La legge lo perseguiva, i moralisti lo condannavano, per molti altro non era che un sintomo della decadenza; eppure, il gioco d’azzardo era una vera e propria passione che animava i romani di ogni classe e condizione. Patrizi e plebei finivano per sperperare ai dadi autentiche fortune nelle loro case o nell’equivalente dei moderni casinò.
Il gioco dei dadi raffigurato in un affresco di età imperiale nella taverna della via di Mercurio, a Pompei
Foto: Oronoz / Album
Il poeta satirico Giovenale considerava con sdegno: «Quando mai fascino uguale vi fu nel gioco? / Nelle bische non si va più con una borsa, / come posta ci si gioca la cassaforte. / Che scontri memorabili vedrai / alla distribuzione delle armi! / Semplice pazzia o che altro mai / è perdere centomila sesterzi / e negare una tunica / al servo che trema di freddo?».
A Roma erano diffusi diversi giochi d’azzardo. Uno era chiamato par impar, “pari e dispari” : un giocatore nascondeva nel pugno noci, ossicini o sassolini e l’avversario doveva indovinare se il numero fosse pari o dispari, mentre gli spettatori potevano scommettere sulla quantità di oggetti che l’uno teneva nella mano. Un altro gioco era il cosiddetto capita aut navia, letteralmente “teste o navi”, il nostro “testa o croce”, che consisteva nel lanciare in aria una moneta avente la testa di Giano bifronte sul diritto e una nave sul rovescio. In ogni caso, i giochi d’azzardo più popolari si svolgevano soprattutto con gli astragali e i dadi.
Astragali e dadi
Gli astragali erano degli ossicini di forma cuboide ricavati perlopiù dal tarso posteriore di pecore e capre, benché ne esistessero anche riproduzioni nei materiali più svariati, quali l’oro, l’avorio, il bronzo e la terracotta. Poiché i due lati estremi erano arrotondati, le facce utili al gioco, lunghe e strette, erano quattro, difformi l’una dall’altra (piane, convesse, concave e sinuose) e dunque di diverso valore.
Tavolo da gioco proveniente da Consuegra (Toledo), murato in una parete
Foto: Miguel Ángel Novillo
Il gioco consisteva nel gettare in aria quattro astragali e nello scommettere su come si sarebbero disposti, o, qualora vi fossero incisi dei numeri, nell’indovinare il totale. Il peggior tiro che potesse capitare, detto colpo del cane o dell’avvoltoio, risultava dalla combinazione di quattro facce uguali ciascuna contenente un uno; il migliore, il cosiddetto colpo di Venere, era dato invece da quattro astragali caduti con quattro facce diverse (1, 3, 4, 6). Naturalmente non mancavano i bari, così per tirare gli astragali divenne obbligatorio utilizzare un fritilus, un bussolotto semiconico che riduceva le possibilità di imbroglio. L’epigrammista Marziale ne scriveva a proposito: «La mano disonesta che sa lanciare dadi truccati se lancia tramite me non otterrà nulla».
Il più diffuso, però, era forse il gioco dei dadi. Questi, che i romani chiamavano tesserae, erano in avorio, osso, bronzo o ambra e avevano come oggi i sei lati segnati da numeri. In genere si lanciavano due o tre dadi, usando il fritilus; il gioco più comune prevedeva il conto dei punti usciti. Altrettanto in voga era la micatio (dal verbo micare, “saltellare”, in riferimento a digitis, “dita”), la nostra morra, in cui due persone sporgevano simultaneamente il pugno destro distendendo un certo numero di dita e cercando di indovinare nel contempo la somma delle dita distese da entrambi.
'Fritilus' o bussolotto. Erano realizzati perlopiù in legno o in osso, ma ve n’erano anche d’oro riccamente decorati. British Museum
Foto: Album
I dadi, poi, servivano anche nei giochi da tavolo quali il popolare ludus duodecim scriptorum, il “gioco delle dodici linee”, simile all’attuale backgammon, in cui ogni giocatore disponeva di 15 pedine, il cui movimento era determinato dal tiro del dado; non occorrevano invece nel ludus latrunculorum, il “gioco dei soldati”, un antenato della dama e degli scacchi: ci si muoveva come su un campo di battaglia cercando di eliminare le pedine, generalmente in osso o avorio, dell’avversario chiudendole tra le proprie.
