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«Signori, osservate il miglior cavaliere che abbiate mai visto. Vi dirò chi è, ascoltatemi: si chiama Folco ed è il nipote di Girardo… Sentite bene le sue qualità: è nobile, cortese, educato, franco, di buona famiglia e di buona favella, abile a cacciare nei boschi e sulle rive dei fiumi, ottimo conoscitore degli scacchi, dei dadi e di ogni altro tipo di gioco. Non ha mai negato a nessuno la sua ricchezza, ma tutti hanno avuto da lui ciò che gli hanno richiesto. Non ha mai rimandato il compimento di atti onorevoli. Egli ha sempre amato intensamente Dio e la Chiesa. Sempre ha sofferto quando a corte non ha trovato maniera di porre rimedio agli atti maligni altrui... È sempre stato apprezzato come cavaliere, non ha mai mancato di onorare i poveri e gli umili e di giudicare ciascuno secondo il suo valore».
Queste parole tratte dalla Chanson de Girart de Roussillon descrivono le qualità che un buon cavaliere, in questo caso il giovane Folco, nipote del protagonista, doveva possedere. In queste righe, scritte a metà del XII secolo, agli albori del mondo cortese, ci sono già tutte le caratteristiche che ancora oggi sono attribuite alla cavalleria medievale.

Questa miniatura del XIV secolo mostra la presentazione di Galahad ai cavalieri della Tavola Rotonda
Foto: Fine Art / Album
Tra realtà e finzione
La particolarità più rilevante di questa classe sociale era una forma di comportamento che riuniva elementi ancora oggi considerati apprezzabili, come la cortesia, l’educazione e l’onestà, ma anche la disponibilità e la generosità. Naturalmente l’addestramento all’uso delle armi rivestiva una certa importanza, ma non esauriva la formazione del cavaliere. Ne facevano parte anche la caccia, gli scacchi e i giochi in generale, a cui vanno aggiunti i valori cristiani e l’amore per la poesia; non è un caso che le origini del romanzo europeo possano essere trovate tra le altre nella letteratura arturiana, che narrava appunto le gesta del leggendario re Artù e dei suoi cavalieri. La triplice natura militare, aristocratica e cristiana avrebbe definito la cavalleria europea del Medioevo e della prima Età moderna.
Ma forse il modo più semplice per comprendere questo singolare fenomeno sociale è attraverso i cavalieri stessi, siano essi reali come quelli che sfileranno nelle prossime righe, o letterari come il giovane Folco che ha aperto questo testo. Infatti la linea che separa gli uni dagli altri è sfumata: se è vero che i modelli narrativi influenzarono il comportamento dei cavalieri in carne e ossa, fu la vita di questi ultimi a fornire una grande quantità di materiale alla letteratura.
Goffredo di Buglione
Un buon punto di partenza per questo viaggio è Goffredo di Buglione (1060-1100 circa). Annoverato a partire dal XIV secolo in poi tra i Nove prodi (un mitologico gruppo di nove figure maschili), Goffredo è uno dei punti di riferimento su cui si modellò l’ideale cavalleresco. Figlio del conte Eustachio II di Boulogne e di Ida di Lorena, fu insieme ai suoi fratelli uno dei principali comandanti della Prima crociata, in cui ben presto si mise in evidenza. La sua fama e il suo prestigio tra l’eterogeneo gruppo di baroni che guidavano la spedizione erano così grandi che, una volta conquistata Gerusalemme, gli venne offerto il trono del nuovo stato crociato. In un gesto di moderazione che ne mostrò il lato più cavalleresco, Goffredo rifiutò di farsi incoronare re: riteneva che nessuno dovesse indossare una corona d’oro là dove Cristo ne aveva portata una di spine. Accettò invece il titolo di Difensore del santo sepolcro.

