Podcast – I milionari di Roma: saccheggi, traffici e usura

Nel I secolo a.C. alcuni romani accumularono enormi fortune con l’usura, l’attività immobiliare e il governo delle province

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In qualsiasi epoca diventare milionario è un destino riservato a una piccola minoranza dotata di attitudini singolari e con pochi scrupoli. Roma non fece eccezione. Anzi, divenne addirittura il modello di coloro che in epoche successive hanno inseguito questo destino nella nostra civiltà occidentale. Le strade per diventare ricchi nell’antica Roma erano diverse. Senza dubbio, la più rapida era la guerra, che poteva far ottenere bottini molto ingenti ai generali vittoriosi. Non meno proficuo era ottenere il governo di una provincia conquistata, che un proconsole o un propretore potevano sfruttare in maniera arbitraria per accrescere la loro fortuna personale. Vi fu anche chi divenne immensamente ricco mediante l’accaparramento di proprietà agrarie, con i commerci e gli affari derivati dai grandi contratti con lo stato o, per finire, come banchiere o prestasoldi a usura.

A Roma un modo per ostentare la propria ricchezza era organizzare banchetti nei quali venivano serviti piatti raffinati e costosi. Roberto Bompiani. XIX secolo. Getty Museum, Los Angeles

A Roma un modo per ostentare la propria ricchezza era organizzare banchetti nei quali venivano serviti piatti raffinati e costosi. Roberto Bompiani. XIX secolo. Getty Museum, Los Angeles

Foto: Bridgeman / ACI

Tra saccheggi, abusi di autorità, prevaricazioni e usura, molti romani si arricchirono a piene mani. Alcuni, semplici furfanti, non seppero amministrare il patrimonio e finirono per perdere capitale e dignità, ma i più astuti riuscirono a far aumentare proprietà e fortuna con il prestito di denaro, gli investimenti immobiliari e l’incremento di residenze e latifondi.

Crasso il Ricco

Verso la fine della repubblica, nel I secolo a.C., vi furono numerosi casi di rapido arricchimento personale. Non per nulla, agli occhi di molti contemporanei, quella fu un’epoca dominata da una passione irrefrenabile per il denaro, come riconobbe lo storico Tito Livio: «Da qualche tempo la ricchezza ha introdotto l’avidità. E piaceri sempre più sfrenati hanno generato la smania di rovinarsi e di sperperare ogni cosa nel lusso e nella libidine».

L’uomo più ricco di Roma in quegli anni era Marco Licinio Crasso (115-53 a.C.), soprannominato «il ricco» (dives). Secondo Plutarco, il suo patrimonio, che all’inizio della sua carriera era di trecento talenti, aveva raggiunto i 7100 prima della morte, mentre per Plinio possedeva terre per un valore di 200 milioni di sesterzi. Crasso era convinto che nessuno si potesse considerare milionario se non era in grado di mantenere un esercito. Se teniamo conto che il mantenimento di un paio di legioni consolari costava circa 2,5 milioni di sesterzi l’anno, è chiaro che Crasso poteva permettersi facilmente quella spesa. E in effetti, durante le lotte politiche a Roma, Crasso non esitò ad armare un esercito personale e a mettere la sua fortuna e il suo potere a disposizione di terzi, come fece con Giulio Cesare, suo alleato nel triumvirato che governò Roma tra il 60 e il 53 a.C.

Marco Licinio Crasso. Scultura del XIX secolo. Roma

Marco Licinio Crasso. Scultura del XIX secolo. Roma

Foto: Bridgeman / Getty Images

Pur avendo ereditato dalla famiglia una fortuna considerevole, Crasso la accrebbe enormemente con diversi mezzi. Si aggiudicò a prezzi simbolici i beni che il dittatore Silla confiscò ai suoi nemici dopo le proscrizioni dell’81 a.C. Successivamente creò un’impresa immobiliare per acquistare per somme irrisorie gli edifici in cui si ammassavano le abitazioni popolari (insulae) che erano state preda di frequenti incendi o crolli a Roma. Comprò fino a cinquecento schiavi perché lavorassero come architetti e capomastri nel restauro degli immobili e continuare così a godere delle rendite.

La maggior parte degli edifici in affitto della capitale passò per le sue mani, e in questo modo Crasso divenne il maggior proprietario di beni immobiliari di Roma. Il facoltoso triumviro morì vittima della sua cupidigia nel 53 a.C., quando alla guida del proprio esercito intraprese un’azzardata offensiva contro l’impero dei parti. Sconfitto a Carre (l’attuale Harran, in Turchia), Crasso fu catturato dai parti che, secondo le fonti antiche, lo assassinarono versandogli in gola oro fuso, metafora dell’avidità che aveva caratterizzato tutta la sua vita.

Bottino di guerra

Anche la parabola di Giulio Cesare illustra bene la stretta interconnessione tra denaro e politica nell’antica Roma. Cesare apparteneva a una famiglia romana di antica stirpe ma di scarsa fortuna, il che lo costrinse a indebitarsi per finanziare la sua carriera politica. Secondo Appiano, prima di compiere quarant'anni Cesare aveva accumulato debiti per 25 milioni di sesterzi, e quando fu eletto propretore della Hispania Ulterior i suoi creditori minacciarono di bloccare i fondi che riceveva dallo stato se non avesse restituito i prestiti.

Sesterzio di Giulio Cesare. I secolo a.C.

Sesterzio di Giulio Cesare. I secolo a.C.

