Podcast – Spartaco, lo schiavo che sfidò Roma

Per alcuni storici fu solo un bandito, per altri un eroe della libertà. Ma la rivolta animata da Spartaco nel 73 a.C. fu una delle minacce più gravi che la Roma repubblicana si trovò ad affrontare nel corso della sua storia

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Il giorno in cui fu condotto a Roma per esservi venduto, «uno schiavo trace vide in sogno un serpente che gli si attorcigliava sul viso. La sua donna, una sacerdotessa di Dioniso, vaticinò che l’inquietante visione indicava un potere a cui sarebbe seguita una fine sventurata». Il nome di quella donna non si è mai saputo, ma quello dello schiavo sì: Spartaco.

Il sogno di Spartaco è raccontato dallo storico greco Plutarco nella sua Vita di Crasso. A creare per primi il mito dell’invincibile gladiatore che attentò all’impero furono proprio gli autori classici. I riferimenti a Spartaco nei loro scritti, però, sono in genere brevi e spesso non coincidenti. Esistono comunque almeno due tradizioni storiografiche: una favorevole allo schiavo trace, rappresentata dai greci Plutarco e Appiano di Alessandria, che in qualche modo idealizzano il personaggio; e un’altra più critica, sostenuta da storici romani come Livio e Lucio Anneo Floro, secondo i quali la rivolta fu un semplice episodio di brigantaggio. Circa cinque secoli dopo la morte di Spartaco, Sant’Agostino, nella sua opera La città di Dio, ripercorreva l’intera vicenda, spendendo parole di disprezzo nei confronti dei ribelli, descritti come un’orda devastatrice. A metà del XIX secolo, invece, Spartaco divenne un mito per il nascente movimento operaio: lo schiavo ribelle in lotta contro l’oppressione.

Nella statua in bronzo dello scultore Denis Foyatier, Spartaco è idealizzato come un paladino della libertà e di tutti gli oppressi della storia. 1847, Musée des Beaux- Arts, Lille, Francia.

Nella statua in bronzo dello scultore Denis Foyatier, Spartaco è idealizzato come un paladino della libertà e di tutti gli oppressi della storia. 1847, Musée des Beaux- Arts, Lille, Francia.

Foto: René-Gabriel Ojeda / RMN

La fuga da Capua

Quella di Spartaco fu l’ultima di una serie di guerre servili che interessarono Roma tra il 136 a.C. e il 71 a.C. In quel periodo la repubblica era indebolita dalle ripetute guerre di conquista, oltre che dalla difficoltà di gestire gli immensi territori assoggettati. Per di più i continui trionfi militari avevano fatto affluire in Italia un numero enorme di schiavi, che vivevano in condizioni disumane covando sogni di rivalsa. Nel 73 a.C., mentre una carestia fiaccava l’Urbe e i suoi eserciti erano impegnati nel Ponto contro Mitridate e in Spagna contro Sertorio, a Capua, presso l’attuale Caserta, scoppiò una ribellione. Ebbe origine nella celebre scuola di gladiatori di Gneo Lentulo Batiato, dove una settantina tra schiavi galli o traci riuscirono a fuggire e a rifugiarsi nei territori intorno al Vesuvio. I capi del gruppo erano tre: Spartaco, di origine tracia, Crisso ed Enomao, di origine gallica o germanica. Secondo alcuni storici, Spartaco era il “generale”, mentre altri ritengono che condividesse il comando con i due compagni. In ogni caso, poiché nei racconti di Plutarco e Appiano – i più dettagliati al riguardo – il primato è attribuito a Spartaco, fu il suo nome a restare nella memoria dei posteri.

Una personalità controversa

Non è facile ricostruire la personalità di Spartaco. Plutarco presume che avesse ricevuto un’educazione greca, e che fosse dotato di forza e intelligenza. Invece Appiano, nella sua Storia Romana, ne offre un ritratto più controverso, raccontando per esempio di quando sacrificò trecento prigionieri per vendicare l’uccisione di Crisso. Lo stesso Appiano sostiene che, prima di entrare nella scuola gladiatoria, Spartaco avesse prestato servizio nell’esercito romano in Macedonia finché, dichiarato disertore, non fu ridotto in schiavitù e venduto come gladiatore. Anche lo storico Floro lo descrive come un disertore che, essendo dotato di straordinario vigore fisico, si riciclò come gladiatore. La versione di Sallustio, invece, è più benevola: Spartaco sarebbe stato un uomo prudente e colto, che dovette faticare non poco per contenere gli eccessi degli altri schiavi.

