante quel periodo», ma sottolineando che «i risultati furono la cosa più importante».

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