La bandiera, elemento patriottico per eccellenza, riesce spesso a sintetizzare in maniera simbolica i sentimenti, gli ideali e la storia nei quali s'identifica un popolo o una nazione. In questo senso, la rappresentazione prodotta dall’analisi del vessillo del Bangladesh ha un impatto immediato: il rosso e il verde, colori della bandiera bengalese, sono emblemi di nascita e di morte; una dualità indissolubile per una nazione nata nel sangue.
Comprendere appieno la guerra e le violenze che portarono all’indipendenza del Bangladesh, implica un meticoloso sguardo retrospettivo sugli eventi che hanno segnato il recente passato del subcontinente indiano, a partire dall’epilogo della dominazione britannica.
Un ragazzo vende bandiere del Bangladesh davanti all'Università di Dacca
Foto: Mohammad Saiful Islam / NurPhoto / S / Cordon Press
Pakistan e India
La Gran Bretagna, mediante un sofisticato ingranaggio politico - amministrativo volto ad inasprire le fratture tra le popolazioni locali, riuscì a controllare con un esiguo contingente militare la vasta regione indiana per quasi due secoli. Al termine della Seconda guerra mondiale, lo scenario mutò drasticamente: le casse del Regno Unito, depauperate dal conflitto mondiale, non disponevano delle risorse necessarie a controllare la struttura coloniale e a fronteggiare le ormai esacerbate tensioni etniche generate dalla tattica imperiale del divide et impera, perseguita dagli inglesi nel territorio indiano.
Nell’immediato dopoguerra l’Impero britannico progettò di completare la decolonizzazione del subcontinente indiano, ma le crescenti ostilità indussero il viceré d’India, Lord Mountbatten, a decimare drasticamente il tempo tecnico necessario al trasferimento di potere verso la popolazione locale. Il delicato e complesso processo di transizione, originariamente inquadrato in un progetto di durata quinquennale, sarebbe avvenuto in soli quattro mesi. Tra il 14 e il 15 agosto 1947 si ratificava ufficialmente la maldestra partizione dell’India britannica in due stati indipendenti secondo una semplice logica: le zone a maggioranza di fede induista e sikh avrebbero formato l’India, mentre quelle a maggioranza musulmana sarebbero appartenute al Pakistan. La denominazione di quest'ultimo deriva dall'acronimo delle regioni di Punjab, Afghania, Kashmir e Sindh con l’aggiunta di una “i” per facilitare la pronuncia e del suffisso -stan, ovvero terra.
Un bambino siede sconsolato sul muro di un campo di rifugiati a Nuova Delhi. 1947
Foto: World History Archive / Cordon Press
Partizione di sangue
Per delineare i confini delle due future nazioni, fu convocato Sir Cyril Radcliffe, un avvocato inglese mai recatosi precedentemente nei territori in questione e chiamato a ripartire una complessa realtà geografica e culturale senza disporre di una conoscenza eterogenea della zona. Focalizzandosi strettamente sulle identità religiose emerse dalle mappe censitarie analizzate, Radcliffe creò a tavolino i limes dei due stati emergenti. A pochi giorni dalla promulgazione dell’indipendenza, i confini disegnati da Radcliffe divennero pubblici: fu l’inizio di uno dei più tragici e violenti capitoli della storia umana. Quasi venti milioni di persone si ritrovarono dalla parte sbagliata della demarcazione, costrette a marciare verso il paese che rispecchiava la propria religione. L’imponente esodo di massa scaturì in efferatezze riscontrabili ancora oggi nelle foto a noi pervenute. Le barbarie perpetrate da ambo le parti sulle genti in movimento precipitarono nell’attuazione di una vera e propria pulizia etnica: massacri, stupri e violenze su larga scala causarono la morte d’un milione di persone nel giro di poche settimane.
In questo surreale contesto creato dalla partizione inglese, il Pakistan ottenne un vasto territorio affacciato sull’oceano Indiano, allora noto come Bengala orientale e poi trasformato in Pakistan Orientale. Nasceva dunque un Pakistan bicefalo, con le sue parti separate da circa 2000km di territorio indiano e da una marcata diversità culturale e linguistica. L’affinità religiosa, dovuta alla condivisa fede islamica, prevalse sulla distanza geografica e sugli altri elementi antropologici.
