Qui giaccio io, Ovidio Nasone poeta, cantore di delicati amori, che perii per il mio ingegno; non sia grave a te, che passi e hai amato, mormorare: le ossa di Ovidio riposino infine dolcemente». Questi sono i versi che il poeta Publio Ovidio Nasone volle scolpiti sulla sua tomba come epitaffio; tali erano le disposizioni che aveva lasciato a sua moglie Fabia. Parole di un uomo amareggiato e malinconico, scritte in una lettera spedita dal poeta durante il suo esilio a Tomi, nella remota e barbara regione della Scizia. Anche allora Ovidio aspirava a essere ricordato come «il poeta dei dolci carmi d’amor» in allusione alle opere che aveva composto in gioventù e che gli avevano aperto le porte del successo.
Publio Ovidio Nasone. Busto in marmo del poeta. I secolo. Galleria degli Uffizi, Firenze
Foto: White Images / Scala, Firenze
Se ci basiamo sulle sue stesse parole, sin da quando era andato a scuola nella sua città natale di Sulmona, Ovidio aveva sentito una forte inclinazione per la poesia. «Tutto ciò che provavo a scrivere sgorgava sotto forma di verso» disse. Pertanto aveva abbandonato gli studi in legge, necessari per scalare i gradini della carriera politica, e si era recato a Roma allo scopo di costruirsi un futuro come poeta visto che l’Urbe, egli ne era sicuro, «possiede tutto ciò che è esistito nel mondo».
La sua prima opera fu Amores, una raccolta di elegie amorose in cui il poeta cantava il suo amore per Corinna, una donna verosimilmente inventata, e parlava di situazioni quotidiane e semplici, senza magniloquenza, ma attraverso uno stile agile ed elegante. L’opera piacque molto, al punto che venne pubblicata anche una seconda edizione, cosa non molto abituale nell’antichità.
Nell'Arte di amare, Ovidio suggerisce ai giovani: «Non ti rincresca dirle bello il volto, belli i capelli, affusolato il dito, piccolo il piede. Anche la donna casta sente diletto a esser detta bella…».
Il poeta di moda
A partire da allora, Ovidio riportò un successo dopo l’altro, grazie a una serie di opere che trasudava originalità e immaginazione e che poco aveva a che fare con le rime dei suoi predecessori. Nelle Eroidi (15 a.C.) il poeta scandagliò l’universo femminile, mettendosi nei panni di celebri donne della mitologia, come Penelope, Didone o Arianna, che nelle epistole indirizzate ai loro innamorati, lontani o infedeli, esprimevano la propria sete di vendetta o la propria follia amorosa. Più tardi compose tre opere grazie alle quali sarebbe stato osannato da tutti i giovani di Roma: L’arte di amare, i Rimedi contro l’amore e I cosmetici delle donne. In esse, Ovidio insegnava come sedurre e non perdere la persona amata, spiegava come dimenticare le delusioni amorose e dava consigli alle donne sulla miglior maniera di truccarsi per risultare affascinanti agli occhi degli uomini. Il poeta aveva scoperto la formula del successo, ciò che il pubblico voleva: intrattenimento, piacere e qualche consiglio utile sull’amore.
Tuttavia l’autore de L’arte di amare voleva essere acclamato non solo dal pubblico giovane, ma anche dagli intellettuali, e per far ciò doveva dedicarsi a un altro tipo di letteratura. La sua opera massima avrebbe dovuto essere epica, come l’Eneide, la storia dell’arrivo in Italia del principe troiano Enea, i cui discendenti avrebbero fondato Roma. Era l’epopea nazionale romana per eccellenza; l’imperatore Augusto aveva affidato l’incarico al suo poeta preferito, Virgilio, che Ovidio aspirava a emulare e al quale non smetteva di paragonarsi.
Finalmente, nell’8 d.C. Ovidio pubblicò le Metamorfosi, un’epopea di largo respiro ma dallo stile molto particolare, poiché impregnata della tecnica ludica e amatoria tipica dell’autore. Si tratta di una raccolta di racconti il cui denominatore comune è la trasformazione dei suoi protagonisti in oggetti, animali o piante, provocata quasi sempre dall’amore in ciascuna delle sue manifestazioni. È sicuramente il capolavoro di Ovidio o, almeno, la sua opera più letta, studiata e tradotta, e quella che maggiormente ha ispirato pittori e scultori di tutte le epoche. Non a caso nelle ultime righe il poeta dice: «Sono giunto alla conclusione di un’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo implacabile potranno distruggere». Ovidio aveva raggiunto il culmine della sua popolarità. Le sue opere, indubbiamente innovative, ne avevano fatto uno dei maggiori poeti di Roma.