Peraltro, i giocatori più abili ottenevano riconoscimenti per la loro perizia, come dimostra la Laus Pisonis, un panegirico dedicato a un eccezionale giocatore di latrunculi, forse quel Gaio Calpurnio Pisone coinvolto nella congiura del 65 d.C. contro Nerone.
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Le bische clandestine
Fin dall’età repubblicana le scommesse e il gioco d’azzardo erano proibiti e permessi soltanto in occasione delle Saturnalia, solenni feste religiose che si celebravano verso la fine di dicembre in onore di Saturno e prevedevano manifestazioni orgiastiche, scambi di doni, l’abolizione delle distanze sociali e la sospensione di alcune norme. A controllare che nessuno si dedicasse a giochi illeciti dopo il termine delle festività vi erano gli edili, magistrati addetti a varie mansioni civili. Anche i privati cittadini potevano sporgere denuncia contro terzi, appellandosi alle leggi De Aleatoribus, che punivano i giocatori d’azzardo con ammende fino a quattro volte la posta in palio. I trasgressori, tuttavia, rischiavano talvolta una pena detentiva, come il carcere o il lavoro forzato nelle cave.
I romani benpensanti consideravano i giocatori d’azzardo (aleatores) alla stregua di individui loschi e pericolosi: l’oratore e filosofo Cicerone li poneva sullo stesso livello di commedianti, ruffiani o debitori, tutti appartenenti alle infime classi del popolo. Eppure, le scommesse e il gioco d’azzardo avevano luogo comunque, benché al riparo da sguardi indiscreti: proprietari di locande e taverne nascondevano spesso nel retrobottega vere e proprie bische clandestine.
Taverna di Asellina, a Pompei. In luoghi come questo venivano serviti cibi e bevande calde e si giocava a dadi
Foto: Prisma / Album
Il gioco veniva così associato ad altri vizi, quali l’alcol e le prostitute; al contrario dei lupanari, però, che dovevano restare chiusi fino all’ora nona (le tre del pomeriggio), le taverne e le locande avevano il vantaggio di essere aperte dalla mattina alla sera e potevano offrire dunque ospitalità ai giocatori a ogni ora del giorno.
Il vizio degli imperatori
Le leggi contro gli aleatores ebbero peraltro un’efficacia limitata, tanto che persino gli esponenti dell’élite romana si appassionarono alle scommesse. Gli stessi imperatori furono vittime della frenesia del gioco. Narra Svetonio che Augusto «non si preoccupò affatto della sua reputazione di giocatore, e continuò a giocare, senza farne mistero, perché si divertiva, fino alla vecchiaia, e non soltanto in dicembre ma anche in tutti gli altri mesi, nei giorni lavorativi e in quelli festivi». Lo storico prosegue citando una lettera che il primo imperatore romano avrebbe scritto al figlio adottivo e futuro imperatore Tiberio, in cui raccontava: «Mio caro Tiberio, abbiamo passato molto piacevolmente le Quinquatrie [feste in onore di Minerva], perché abbiamo giocato durante tutti questi giorni e abbiamo riscaldato il tavolo da gioco. Personalmente ho perduto 20.000 sesterzi, ma perché, secondo mia abitudine, sono stato un giocatore eccessivamente generoso. Se avessi preteso le poste che ho condonato a ciascuno, ne avrei vinti almeno 50.000».
Secondo alcuni storici l'imperatore Commodo aveva trasformato il palazzo reale in una bisca e scommetteva i fondi pubblici. Busto di Commodo. Musei capitolini, Roma
Foto: Erich Lessing / Album
Svetonio rivela che Nerone scommetteva somme di denaro elevatissime, fino a 400.000 sesterzi a ogni lancio di dadi, e che l’imperatore Claudio «giocava accanitamente ai dadi e scrisse anche un libro su quest’arte; se ne dilettava anche durante i viaggi avendo fatto fissare alla lettiga il tavoliere in modo che il movimento non disturbasse il gioco».
Senza giungere a tali estremi, molti comuni cittadini romani si dedicarono al gioco d’azzardo. Alcuni, come un fortunato abitante di Pompei che a Nocera (Perugia) vinse la cospicua somma di 3422 sesterzi – equivalente a quattro anni di salario di un legionario – ne trassero un enorme profitto; altri si ridussero sul lastrico.
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