Combattimenti di gladiatori in un affresco proveniente dalla villa romana di Dar Buc Ammera, nei pressi del sito archeologico di Leptis Magna (Libia). II sec. d.C., Museo della Jamahiriya, Tripoli.

Combattimenti di gladiatori in un affresco proveniente dalla villa romana di Dar Buc Ammera, nei pressi del sito archeologico di Leptis Magna (Libia). II sec. d.C., Museo della Jamahiriya, Tripoli.

Foto: Corbis

La sua mentalità di uomo libero, dunque, sarebbe da contrapporsi a quella di Crisso, che invece rappresenta colui che è schiavo per natura. Tutte queste interpretazioni testimoniano come già gli antichi oscillassero tra il considerare Spartaco un semplice bandito e l’attribuirgli un carattere nobile, rendendolo dunque un degno avversario per l’esercito romano.

L’armata degli schiavi

Se è difficile determinare la personalità di Spartaco, ancora più complesso è spiegare gli obiettivi della sua rivolta. Lasciata Capua, i fuggitivi si raccolsero sulle pendici del monte Vesuvio (fu l’eruzione del 79 d.C. a dimostrare che si trattava di un vulcano). In origine il gruppo era formato solo da gladiatori ribelli, cui in seguito si aggiunsero altri schiavi fuggiaschi e gruppi di braccianti e pastori della zona. I romani inviarono ad affrontare gli insorti il pretore Claudio Glabro, alla testa di un contingente di tremila uomini. Glabro assediò i ribelli bloccando l’unica via di fuga dalla montagna; ma gli schiavi, scoperti sui fianchi del monte alcuni vigneti selvatici, ne tagliarono i tralci e, intrecciandoli, costruirono delle scale per calarsi dalle ripide pareti del Vesuvio. In tal modo riuscirono ad aggirare il contingente di Glabro, lo attaccarono alle spalle e lo misero in fuga. Dopo questa prima vittoria, molti altri ribelli si aggregarono a Spartaco, che riuscì a raccogliere ben 70mila uomini. Questa grande armata affrontò poche settimane dopo le legioni del pretore Publio Varinio, inviato a sostituire Glabro, e inflisse loro una memorabile sconfitta. A questo punto, nel 72 a.C., il senato, allarmato dalle dimensioni raggiunte dalla rivolta, inviò contro Spartaco i consoli Lucio Gellio Publicola e Gneo Lentulo Clodiano, che decisero di adottare una tattica di accerchiamento.

Gellio si diresse a sud, per tagliare la strada ai ribelli diretti in Sicilia e spingerli verso nord. Lentulo, a sua volta, si stanziò nel Piceno (le attuali Marche) per intercettare il nemico. Le legioni di Gellio attaccarono Crisso e il suo esercito in Puglia: nella battaglia del Gargano morirono lo stesso Crisso e 20mila schiavi. Spartaco si trovò allora a fronteggiare da solo entrambi i consoli, che sconfisse separatamente «di qua e di là dell’Appennino». Poi, dopo aver immolato 300 prigionieri romani come ritorsione per la morte di Crisso, risalì l’Italia fino a Modena, dove sbaragliò le truppe di Caio Cassio, proconsole della Gallia Cisalpina. Era aperta a questo punto la via per le Alpi, e quindi per il rimpatrio dei suoi compagni d’armi celtici, germanici e slavi. Ma Spartaco decise di tornare indietro. Sono state proposte varie ipotesi per spiegare i motivi di questa scelta. È probabile che lo schiavo trace non intendesse davvero valicare le Alpi, oppure che la mancanza di viveri lo avesse indotto a tornare al sud, dove avrebbe potuto trovare buoni supporti logistici. In ogni modo, Spartaco percorse di nuovo la Penisola lungo il litorale adriatico e giunse fino in Lucania.

