Prima guerra mondiale. Morire per mano amica nelle trincee italiane

La funesta gestione delle truppe italiane opera del generale Cadorna portò a centinaia di esecuzioni in cui i soldati morirono per mano dei loro stessi commilitoni

«Beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere. Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa». E ancora «Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia». Chi pronuncia questa sequenza di beati non è un prete, bensì Gabriele D’Annunzio, ‘sacerdote’ officiante dell’interventismo, movimento che raggruppa coloro che sostengono l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria-Ungheria nel corso della Prima guerra mondiale. Di lì a poco saranno loro, gli interventisti, ad avere la meglio sui cosiddetti neutralisti, che invece vogliono tenere fuori l’Italia dal conflitto e che, un dettaglio non trascurabile, hanno la maggioranza alla Camera.

Quando D’Annunzio pronuncia la serie di ‘Beati’ di fronte a ventimila persone è il 5 maggio del 1915, la Prima guerra mondiale è scoppiata da quasi un anno e il poeta si trova a Quarto (Genova), dov'è stato invitato per pronunciare un’orazione in occasione dell’inaugurazione del monumento ai Mille di Garibaldi, partiti cinquantacinque anni prima proprio da quello scoglio verso la Sicilia. Il maggio radioso è appena cominciato, saranno venti caldissimi giorni di manifestazioni, discorsi, adunate di piazza e tumultuose discussioni. Fino a quando, la notte del 24 maggio 1915, l’esercito marcia per raggiungere la frontiera. La Grande guerra dell’Italia è cominciata. Il primo nemico è quello austro-ungarico a cui, il 28 agosto 1916, si sarebbe aggiunto quello tedesco.Quello che però i beati di vent’anni e i puri di cuore, come D’Annunzio ha magnificato, ancora non immaginano è che 650mila di loro non saranno fra i ritornanti con le vittorie, né rivedranno il viso novello di Roma e la bellezza trionfale d’Italia. Fra i non ritornanti vi saranno pure 750 disgraziati dalla sorte, falciati non dalla mitraglia austriaca o dal piombo tedesco, bensì dal fuoco esploso dai plotoni d’esecuzione formati dai loro stessi commilitoni, la mano amica. La fucilazione e il processo sommario per atti d’indisciplina sarà un fenomeno che investirà tutti gli eserciti combattenti, sia fra le armate degli imperi centrali che fra quelle dell’Intesa.

D'Annunzio, acclamato dalla folla, auspica l'entrata in campo dell'Italia nella Prima guerra mondiale. Quarto, 5 maggio 1915

D'Annunzio, acclamato dalla folla, auspica l'entrata in campo dell'Italia nella Prima guerra mondiale. Quarto, 5 maggio 1915

Foto: Cordon Press

«Nessuna tolleranza mai, per nessun motivo, sia lasciata impunita»

L’eco delle parole di D’Annunzio pronunciate a Quarto non si è ancora spento e neppure è stata ancora consegnata la dichiarazione di guerra all’impero Austro-Ungarico, che già il generale Luigi Cadorna, capo di stato maggiore del regio esercito, predispone delle rigide misure interne affinché sia fatta rispettare la disciplina a qualunque costo. Per la verità è dal 1914 che il generalissimo o ‘sua eccellenza’, come Cadorna è chiamato, si adopera per ripristinare la disciplina in seno alla forza armata, a detta sua «la più urgente necessità fra tutte le deficienze del nostro esercito». La base giuridica su cui si basano le sue ‘circolari’ è il Codice penale dell’esercito, che risale al 1869. Ma il conflitto che si sta combattendo è una guerra moderna dove tutta la nazione è coinvolta nello sforzo bellico. L’esercito assume dimensioni colossali. L’Italia arriva a mobilitare circa cinque milioni e seicento mila uomini. Gestire simili numeri richiede, probabilmente, doti totalmente nuove, come flessibilità e considerazione dell’aspetto psicologico dei combattenti. Cadorna, invece, gestisce con diffidenza e autoritarismo, due aspetti che sono ormai obsoleti per quel tempo. Di questo ne darà conto, il 29 giugno 1917, il deputato socialista Modigliani che critico verso la condotta della guerra di Cadorna, lo definirà «in arretrato di un secolo, anche nel modo come s’intende da lui mantenere la disciplina militare, cioè col terrorismo e le fucilazioni per sorteggio e con la decimazione». Ovvero fucilare un soldato scelto a caso ogni dieci. Sulla questione del mantenimento della disciplina, il generalissimo ricorda agli ufficiali la necessità di dare l’esempio alla truppa in ogni circostanza. Di fronte a qualsiasi gesto d’indisciplina chi porta i gradi deve essere inflessibile. È la politica della tolleranza zero che deve essere applicata alla truppa ma anche agli ufficiali stessi. «Nessuna tolleranza mai, per nessun motivo, sia lasciata impunita – scrive Cadorna – la si colpisca anzi, con rigore esemplare, alla radice, appena si manifesti, sia qualunque il grado e la posizione di chi tolleri».