Scudo da torneo in legno, pelle e lino realizzato intorno al 1450. Metropolitan Museum, New York
Foto: Akg / Album
Come ci si può attendere da un cavaliere della statura di Goffredo, la sua fama non si esaurisce in questo episodio. Di lui parlano vari testi letterari, in parte relativi al suo viaggio in Terra santa e in parte destinati a nobilitare il suo lignaggio. Ad avere maggiore risonanza tra questi ultimi fu la leggenda del Cavaliere del Cigno. Nelle sue prime versioni narrava la storia di un eroe senza nome, ma alla fine del XII secolo il protagonista assunse concrete relazioni di parentela con la dinastia dei Buglione: il misterioso cavaliere rivelò essere nientemeno che il nonno materno di Goffredo, un particolare questo che fondeva realtà, letteratura e leggenda intorno alla figura di uno dei più celebri cavalieri della cristianità.
In un gesto che mostrò il suo lato più cavalleresco, Goffredo di Buglione rifiutò di essere incoronato re di Gerusalemme
La combinazione di finzione narrativa, deformazione della realtà ed esaltazione dei valori cavallereschi ebbe una lunga storia nell’Europa medievale, soprattutto nel mondo anglo-francese. Poche figure sono più suggestive in questo senso di quella di Guglielmo il Maresciallo. Alla corte del re di Francia si diceva di lui che fosse il miglior cavaliere del mondo. Un complimento fuori dal comune, soprattutto se si considera che proveniva dall’entourage di colui che all’epoca era il più feroce nemico dei sovrani d’Inghilterra. Il Maresciallo servì fedelmente quattro di questi ultimi, anche nei momenti più avversi del loro regno, imponendosi come modello delle virtù cavalleresche della sua epoca. Ormai in età avanzata, fu persino reggente di Enrico III, fino a che questi non raggiunse la maggiore età.
Guglielmo il Maresciallo
I particolari della vita del Maresciallo sono conosciuti grazie alla biografia che fu commissionata da uno dei suoi figli. Tramite i versi dell’opera è possibile assistere alla sua brillante ascesa dal momento in cui lasciò la casa paterna per iniziare il suo addestramento di cavaliere, come gli imponeva il ruolo di figlio cadetto (non primogenito), fino alle ultime ore della sua esistenza. Per quanto la sua figura sia eccezionale, il percorso umano di Guglielmo permette di cogliere molti aspetti comuni ai cavalieri dell’epoca.

Statua distesa di Guglielmo il Maresciallo nella chiesa del Tempio di Londra, dove fu sepolto alla sua morte, avvenuta nel 1219
Foto: Alamy / Aci
Sono ampiamente descritte la sua formazione nella casa del potente nobile normanno Guglielmo di Tancarville, zio della madre, la sua investitura a cavaliere nel 1166 e la sua prima campagna militare, nella quale già si distinse. In seguito il giovane scoprì un’attività che avrebbe segnato la sua vita, assumendo i contorni di una passione travolgente: i tornei. Lontane dall’immagine romantica spesso tramandata, queste competizioni a squadre potevano considerarsi delle vere e proprie simulazioni belliche, dove bande di giovani cavalieri si sforzavano di dimostrare il loro coraggio e conquistare fama, onore e naturalmente fortuna.
Ai tempi del Maresciallo questa pratica era al suo apice e Guglielmo si distinse sempre per il talento inarrivabile. In poco più di un decennio disarcionò e fece prigionieri più di mezzo migliaio di avversari, torneo dopo torneo. Questo si tradusse in un’enorme quantità di riscatti che, insieme alle armature e alle selle confiscate ai contendenti, gli permise di esercitare una delle consuetudini più apprezzate tra i giovani cavalieri dell’epoca: la munificenza nella redistribuzione del bottino, gesto centrale in una cultura del dono che permetteva di assicurarsi la fedeltà altrui e dimostrare la propria benevolenza. I tornei consentirono a Guglielmo un’ascesa fulminea: nel 1179 – in occasione dei giochi organizzati per festeggiare l’incoronazione di Filippo Augusto, nuovo re di Francia – formò una compagnia di battaglia propria.
