Passeggiata per l’Atene ottomana del XVIII secolo

Sotto il dominio turco, Atene era poco più di un villaggio che richiamava turisti attratti dalla sua eredità artistica

Nel XVIII secolo la maggior parte dei viaggiatori occidentali diretti in Grecia arrivavano ad Atene via mare. Al posto della magnificenza del Pireo di età classica si trovavano davanti la solitudine di un porto semiabbandonato, cui approdava giusto qualche barca ogni tanto. A strappare dall’isolamento il doganiere turco c’erano solo le rovine, gli scogli, il mare e il grido occasionale di qualche martin pescatore. Coloro che decidevano di raggiungere la città via terra, seguendo la via sacra da Eleusi, potevano almeno vedere da lontano la città murata ottomana stagliarsi tra il monte Licabeto e l’acropoli, circondata da oliveti, vigne, campi, frammenti di colonne e rovine sia antiche che moderne. Con le sue circa millecinquecento case, Atene era allora un quarto della città che era stata in epoca classica. Sul suo profilo svettavano i minareti delle moschee – i greci non potevano costruire né chiese né case più alte dei turchi – e ovviamente l’acropoli. Una volta oltrepassata la porta d’ingresso della città, i viaggiatori si trovavano di fronte un monotono panorama di case imbiancate, illuminato qua e là da freschi cortili di aranci e in sottofondo il gorgoglio di qualche fontana pubblica. Quasi subito i visitatori stranieri si imbattevano in una marea di greci, turchi e albanesi che li salutavano allegramente. A volte li invitavano perfino a casa loro per assistere a vivaci celebrazioni al suono di tamburi e clarinetti o li portavano alle feste comandate nella chiesa di San Giorgio, il tempio ortodosso ricavato dal precedente santuario di Efesto dell’agorà greca. Ad Atene c’erano poi molti bagni turchi, anche se la realtà era lontana dalla delicata sensualità così ricorrente nella pittura orientalista.

Personaggi vestiti con i tipici abiti ottomani passeggiano e riposano nei dintorni dell’Eretteo

Personaggi vestiti con i tipici abiti ottomani passeggiano e riposano nei dintorni dell’Eretteo

Foto: Erich Lessing/Album

Atene sotto i turchi

Il centro nevralgico di Atene era il Gran Bazar o Staropazaro (“mercato del grano”), al quale si accedeva dall’agorà romana per l’antica porta di Atena Archegetis. A partire da lì il bazar si estendeva in direzione della moschea Fethiye (“del conquistatore”) e la semisepolta torre dei Venti, che era all’epoca un tekkè, una specie di centro di incontro di dervisci. A nord del bazar c’era la residenza del voivoda, il governatore civile di Atene, e la moschea Tzistarakis. Il voivoda amministrava il distretto in nome del kizlar agha, il capo degli eunuchi neri del serraglio di Istanbul. Con il superiore così lontano, chissà che senso di impunità doveva esserci in quel palazzo eretto sulle rovine della biblioteca di Adriano! In realtà, il più noto dei voivoda, Hadji Ali Haseki, governò Atene con pugno di ferro dal 1775 al 1795: alzò le imposte, divenne tristemente famoso per gli arresti arbitrari e gli ateniesi che non riuscirono a fuggire si videro obbligati a lavorare continuamente, giorno e notte, per costruire una muraglia di una decina di chilometri attorno alla città. Hadji Ali non esitò a includere la porta di Adriano nel percorso delle mura e usò come materiale da costruzione un intero tempio dedicato ad Artemide Agrotera, sulle sponde dell’Ilisso.