Il generale Cadorna arriva a Calais. Marzo 1916.

Il generale Cadorna arriva a Calais. Marzo 1916.

Foto: TopFoto.co.uk / Cordon Press

Il 19 maggio 1915, il capo supremo dell’esercito interviene con una circolare in merito alla pratica dell’autolesionismo: decine di soldati infatti s'infliggono appositamente delle ferite per non essere inviati in prima linea. Li definisce «Ignobili simulatori» contro i quali gli ufficiali medici devono usare immediatamente tutto il rigore delle disposizioni disciplinari e penali. Siamo in guerra soltanto da pochi mesi che dal ‘comandissimo’, epiteto dell’epoca per definire il comando supremo retto da Cadorna, il 28 settembre 1915 arriva ai vari comandi in linea una nuova disposizione sulla disciplina. Carabinieri e ufficiali sono autorizzati a punire tramite esecuzione sommaria i soldati che abbandonano la linea. «Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi – ribadisce Cadorna –. Chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto, prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri».

L’attuazione della disciplina ‘cadorniana’ contempla molteplici casistiche. Per chiunque riesca, infatti, a sfuggire a questa «salutare giustizia sommaria, subentrerà, inesorabile, esemplare, immediata, quella dei tribunali militari». Per quei ‘fortunati’ che invece disertano e riescono ad arrendersi indenni al nemico, c’è l’immediato processo in contumacia e a guerra finita li aspetta l’esecuzione. Mentre il conflitto prosegue e divora mese dopo mese, assalto dopo assalto, le vite dei soldati, gli strali di Cadorna aumentano. A fronte di impronunciabili cifre di caduti, il territorio conquistato è esiguo, le cose non vanno secondo i suoi piani, per lui l’esercito si sta «infettando» del morbo del disfattismo, della codardia, di cedimento di fronte al nemico. Eppure, non mancano gli atti di valore e di eroismo fra i soldati italiani. Cadorna è convintissimo che lui non sbagli mai. La colpa se le cose non vanno secondo i suoi piani è di chi non ha saputo credere nella vittoria della battaglia, dal graduato più alto sino al miserabile che la morte la vede e la vive nel fango della trincea e la sente nelle sue orecchie quando gli fischiano sopra la testa i proiettili austriaci. La verità è un’altra. I soldati, come anche negli eserciti degli altri contendenti, sono stanchi di questa guerra logorante, ma soprattutto di essere mandati al massacro con azioni fuori da ogni logica, tipo assalti frontali alla baionetta contro mitragliatrici, oppure il divieto assoluto di retrocedere dalle posizioni se non quando le perdite ammontano a non meno dei tre quarti degli effettivi.

Soldati italiani escono da una trincea nel corso di una battaglia della Prima guerra mondiale

Soldati italiani escono da una trincea nel corso di una battaglia della Prima guerra mondiale

©Rue des Archives/Tal / Cordon Press

Pugno di ferro contro ammutinati e ribelli

Quando l’ottusità del comando supremo si trasforma in attacchi insensati, revoca di licenze, ritardi nel concedere il cambio ai reggimenti in prima linea, che implica la drastica riduzione delle possibilità di sopravvivere, o peggio ancora richiamare in linea le truppe a cui è stato appena concesso il sospirato riposo, l’esasperazione dei soldati sfocia in aperta ribellione. Ma chi si ammutina, chi insorge, si ritrova con una scarica di piombo alla schiena, falciato dalla "mano amica". Come nel marzo 1917, quando per la brigata Ravenna finalmente giunge il cambio dopo ben cinque mesi in linea. Passano appena quarantotto ore che arriva il contrordine. Tornare in linea! Fra l’incredulità e la rabbia i soldati esplodono: «Abbasso la guerra! Vogliamo il riposo! Morte agli imboscati!». Col passare delle ore la situazione si normalizza, così il mattino successivo la Ravenna marcia verso la prima linea. Gli ufficiali minimizzano nei loro rapporti l’accaduto, ma ciò che è avvenuto è, per il generalissimo, intollerabile. La punizione deve essere immediata. Siccome i colpevoli non saltano fuori, si estraggono a sorte diversi uomini. Quattro sono fucilati il primo giorno, poi l’estrazione continua per una settimana, alla fine muoiono in venti. Fra questi cade anche un volontario, un italiano emigrato che è venuto dall’America, si è distinto in battaglia ed è stato decorato di medaglia d’argento. Se fosse rimasto oltreoceano non lo avrebbero neppure considerato come renitente alla leva, altro pesante reato. Poco prima che il plotone faccia fuoco il povero milite urla coprendosi la ferita riportata in combattimento: «Non colpite qui. Non voglio che un proiettile italiano mi trafigga il segno del valore».