Rifugiati musulmani fuggono in treno verso il Pakistan. 26 settembre 1947
Foto: Imago / United Archives / Cordon Press
Pakistan Orientale e Pakistan Occidentale
Dal 1947 al 1971 i rapporti di forza tra i due Pakistan furono sbilanciati a causa di una serie di fattori che rese Dacca – capitale del Pakistan Orientale – de facto una colonia di Islamabad. Il Pakistan Orientale, caratterizzato dalla straordinaria densità demografica che tutt’oggi lo contraddistingue, seppur corrispondente ad un solo quinto del territorio nazionale pakistano, ospitava oltre il 60% della popolazione totale. Nonostante il rilevante peso demografico, gli equilibri di potere protesero sempre verso Occidente. La capitale Islamabad, le istituzioni di governo e le principali attività economiche del Paese si trovavano ad ovest e sin dalla nascita dello stato, oltre i due terzi della spesa pubblica pakistana vennero destinati alla parte occidentale.
Nei quasi 25 anni di convivenza, i bengalesi furono costantemente sottorappresentati nella vita politica e nella macchina burocratica statale. Emblematica, in questo senso, la quota di rappresentanza della popolazione bengalese all’interno dell’esercito pakistano: solo il 5% dei militari proveniva da Oriente. Erano i lasciti della teoria inglese delle razze marziali che identificava nei bengalesi un gruppo etnico poco avvezzo all’uso delle armi, per via di una strutturale cifra antropologica che li rendeva inclini, secondo Londra prima e Islamabad poi, ad uno stile di vita filosofico, sedentario e per nulla pragmatico. A rendere ancor più marcata la discriminazione fu la decisione di adottare l’urdu come lingua ufficiale pakistana, nonostante nella porzione orientale la popolazione parlasse quasi esclusivamente bengali.
Divisione tra India, Pakistan Orientale e Pakistan Occidentale. 1947
Foto: Ruthven (msg) - Opera propria basata su: Historical Pakistan.gif, CC BY-SA 4.0, shorturl.at/bhvzF
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La guerra di liberazione bengalese
Il senso di risentimento dovuto alla repressione politica, economica e sociale del Pakistan Orientale mutò presto in tensioni e impeti d’indipendenza culminati nel dicembre del 1970, quando in seguito alle prime elezioni libere indette dal 1947, la Lega Awami, portavoce delle istanze bengalesi, conquistò 160 dei 162 seggi destinati alla parte Orientale, ottenendo la maggioranza assoluta nel Parlamento pakistano.
Dopo mesi di colloqui, l’establishment occidentale decise di non riconoscere una presidenza a guida orientale e nella notte del 25 marzo 1971, con l’Operazione Searchlight, diede il via a una manovra militare volta a reprimere le proteste bengalesi che chiedevano il riconoscimento del risultato elettorale. Le forze militari pakistane occuparono i principali centri orientali uccidendo, arrestando e torturando gli indipendentisti bengalesi, individuati principalmente in studenti universitari e intellettuali.
I rifugiati del Pakistan orientale riuscirono a portare con sé solo pochi averi nella fuga verso l'India
Foto: DN / Cordon Press
Contemporaneamente all’avvio della cruenta operazione militare, il leader della Lega Awami, Sheikh Mujibur Rahman, il 26 marzo 1971 dichiarava la nascita della Repubblica Popolare Indipendente del Bangladesh (da bangla e -desh, letteralmente Paese dei bengalesi). La guerra di liberazione si protrasse per nove mesi e vide il massiccio coinvolgimento dell’India – in perenne conflitto con il Pakistan – a supporto della resistenza bengalese. Il controllo indiano dello spazio aeronavale, coadiuvato dalla guerriglia bengalese, permise alle milizie indiane di entrare nel Paese e di liberarlo dai quasi centomila soldati pakistani che, il 16 dicembre 1971, con la resa firmata dal generale Niazi, abbandonarono definitivamente il Bangladesh, libero di sorgere indipendente dal giogo pakistano.
Durante la guerra di liberazione tornarono alla memoria gli orrori vissuti ai tempi della partizione: l’esercito pakistano si macchiò di massacri etnici e stupri di massa che portarono all’esodo di dieci milioni di bengalesi nella vicina India e alla morte di un numero di persone che oscilla tra i trecento mila e i tre milioni, secondo i vari osservatori internazionali.
La Mufti Bahinii – forze di resistenza del Bangladesh – era composta da soldati e civili. 1971
Foto: / Cordon Press
La bandiera del Bangaldesh, issata il 26 marzo in tutto il Paese per celebrare l’indipendenza, porta addosso la storia della sua popolazione. Il campo verde, simbolo della fede islamica e della fertile terra bengalese, è sormontato da un disco rosso come il colore del sole che sorge sopra le distese del Bengala. Una terra verde macchiata troppo spesso con il sangue versato dai tanti e dalle tante che morirono per le contraddizioni politiche e sociali che l’hanno caratterizzata e continuano a caratterizzarla. Un legame indissolubile tra nascita e morte per una nazione nata nel sangue e nata col sangue.
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