Foto: AKG / Album

Fu Crasso ad accorrere in suo aiuto facendo da garante con i creditori, il che permise a Cesare di recarsi come propretore nella Hispania e usare i guadagni della carica per estinguere i debiti. In seguito il bottino ottenuto nelle guerre galliche (58-51 a.C.) lo rese finalmente il milionario che aveva sempre desiderato essere. La gloria militare e l’arricchimento personale erano indispensabili a Roma per raggiungere il successo politico e le alte cariche istituzionali, e Cesare fu lo statista che meglio seppe vedere ed esemplificare l’indispensabilità del denaro per raggiungere il potere.

Anche Gaio Sallustio Crispo (86-34 a.C.), storico e fedele sostenitore di Cesare, si arricchì grazie alle estorsioni praticate nel suo ruolo di propretore della provincia dell’Africa Nova. Con il bottino proveniente dai suoi saccheggi si fece costruire a Roma il favoloso complesso conosciuto come Horti Sallustiani, i «giardini di Sallustio», un’opulenta villa suburbana dotata di splendidi giardini, templi, padiglioni porticati, terme, criptoportici, statue, fontane e ninfei. La villa occupava una vasta area situata tra i colli del Viminale e del Quirinale e il Campo Marzio, terreni che in precedenza erano appartenuti a Cesare e che negli anni successivi sarebbero passati nelle mani degli imperatori.

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Banchieri e usurai

In un elenco delle tipologie dei ricchi dell’antica Roma non possono mancare i banchieri. Chiamato in latino argentarius o nummularius, il banchiere romano svolgeva diverse funzioni: cambio della moneta, deposito di fondi, intermediario nelle vendite all’asta e, naturalmente, prestasoldi. Gli interessi sui prestiti erano assai elevati, e sebbene una legge della metà del I secolo a.C. li limitasse al dodici per cento, talvolta veniva richiesto un interesse superiore, una pratica usuraria che i tribunali non poterono sradicare e che era esercitata da importanti membri del senato, latifondisti e accaparratori di terre statali.

Monumento funebre in onore di Marco Virgilio Eurísace, liberto arricchitosi lavorando per lo stato nella distribuzione gratuita di pane. I secolo a.C. Porta Maggiore, Roma

Monumento funebre in onore di Marco Virgilio Eurísace, liberto arricchitosi lavorando per lo stato nella distribuzione gratuita di pane. I secolo a.C. Porta Maggiore, Roma

Foto: AG Travel / Alamy / ACI

Attraverso il politico e oratore Cicerone ci possiamo fare un’idea del grande potere che avevano gli usurai nella Roma del I secolo a.C. Quando era all’apice della sua carriera Cicerone decise di andare a vivere sul Palatino, la zona esclusiva delle classi dirigenti, ma poiché non aveva una genealogia aristocratica né una cospicua fortuna familiare dovette ricorrere ad astuzie legali e all’usura.

Nel 62 a.C. ricevette la donazione di un cliente per comprare la casa che era appartenuta a Crasso sul colle del Palatino, un fatto per il quale fu molto criticato, giacché la legge proibiva agli avvocati di ricevere compensi economici dai clienti. Per pagare l’immobile Cicerone dovette ricorrere a un prestito a usura. Alla fine di quell’anno si lamentava così in una lettera all’amico che gli aveva consigliato l’acquisto: «Ho comprato la casa [di Crasso] e l’ho pagata tre milioni e mezzo di sesterzi. E così, sappi che ho tanti debiti che ho voglia di partecipare a una congiura, se qualcuno mi vorrà». Qualche giorno dopo Cicerone confessò all’amico Pomponio Attico che stava ancora cercando credito presso alcuni senatori usurai, tentando di trovare un tasso di interesse che non superasse il massimo del dodici per cento stabilito dalla legge.

Molti degli usurai che facevano affari redditizi alle spese di personaggi come Cicerone che avevano bisogno di denaro appartenevano a un gruppo sociale che aveva un grande potere economico: i liberti, ex schiavi emancipati. Parecchi di loro prosperarono alla corte dell'imperatore Augusto e dei suoi successori. Abili amministratori, approfittavano della loro situazione privilegiata per accumulare fortune straordinarie, molto più ingenti di quella di Crasso il Ricco, a quanto sostiene Plinio. Accadde così a Callisto, liberto di Caligola, a Narciso, liberto dell’imperatore Claudio e incaricato della sua corrispondenza imperiale, successivamente condannato a morte da Nerone, o a Pallante, che con Agrippina, la moglie di Claudio, tenne le redini dell’impero romano per un certo periodo e finì per essere avvelenato, anch’egli per ordine di Nerone.

Secondo Seneca, l’eccessiva prosperità fiacca lo spirito: «Un animo grande disprezza la grandezza e preferisce la moderazione agli eccessi»

Secondo Seneca, l’eccessiva prosperità fiacca lo spirito: «Un animo grande disprezza la grandezza e preferisce la moderazione agli eccessi»

Foto: L. Pedicini / Album

Fuori dall’ambito della corte, i liberti furono uno dei gruppi più dinamici dell’economia romana ed ebbero un ruolo importante come banchieri. A questo proposito ricordiamo uno dei personaggi del Satyricon di Petronio, Trimalcione, il liberto che organizza un sontuoso banchetto nel quale si comporta con la volgarità di un nuovo ricco. Nel testo si spiega che Trimalcione si arricchì grazie a un investimento che gli portò un beneficio di dieci milioni di sesterzi, il che gli permise di dedicarsi da quel momento in poi all’attività di usuraio.

Non era comunque necessario essere un ex schiavo per fare l’usuraio. L’uomo più facoltoso di Roma a quell’epoca era il filosofo Seneca, servitore di fiducia sia di Claudio sia di Nerone, che secondo Tacito e Cassio Dione accumulò un capitale di trecento milioni di sesterzi grazie all’usura.

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Per saperne di più

Economia e finanza a Roma. A. Marcone, F. Carlà. Il Mulino, Bologna, 2011

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