La palestra dei gladiatori di Pompei, costruita in epoca augustea: la rivolta di Spartaco ebbe origine in un’altra celebre scuola gladiatoria campana, quella di Capua, diretta da Gneo Lentulo Batiato.

La palestra dei gladiatori di Pompei, costruita in epoca augustea: la rivolta di Spartaco ebbe origine in un’altra celebre scuola gladiatoria campana, quella di Capua, diretta da Gneo Lentulo Batiato.

Foto: Photolibrary

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La riscossa di Roma

Intanto, però, qualcosa era cambiato a Roma. Fino ad allora i successi degli schiavi erano stati favoriti certo dalla loro superiorità numerica e dalla tattica di guerriglia, ma anche dalla mediocrità dei generali che li avevano affrontati. Infatti, in quel momento, i due migliori comandanti romani si trovavano fuori d’Italia: Gneo Pompeo in Spagna e Marco Terenzio Varrone Lucullo in Oriente. I romani decisero perciò di affidare la guida del loro esercito all’unico uomo che sembrava all’altezza dei due assenti: Marco Licinio Crasso. Membro della potente gens Licinia, Crasso era ricchissimo e perciò motivato a far cessare al più presto i disordini degli schiavi, che danneggiavano agricoltura e commerci. D’altra parte, il suo grande rivale politico, Pompeo, stava sgominando il ribelle Sertorio in Spagna, e si attendeva a breve il suo trionfale ritorno. Crasso aveva quindi ogni interesse a sedare quanto prima la rivolta, per conservare un ruolo centrale nella politica romana. Forse la lotta contro gli schiavi ribelli non era l’occasione migliore per conseguire la gloria, ma poiché Spartaco veniva equiparato ad Annibale, Crasso, sconfiggendolo, sarebbe divenuto il nuovo Scipione, con tutto il prestigio conseguente. Se voleva ottenere la vittoria da solo, Crasso doveva tuttavia agire rapidamente. A tal fine, inviò in avanscoperta il suo luogotenente Mummio con l’ordine di tenere sotto stretta sorveglianza i movimenti dell’esercito ribelle. Questi però gli disobbedì e attaccò gli schiavi, subendo una vergognosa sconfitta.

Furibondo, Crasso ristabilì a forza la disciplina tra i suoi uomini giustiziando cinquanta legionari ogni cinquecento con il sistema della verberatio (la fustigazione). Poi riprese la caccia a Spartaco. L’ex gladiatore si era ritirato verso l’Italia meridionale ed era giunto in Calabria, forse nella speranza di raggiungere la Sicilia, focolaio di nuove rivolte servili. Ma i corsari della Cilicia che avrebbero dovuto fornirgli le imbarcazioni di supporto lo tradirono. Nel frattempo i soldati romani avevano innalzato, all’altezza di Catanzaro, un muro di 55 chilometri dalla costa ionica a quella tirrenica, precludendo la via di fuga e i rifornimenti agli schiavi. Spartaco non si arrese facilmente e, approfittando di una notte di tempesta, spezzò l’accerchiamento. I ribelli, esaltati dalla vittoria, non si trattennero dal saccheggiare i villaggi e le campagne circostanti.

Nel 72 a.C. Spartaco tentò di sbarcare in Sicilia e unire le sue forze a quelle di una locale rivolta di schiavi, ma non trovò navi per varcare lo stretto. Nell'immagine, il teatro romano di Taormina.

Nel 72 a.C. Spartaco tentò di sbarcare in Sicilia e unire le sue forze a quelle di una locale rivolta di schiavi, ma non trovò navi per varcare lo stretto. Nell'immagine, il teatro romano di Taormina.

