Perché nell’altare della Patria fu sepolto un milite ignoto?

L’idea di onorare la salma di un anonimo soldato italiano caduto nel Primo conflitto mondiale venne nel 1920 al generale Giulio Douhet. Toccò alla popolana triestina Maria Bergamas, madre di un caduto, la scelta del feretro che sarebbe stato sepolto il 4 novembre 1921 nell’altare della Patria a Roma

Esattamente un secolo fa, l’11 agosto 1921, il Parlamento italiano approvò la legge n. 1075 concernente «la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in guerra». La scelta della data in cui avrebbe dovuto svolgersi la solenne cerimonia di chiusura del sacello cadde sul 4 novembre 1921, terzo anniversario della vittoria italiana nel Primo conflitto mondiale. Il disegno di legge era stato definito dal generale Cesare Maria De Vecchi come «il frutto del sentimento italico».

Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 20 agosto 1921

Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 20 agosto 1921

Foto: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1921/08/20/197/sg/pdf

Sommo onore

L’idea di onorare la salma di un anonimo caduto, combattente negli infernali teatri di battaglia della Prima guerra mondiale, tendenza in voga tra le nazioni europee all’indomani del conflitto, era venuta il 24 agosto 1920 al generale Giulio Douhet che sul giornale Il dovere – organo dell’Unione nazionale ufficiali e soldati – scrisse: «Tutto sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione». Approvata la legge, il ministro della guerra Giulio Rodinò investì un’apposita commissione del compito di passare al vaglio quei luoghi dove il conflitto era stato più atroce alla ricerca di resti di caduti. Undici salme provenienti da Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele e dal tratto tra Castagnevizza e il mare giunsero prima a Gorizia e poi nella basilica di Aquileia alla fine di ottobre del 1921.

«Cosa posso fare per voi? Questa casa è in lutto», avrebbe risposto Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas – giovane caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse stato mai ritrovato – agli ufficiali accorsi per informarla che sarebbe toccato proprio a lei scegliere tra gli undici feretri quello che sarebbe stato posto nell’altare della Patria. Un cronista presente alla cerimonia, che si svolse nella basilica di Aquileia il 28 ottobre, annotò che Maria «s’inginocchiò in preghiera; lasciata sola parve per un momento smarrita, teneva una mano stretta al cuore mentre con l’altra si stringeva nervosamente le guance.

Fotografia di Maria Bergamas, che scelse la salma da seppellire nell'altare della Patria. 1921

Fotografia di Maria Bergamas, che scelse la salma da seppellire nell'altare della Patria. 1921

Foto: Pubblico dominio

Poi, sollevando in atto d’invocazione gli occhi verso le imponenti navate, parve da Dio attendere che Ei designasse una bara. Con gli occhi sbarrati, fissi verso i feretri, in uno sguardo intenso, tremante, incominciò il suo cammino». La scelta della popolana triestina cadde sulla penultima delle undici «davanti alla quale, oscillando sul corpo e lanciando un grido acuto, chiamando per nome il suo figliolo, si piegò e cadde prostrata ed ansimando in ginocchio abbracciando quel feretro». Dalla stazione di Aquileia, la bara giunse su un carro funebre ferroviario a Roma Tiburtina il 2 novembre 1921 e fu portata nella basilica di Santa Maria degli Angeli, dove furono celebrate solenni esequie. Al culmine di una cerimonia senza sfarzo né discorsi pubblici, portato a spalla da dodici militari in mezzo a migliaia tra bandiere e stendardi, e accompagnato da un solo lento rullo di tamburi il feretro venne portato all’altare della Patria per la chiusura del sacello. Era il 4 novembre 1921.

«Tutto sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione», affermò il generale Giulio Douhet dalle pagine di Il dovere

La morte anonima

La Prima guerra mondiale fu un evento di dimensioni colossali che, secondo lo storico Antonio Gibelli «aveva prodotto decine di milioni di morti, aveva falcidiato intere generazioni, aveva determinato vuoti nelle comunità locali di dimensioni imponenti, aveva sconvolto gli assetti demografici colpendo soprattutto la popolazione maschile giovane». A guerra finita s’impose per ogni nazione l’esigenza di “contare i morti”, recuperarli e dar loro, ove possibile, un’identità oltre a una sepoltura dignitosa. In altri termini, scrive Gibelli, «per rientrare nella normalità l’Europa intera dovette affrontare il problema di elaborare in forme adeguate il senso della morte […] ciò suggerì una molteplicità d’iniziative e una mobilitazione di energie senza precedenti, perché senza precedenti erano la scala e i caratteri del massacro». A rivestire le morti di senso, convertendo i singoli lutti privati in un unico, collettivo, inquadrato nella cornice del sacrificio per la patria, pensò un Comitato per le cure e onoranze delle salme dei caduti in guerra che aveva a Udine la propria sede centrale.