La lealtà prima di tutto
Parallelamente il Maresciallo fu anche maestro d’armi e uomo di fiducia del principe Enrico, figlio di Enrico II d’Inghilterra e suo successore designato. Purtroppo il giovane morì prima di poter salire al trono, e Guglielmo adempì per lui il voto di viaggiare in Terra santa, dove combatté per due anni a fianco dei templari. Al ritorno il sovrano inglese gli offrì una delle ricompense più ambite del regno: la mano di Isabella di Clare, contessa di Pembroke. Il matrimonio valse al Maresciallo un posto d’onore tra l’alta nobiltà. I giorni da cavaliere errante erano ormai alle spalle.

Enrico II d’Inghilterra, a cui Guglielmo il Maresciallo prestò i suoi servizi, scelse Chinon come sede dei domini francesi ottenuti grazie al suo matrimonio con Eleonora d’Aquitania
Foto: Sylvain Sonnet / Gtres
Ma non per questo avrebbe cessato d’imperversare sui campi di battaglia: fino alla fine dei suoi giorni restò il più fedele vassallo della Corona inglese. Durante la reggenza di Giovanni Senza Terra difese gli interessi di Riccardo Cuor di Leone mentre quest’ultimo partecipava alla Terza crociata; anni dopo protesse lo stesso Giovanni quando, alla morte di Riccardo, il suo diritto al trono venne messo in discussione. Fu anche uno dei pochi grandi nobili a schierarsi con Giovanni Senza Terra durante la ribellione dei baroni del regno, che costrinsero il re a concedere la Magna Charta con cui accettava le loro richieste. Questa estrema fedeltà alla Corona contribuì ad accrescere la fama di Guglielmo il Maresciallo, fino a farne il più grande cavaliere del suo tempo. Fu leale fino alla morte, avvenuta poco dopo l’ultima grande vittoria militare nella battaglia di Lincoln del 1217, quando ricacciò indietro l’esercito francese, che aveva invaso l’Inghilterra.
Enrico II organizzò le nozze di Guglielmo con Isabella di Clare, contessa di Pembroke, per elevare il Maresciallo al più alto rango della nobiltà
Ulrich von Liechtenstein
I grandi cavalieri non erano solo oggetto di ammirazione dei loro contemporanei e protagonisti di leggende o canzoni di gesta. In alcuni casi erano loro stessi a coltivare le arti e a riflettere sulla loro vita e i loro costumi. Il caso più significativo in tal senso è forse quello del cavaliere proveniente dalla Stiria (attuale Austria) Ulrich von Liechtenstein, noto non solo per le imprese militari, ma anche per l’attività di poeta e Minnesänger (cantore). Fu nominato cavaliere nel 1223 da Leopoldo VI di Babenberg, uno dei politici e mecenati più illustri del suo tempo, che promosse lo sviluppo dei valori cavallereschi all’interno della propria corte. Ulrich si distinse ben presto tra la nobiltà stiriana e in seguito ricoprì gli importanti incarichi di siniscalco e maresciallo. Ma se c’è un motivo per cui è passato alla storia, è la sua produzione letteraria.
Sono giunte fino ai nostri giorni due delle sue opere, il Frauenbuch (libro delle dame), un lamento per la decadenza dell’arte di corteggiare le donne, che egli considerava uno dei capisaldi della cavalleria, e il Frauendienst (servizio delle dame). Quest’ultimo è una raccolta di poesie, apparentemente autobiografiche, in cui Ulrich riflette sulle convenzioni dell’amore cortese e delle imprese cavalleresche. Lo fa attraverso il racconto di due avventure intraprese in onore della sua signora. La prima lo porta a indossare i panni della dea Venere e a gareggiare in giostre e tornei da Venezia a Vienna, affrontando e sconfiggendo – a dar retta alle sue parole – diverse centinaia di cavalieri. Nella seconda, travestito da re Artù, si mette in cammino allo scopo di misurarsi con ogni cavaliere che incroci la sua strada, per maggior gloria della sua dama.