Foto: Giovanni Simeone

Plutarco descrive così la situazione: «Fu un successo dunque, ma segnò la rovina di Spartaco. L’orgoglio si impadronì dei suoi schiavi. Non tollerarono più di dover evitare la battaglia né di ubbidire ai comandanti». In quel momento decisivo, il senato romano decise di inviare rinforzi a Crasso, cosicché Pompeo, appena rientrato in Italia, marciò dal centro Italia verso sud, mentre altre truppe di supporto sbarcavano a Brindisi. Spartaco, chiuso in una morsa, non poté far altro che affrontare l’esercito di Crasso in Puglia. Era il 71 a.C.

L’ultima battaglia

Ecco come Plutarco rievoca i momenti precedenti la battaglia: «Prima di tutto, si fece portare il suo cavallo e lo decapitò, dicendo che, se avesse vinto, avrebbe potuto avere buoni cavalli in abbondanza, e che, se avesse perso, non ne avrebbe più avuto bisogno». Poi dispose i suoi uomini per la battaglia, che però si risolse in una disfatta: circa 60mila ribelli restarono sul campo, contro soli mille romani. Ancora Plutarco ci narra l’eroica morte di Spartaco: «Spingendosi quindi alla ricerca di Crasso, in mezzo alle armi e ai colpi, non lo poté raggiungere. Alla fine, mentre quelli intorno a lui fuggivano, fermo al suo posto e accerchiato da molti nemici, fu massacrato di colpi mentre ancora si difendeva».

Il suo corpo non fu mai ritrovato. Crasso fece crocifiggere seimila schiavi prigionieri lungo la via Appia, da Capua fino a Roma. Pompeo, frattanto, intercettava e sgominava i circa cinquemila schiavi superstiti della battaglia. Crasso non osò chiedere il trionfo che si concedeva per le grandi imprese, e dovette accontentarsi della “ovazione”, una cerimonia di trionfo minore, nella quale il vincitore sfilava a piedi. Alcuni studiosi moderni, scettici sull’idealizzazione del personaggio proposta da Plutarco, hanno sminuito l’impatto reale della rivolta di Spartaco sui contemporanei. Per questi storici, la rivolta non fu che una serie di atti di saccheggio compiuti da schiavi fuggiaschi, organizzati in bande separate, che agivano agli ordini di qualche caporione; tra questi, forse, Spartaco aveva il comando supremo.

La morte di Spartaco, di Hermann Vogel. XIX-XX secolo

La morte di Spartaco, di Hermann Vogel. XIX-XX secolo

Foto: Pubblico dominio

Per tre anni i ribelli misero sotto scacco un esercito romano debole, guidato da generali inetti e di scarsa esperienza, fino a che, una volta ristabilita la disciplina, le rivolte furono soffocate e i loro protagonisti sterminati. Secondo questi stessi autori, furono gli storici romani posteriori a voler ingrandire le proporzioni della rivolta, con evidenti fini propagandistici. In ogni caso, l’assenza di un obiettivo politico preciso, lo scarso appoggio ottenuto dalle città della Penisola e le inesauribili risorse della Roma repubblicana frustrarono qualunque speranza di successo dei ribelli. Il senato, per accontentare Crasso e Pompeo, concesse loro il titolo di consoli nel 70 a.C., malgrado le severe leggi del cursus honorum lo proibissero. La politica romana negli anni successivi divenne una lotta personale per il potere, nella quale entrambi i vincitori della guerra a Spartaco finirono vittime della propria ambizione. Crasso perì combattendo contro i parti, in Oriente; Pompeo morì più tardi, nella guerra civile scatenata contro Cesare.

A Roma non vi fu più alcuna rivolta paragonabile a quella di Spartaco. Forse ciò fu dovuto alle maggiori possibilità di emancipazione concesse agli schiavi e al trattamento più umano che essi ricevettero durante l’Impero. In una delle sue lettere (l’Epistola 47 a Lucilio), il filosofo Seneca mette in evidenza proprio questo cambiamento: «Ho saputo che vivi in amicizia con i tuoi schiavi: ciò si addice alla tua saggezza e alla tua cultura. ‘Sono schiavi’. No, sono uomini. ‘Sono schiavi’. No, vivono nella tua stessa casa. ‘Sono schiavi’. No, compagni di schiavitù, se consideri che la Fortuna ha lo stesso potere sugli uni e sugli altri».

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