Cinquemila militari si dedicarono alle riesumazioni, ai riconoscimenti e a riseppellire circa 180mila salme, a censire oltre 2.800 cimiteri di guerra provvisori dislocati su 400 chilometri di fronte. Si procedette inoltre a edificare imponenti simulacri, grandi cimiteri monumentali e immensi ossari destinati al cosiddetto culto degli eroi. Infine si pensò – scrive Gibelli - «all’invenzione di una cerimonia spettacolare completamente inedita […] la celebrazione del milite ignoto suggeriva che tutti erano uguali di fronte alla patria e alla morte, tanto uguali da essere indistinguibili, privi di connotati di grado e di condizione sociale non meno che di riferimenti alle circostanze specifiche della morte […] privi persino del nome e di ogni altro elemento capace di separare una vittima dall’altra, un eroe dall’altro».

Il momento della scelta di Maria Bergamas. Striscia tratta da 'La storia disegnata del milite ignoto' di Marco Trecalli in Focus Difesa n. 4/2018

Il momento della scelta di Maria Bergamas. Striscia tratta da 'La storia disegnata del milite ignoto' di Marco Trecalli in Focus Difesa n. 4/2018

Si ringrazia per la cortesia: Capo 2ª Sezione 'Media Operations e Rassegna Stampa' del Ministero della Difesa

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Autobiografia

In un recente saggio di grande valore storico e forte impatto emotivo – La storia (quasi vera) del milite ignoto – lo storico Emilio Franzina ha provato a dotare quella morte completamente anonima di una storia credibile. A raccontarsi, in una sorta di autobiografia immaginaria ma basata su documenti e fatti realmente accaduti tra il 1914 e il 1918, è uno delle migliaia di ragazzi caduti. E forse, perché no, proprio quello scelto dalla pietosa mano di Maria Bergamas. Da una “prospettiva sopraelevata” – «sto infatti nell’Altare della Patria a Roma» – il milite inizia così il suo racconto: «Avevo compiuto da poco ventisei anni quando la scheggia di una granata mi uccise. Ovviamente, è uno dei ricordi più chiari che mi siano rimasti di tre anni trascorsi a far la guerra in Italia, dove non ero neanche nato e dove avevo scelto di venire a combattere arrivando dal Brasile nel luglio del 1915». Figlio d’immigrati veneti, il milite ignoto “scelto” da Franzina accorre in Italia allo scoppio della Prima guerra mondiale spinto dal sentimento patriottico e combatte prima sul Carso e poi sugli Appennini. La morte lo coglie il 24 ottobre 1918 non sul campo di battaglia, ma mentre fugge da una casa di piacere dove si era recato per salvare una ragazza da un bombardamento nemico sulla città di Vicenza: «Mentre correvamo fianco a fianco, dal sibilo e dal rumore capii che stava cadendoci addosso una granata e gettai a terra Martina coprendola per l’ultima volta col mio corpo. Fu destino che così la salvassi mentre lo spostamento d’aria mi discostava da lei e una scheggia maledetta colpiva me alla schiena […] sbrecciandomi forse la spina dorsale e senza farmi troppo sanguinare, mi aveva paralizzato togliendomi ogni possibilità di movimento anche alle braccia e alle gambe. Non riuscivo nemmeno più ad articolar parola e potevo a malapena vedere, così imbozzolato, quanto mi succedeva d’intorno […] seppure in modo impercettibile ancora respiravo ed invocavo con gli occhi sbarrati la fine». All’alba del 24 ottobre il milite si spegne: «All’improvviso per me venne il buio, ma subito appresso una gran luce dove in un lampo vidi tutta la vita che sin qui ho voluto da me raccontare. E più tardi mi ritrovai per sempre in questo posto fatto di niente col solo nome di Milite ignoto».

Le undici bare nella basilica di Aquileia il 28 ottobre 1921

Le undici bare nella basilica di Aquileia il 28 ottobre 1921

Foto: Pubblico dominio

Per saperne di più
La grande guerra degli italiani. 1915-1918. Antonio Gibelli, Sansoni, Roma 1999.
La storia (quasi vera) del milite ignoto. Emilio Franzina, Donzelli, Roma 2014.
La storia disegnata del milite ignoto. Marco Trecalli in Focus Difesa 4/1028, Ministero della Difesa 2018.

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