Leopoldo VI d’Austria era anche duca di Stiria, la patria di Ulrich von Liechtenstein. Castello di Hochosterwitz in Stiria
Foto: Alamy / Aci
La fama di Ulrich non dipende solo dalle imprese e dalle opere: il cavaliere stiriano è stato immortalato nelle pagine di uno dei più importanti codici cavallereschi ancora oggi conservati, il Codex Manesse. Realizzato all’inizio del XIV secolo, costituisce la più completa raccolta di poesie dei Minnesänger ed è illustrato con 137 miniature a tutta pagina, tra cui quella dello stesso Ulrich von Liechtenstein.
Jean le Meingre, Boucicaut
Nella seconda metà del XIV secolo i campi di battaglia europei videro il confronto tra gli ideali cavallereschi e la realtà di una guerra sempre più dominata dai combattimenti di fanteria. La cavalleria perse quindi quel ruolo essenziale che aveva svolto nei duecento anni precedenti, riducendosi per tutto il XV secolo a una sorta di vuoto spettacolo di corte i cui cerimoniali diventavano sempre più raffinati a mano a mano che i suoi protagonisti si allontanavano dai campi di battaglia. In questo periodo di transizione emersero alcune figure memorabili come il cavaliere Jean Le Meingre, che ereditò dal padre non solo il soprannome Boucicaut (il coraggioso), ma anche la vicinanza con i centri del potere, dato che questi era il maresciallo di Francia. Dopo essere stato già da piccolo paggio di corte, a soli dodici anni Jean partecipò alla sua prima spedizione militare. Di lui si tramandò l’estenuante metodo di allenamento che gli permetteva di compiere, con l’armatura addosso, prodezze che ancora oggi risultano incredibili. Boucicaut si esercitava a correre per lunghe distanze e a saltare in sella al suo cavallo direttamente da terra; eseguiva varie acrobazie ed era persino capace di salire una scala a pioli con la sola forza delle braccia. Non sorprende che sia rimasto il signore incontrastato dei campi di battaglia europei per vent’anni, fin da quando, ancora adolescente, fu nominato cavaliere e prese parte alla battaglia di Roosebeke (1382).
Da quel momento in poi la sua attività fu frenetica. Nel 1384 combatté a fianco dell’Ordine teutonico nella crociata contro i lituani, quindi si recò nella penisola iberica dove intervenne a favore di Giovanni I di Castiglia, il cui regno era stato invaso dall’inglese Giovanni di Gand. Poi fu nei Balcani a sostenere l’imperatore bizantino contro i turchi, e in seguito nel Vicino Oriente, dove attaccò e saccheggiò diverse città (Tripoli, Sidone, Beirut…) dell’odierno Libano. I suoi continui successi militari gli valsero il titolo di maresciallo di Francia, com’era stato suo padre prima di lui, e per un breve periodo di governatore di Genova. Il rovescio della medaglia fu la sua partecipazione a due delle più cocenti sconfitte della cavalleria francese: Nicopoli contro gli ottomani nel 1396 e Azincourt contro gli inglesi nel 1415.

Boucicaut prega in compagnia della moglie in una miniatura del libro d’ore che porta il suo nome. 1412-1416
Foto: Agence Bulloz / RMN-Grand Palais
Boucicaut fu partecipe anche di una delle mode cavalleresche nate nella tensione del XIV secolo e che raggiunsero l’apice nei cent’anni successivi: le compagnie e gli ordini cavallereschi. Insieme ad altri cavalieri fondò l’Ordine dello scudo verde e della dama bianca, che aveva lo scopo “di salvaguardare l’onore, la fama e la reputazione delle donne bisognose d’aiuto”, un’istituzione che anni dopo ottenne il plauso della scrittrice Christine de Pizan.
Molti sono i nomi rimasti taciuti in questa carrellata dei grandi eroi della cavalleria europea. Da figure storiche come Riccardo Cuor di Leone o Giacomo il Conquistatore a combattenti di fortuna come Bertrand du Guesclin o Giovanni Acuto, da avventurieri come Pero Niño a personaggi centrali della cultura cavalleresca del mondo borgognone come Jacques de Lalaing. Nomi uniti dal senso di appartenenza a un mondo di parentele, alleanze, valori e comportamenti che in definitiva costituisce ciò che ancor oggi s’intende con il termine cavalleria.
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