Ma accanto a questi ‘slanci’ d’amore patriottico, sono più le imprecazioni e l’umanissima disperazione che accompagna i condannati di fronte al plotone. La disciplina ‘cadorniana’ si fa sentire anche sotto le bombe, come il 10 giugno 1917, quando comincia la battaglia sul monte Ortigara. Altra cima e altra impronunciabile cifra di 25mila caduti in azione. Da ore, quella mattina, le artiglierie italiane battono contro le linee austriache, ma il tiro è troppo corto e colpisce i fanti della brigata Sassari schierati in attesa di balzare fuori dalle loro posizioni contro i munitissimi trinceramenti nemici. Una compagnia è ricoverata all’interno di una galleria in attesa che venga dato l’ordine di attaccare, i tiri d’artiglieria però centrano l’imboccatura uccidendo dei soldati. All’interno è il panico. Scrive Emilio Lussu, ufficiale della Sassari: «Ai soldati sembrava che la volta dovesse crollare e schiacciarli tutti e gridavano – Fuori! Fuori!». Gli ordini però sono tassativi, il maggiore Melchiorri urla che nessuno può uscire allo scoperto prima dell’ora fissata per l’assalto. Ma quando nuovi colpi dell’artiglieria colpiscono la caverna, i soldati escono all’aperto e si riallineano in una zona più riparata. Melchiorri, sotto l’effetto di un’intera bottiglia di cognac, crede sia in corso un ammutinamento. Immediatamente ordina la fucilazione con procedimento eccezionale. Venti soldati sono scelti col metodo della ‘decimazione’, così senza alcuna logica è semplicemente la sorta a decidere chi vive e chi muore. A nulla servono le rimostranze del capitano Fiorelli, comandante un’altra compagnia. Melchiorri, infatti, gli urla contro che lui si avvale delle circolari di sua eccellenza Cadorna. La scelta è compiuta, i venti disgraziati sono allineati di fronte al plotone che fa fuoco, ma spara in alto. «L’ira del maggiore esplose. Ebbe il tempo di sparare tre colpi. Il capitano Fiorelli estrasse la pistola – Signor maggiore lei è pazzo! Il plotone d’esecuzione, senza un ordine, puntò sul maggiore e fece fuoco. Il maggiore si rovesciò crivellato di colpi».

Emilio Lussu, scrittore e politico, fotografato in divisa da tenente nel corso della Prima guerra mondiale

Emilio Lussu, scrittore e politico, fotografato in divisa da tenente nel corso della Prima guerra mondiale

Foto: Pubblico dominio

Il 15 luglio 1917 altro episodio di ribellione, il più grave di tutta la guerra. Stavolta ad ammutinarsi è un’intera brigata, la Catanzaro. I suoi reggimenti, impiegati sia sull’Isonzo che sul Carso, combattono duramente sin dall’inizio del conflitto con perdite gravissime. Nella zona di Asiago, sul monte Mosciagh tale è il valore dei suoi uomini che viene coniata l’espressione ‘Sul monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone’. Giunge finalmente il riposo dopo settimane di prima linea, la brigata si acquartiera nel paesino di Santa Maria la Longa (Udine), ma ecco che arriva un nuovo ordine: si rientra in linea. Alla notizia il malumore si diffonde fra i soldati e in breve scoppia la rivolta. Si spara contro le baracche e contro gli ufficiali. Per sedare la ribellione ci vuole tutta la notte, numerosi carabinieri, diversi cavalleggeri e una sezione d’artiglieria. Al mattino si contano tre ufficiali e quattro carabinieri morti. Il pugno di ferro è immediato. Ventotto sono fucilati subito, fra questi dodici sono scelti a sorte. Altri, riconosciuti colpevoli sono scortati dai carabinieri verso la prima linea, ma alcuni di essi si rifiutano e gettano le giberne delle munizioni. Risultato: nuove fucilazioni sommarie.