Questa incisione mostra una variopinta via commerciale ateniese

Questa incisione mostra una variopinta via commerciale ateniese

Foto: Bridgeman/Aci

Vista dal bazar, l’acropoli sembrava un confuso ammasso di capitelli e colonne di templi antichi, torri medievali di re franchi, minareti appuntiti e cupole di moschee, e poi le feritoie e i cannoni della guarnigione agli ordini del disdar, il governatore militare della fortezza. Dall’acropoli si poteva sentire la chiamata del muezzin alla preghiera o i musicisti della guardia giannizzera che provavano quotidianamente le loro marce. A volte si affacciavano anche le donne che vivevano nell’harem in cui era stato trasformato l’Eretteo, certamente attratte dall’attività della città bassa. In teoria, l’acropoli era un’area ad accesso limitato, ma il viaggiatore di turno poteva pur sempre corrompere il disdar con qualche piastra o un po’ di caffè. Qui sorgeva il Partenone: tra il XVI e il XVII secolo era diventato una splendida moschea, ma poi non aveva retto ai bombardamenti veneziani del 1687. Tra le rovine, i turchi avevano costruito una nuova moschea molto più modesta, ma era ancora possibile accedere al minareto di quella vecchia, adiacente al portico, e salire per la scalinata usurata fino alla parte superiore della cella del tempio. Sedendosi sui fregi di Fidia si potevano raggiungere con lo sguardo le colonne del tempio di Zeus Olimpio, nella città bassa, su cui si trovava la cella di un eremita. Gli europei occidentali andavano spesso a cercare alloggio presso la comunità dei cappuccini francesi di Atene, che avevano spazio in abbondanza. Il loro convento comprendeva la celebre lanterna di Lisicrate – in realtà un monumento coregico del IV secolo a.C. –, che avevano trasformato in una piccola biblioteca di fronte a un idilliaco orto con le prime piante di pomodori che fossero mai arrivate in Grecia.

Louis Fauvel fu viceconsole di Francia ad Atene dal 1803. Dipinto di Louis Dupré. 1819

Louis Fauvel fu viceconsole di Francia ad Atene dal 1803. Dipinto di Louis Dupré. 1819

Foto: Christie's Images/Scala, Firenze

Monaci e donzelle

Verso la fine del XVIII secolo nel monastero cappuccino di Atene restava un solo un monaco, che offriva ai suoi ospiti letti senza lenzuola e pieni di pulci. Il religioso, che gestiva una piccola scuola, aveva fama di essere un maleducato dalla conversazione insostenibile, e fu visto almeno una volta bere più del dovuto a una festa nel suo convento cui partecipavano i domestici, gli ospiti, il voivoda e persino il muftì di Tebe. Cosa ancora più scandalosa, si scoprì che il monaco aveva una relazione con una donna greca sposata. Questa situazione incresciosa fece sì che molti viaggiatori preferissero cercare alloggio nella casa dei viceconsoli d’Inghilterra e di Francia, oppure di qualche altro membro della piccola comunità di europei occidentali residenti ad Atene. Era famosa, per esempio, la casa della “consolina”, la signora Teodora Macri, vedova del viceconsole inglese Procopio Macri, che viveva con le tre figlie e affittava stanze ai visitatori inglesi (la casa fu demolita nel 1974). Sua figlia maggiore, Teresa, una ragazzina di soli 12 anni, fu destinataria della poesia La vergine di Atene, che Lord Byron scrisse nel 1810, durante un soggiorno in quella residenza.

La poesia divenne così famosa che molti viaggiatori andavano a casa della “consolina” per conoscere la donna che era stata capace di far sospirare il celebre scrittore

La giovane Teresa Macri diventò così, alla vigilia della Guerra d’indipendenza greca (1821-1832), il simbolo della bellezza ideale della Grecia e dell’oppressione in cui viveva. Ma, nella foto scattata a Teresa nel 1870, non vediamo ormai altro che una donna sofferente di 72 anni, che aveva dovuto sopportare decenni di conflitti bellici e di instabilità politica. Non è neppure sicuro che quell’amore romantico fosse poi così sincero: quando Lord Byron tornò ad Atene dopo una breve visita a Istanbul, non alloggiò in casa della “consolina”, ma nel convento dei cappuccini, nonostante le pulci. Sembra che Lord Byron in quell’occasione si fosse invaghito di Nicolo Giraud, uno degli alunni del padre cappuccino.

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