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Un ‘disonore’ che dura da più di un secolo

Carnia, zona di guerra nei pressi del Passo di Monte Croce Carnico, 23 giugno 1916. Il battaglione degli alpini Monte Arvenis riceve l’ordine di prepararsi ad un attacco diurno alla cima est del Monte Cellon strenuamente difesa dagli austriaci. Alla notizia gli alpini sono increduli: l’azione, infatti, prevede che l’attacco avvenga da una parete totalmente scoperta, liscia sotto il tiro della mitraglia austrica. Un’azione del genere in pieno giorno equivale a compiere un attacco suicida. Gli alpini protestano, chiedono che venga modificato l’ordine di attacco e che l’assalto avvenga da un canalone che permetterebbe più copertura e, soprattutto, di sorprendere il nemico alle spalle. Questi soldati conoscono bene la zona, la stragrande maggioranza di loro è stata, infatti, reclutata proprio dai paesini vicini. In tempo di pace salivano su quelle cime, ora insanguinate, per gli alpeggi. Fra i dubbiosi vi è il caporal maggiore Silvio Gaetano Ortis. È un veterano della guerra di Libia del 1911-1912, dove ha combattuto valorosamente ed è stato decorato. Ortis allora ha un’idea: propone al tenente del suo plotone d'intercedere con i comandanti affinché almeno si possa tentare un attacco notturno, dove oltre all’oscurità, pure la nebbia giocherebbe a favore degli alpini. Il capitano della compagnia, Armando Ciofi, non ne vuol sapere e anzi accusa i plotoni designati per l’attacco di essere dei vigliacchi. Intanto il malcontento fra i soldati cresce, tanto che la sera diversi alpini si riuniscono dentro una baracca e decidono di disobbedire all’ordine suicida di attaccare la cima del Cellon.

Prima guerra mondiale, fronte italiano. Batteria sulla collina 21 del Monte Falcone.

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Foto: © Roger-Viollet / Cordon Press

La rivolta è scoppiata. Ottanta soldati vengono immediatamente accusati di ‘rivolta in faccia al nemico’. Ortis è fra gli incriminati assieme ad altri tre suoi commilitoni, i caporali Basilio Matiz e Giovanni Battista Coradazzi e il soldato Angelo Primo Massaro. L’incriminazione è totalmente ingiusta visto che i quattro non hanno neppure partecipato alla sediziosa riunione. A nulla servono le rimostranze. I quattro alpini sono giudicati da un tribunale straordinario che si riunisce nella la chiesa del paese di Cercivento (Udine). Il processo inizia la sera del 30 giugno. Fondamentale è la deposizione del capitano Ciofi, che indica Ortis e gli altri tre come i fomentatori della rivolta. I quattro alpini sono condannati alla fucilazione. Il processo è talmente rapido che la sentenza di morte è emessa alle due di notte e due ore dopo i quattro sono già portati su un campo dietro la chiesa per l’esecuzione. Sono le quattro del mattino del primo luglio 1916. Il parroco del paese, unico segno di umana pietà in questa vicenda, don Luigi Zuliani, implora il comando di risparmiare le vite a questi soldati. Spiega che chiederà per loro la grazia direttamente alla regina. La supplica è respinta. Allora Zuliani, in un immenso gesto di altruismo, si offre addirittura di essere fucilato al loro posto, ma neppure questo cambia la sorte dei quattro alpini. Legati alle sedie e degradati con disonore, un plotone di carabinieri fa fuoco su di loro. I commilitoni, infatti, si sono rifiutati di far parte del plotone d’esecuzione. Passano pochi giorni e gli alpini del Monte Arvenis si lanciano all’attacco della cima del Cellon conquistandola e facendo diversi prigionieri. L’azione è avvenuta di notte, come aveva suggerito Ortis.

La vicenda dei quattro alpini non finisce in quel mattino d’estate, ma dura sino ad oggi. Dopo ben centosette anni, Ortis, Matiz, Coradazzi e Massaro non sono stati ancora ufficialmente riabilitati. L’infausto esito di quel processo sommario del 1916 ‘colpirà’ pure i familiari di Ortis, soprattutto i nipoti, che combatterono su vari fronti della Seconda guerra mondiale. A fine conflitto non vedranno loro riconosciuta né la pensione di guerra, né il loro contributo alle azioni a cui presero parte. Nel 2021 il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia ha istituito la Giornata regionale della restituzione dell’onore ai fucilati che si celebra il primo luglio, nell'anniversario della fucilazione. Accanto ai nomi di Ortis, Matiz, Coradazzi e Massaro ci sono ancora tantissimi altri che meritano la riabilitazione. Sono quei 750 soldati italiani fucilati per mano amica. Questi disgraziati dalla sorte fanno parte di quei 4.028 condannati a morte durante il conflitto, di cui 2.967 in contumacia, mentre per 311 di loro la condanna non è avvenuta.

Fanteria del deserto italiana durante la prima guerra mondiale

Fanteria del deserto italiana durante la prima guerra mondiale

Foto: World History Archive / Cordon Press

Per saperne di più:

  • Isonzo 1917. Mario Isnenghi, BUR, 2001.
  • Cadorna. Il generalissimo di Caporetto. Gianni Rocca Mondadori Storia, 2004.
  • Gli ammutinati delle trincee. Marco Rossi, BFS Edizioni, 2016.
  • La fucilazione dell’alpino Ortis. Maria Rosa Calderoni, Mursia Editore, 2022.

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