Una coppia si bacia in una pittura pompeiana
Foto: DEA / Scala, Firenze
E proprio allora Augusto, all’improvviso, decise di esiliarlo a Tomi, una città vicina al Danubio e sulle rive del mar Nero che Roma aveva conquistato recentemente. Le cause dell’esilio di Ovidio restano un’incognita. Lo stesso poeta fornisce, in modo piuttosto enigmatico, due ragioni per spiegare la sua caduta in disgrazia: carmen et error, ovvero «una poesia e un errore». Per quanto riguarda la prima, è lecito immaginare che si riferisca al carattere immorale di una delle sue opere, L’arte di amare. In effetti, Augusto aveva approfittato della sua carica di pontefice massimo e di “addetto alle leggi e ai costumi” (curator legum et morum) per cercare di controllare tutte le questioni religiose, sociali e morali della società. In tal modo si propose di ristabilire le antiche usanze romane, i mores maiorum, che a suo parere avevano reso Roma forte, potente e irreprensibile. In particolare, si preoccupò di rafforzare il matrimonio, considerato fino al I secolo a.C. come la pietra angolare della morale romana. A tale scopo modificò e promulgò nuove leggi sull’adulterio e sulla castità e pose un limite ai divorzi. Fece inoltre ricostruire più di ottanta templi e ripristinò i principali ordini sacerdotali.
Non deve perciò sorprendere la condanna delle opere amatorie di Ovidio, poiché non era difficile riscontrarvi una critica ai due pilastri basilari della società romana che Augusto intendeva rinsaldare: la religione e la famiglia. Ovidio parlava dei templi come di luoghi idonei per socializzare, degli adulteri fra gli dèi come di esempi da seguire e dava consigli su come conquistare la donna di un altro. Tuttavia, stupisce che l’imperatore avesse deciso di esiliare il poeta a causa di una poesia composta sette-otto anni prima.
OVIDIO TRA GLI SCITI. Quest’olio su tela dipinto da Eugène Delacroix nel 1859 riproduce la desolazione del poeta nel suo esilio lontano da Roma
Foto: National Gallery, Londres / Scala, Firenze
Per quanto riguarda l’ “errore”, sono state formulate innumerevoli ipotesi, anche se nessuna del tutto risolutiva. Si è detto che forse Ovidio potrebbe aver avuto una relazione con Livia, la sposa dell’imperatore; che potrebbe esser stato testimone involontario dell’incesto di Augusto con la sua stessa figlia Giulia; che potrebbe aver partecipato a una cospirazione contro Augusto capeggiata da Agrippa Postumo, nipote dell’imperatore, o addirittura che potrebbe aver assistito segretamente a un rito misterico di Iside destinato unicamente alle donne. In ogni caso, la teoria che attualmente suscita maggiore consenso è quella che collegherebbe il castigo di Ovidio con Giulia, la nipote di Augusto, e con il senatore Decimo Giunio Silano, entrambi esiliati nello stesso periodo di Ovidio e che potrebbero aver commesso adulterio con la complicità del poeta.
La morte, lontano da Roma
Alcuni ricercatori hanno speculato sulla veridicità dell’esilio di Ovidio, visto che ciò che si può supporre sull’argomento deriva principalmente dalle parole dello stesso poeta. Tuttavia non sappiamo fino a che punto sia attendibile l’informazione che fornisce. Il contrasto tra i suoi scritti e le diverse testimonianze sembra indicare, anche se in maniera non definitiva, che Ovidio abbia creato un mondo poetico partendo da un’esperienza reale di esilio. Ciononostante, non è chiaro se quest’ultimo sia avvenuto esattamente a Tomi. In ogni caso, dato che i suoi componimenti sono innanzitutto opere artistiche, ha poca importanza verificare che si tratti o meno di testimonianze attendibili delle sue vicende personali. Alla fine, né le suppliche né le adulazioni dell’imperatore servirono a nulla, e anche se dopo la morte di Augusto, nel 14 d.C., Ovidio provò a far sì che Tiberio revocasse la sentenza, il nuovo imperatore non prestò ascolto agli appelli del poeta e neppure a quelli di sua moglie Fabia. In tal modo, «il più lascivo dei poeti romani» – come lo definì Quintiliano, un influente maestro di retorica nato in Spagna –, moriva nel 17 d.C. nel suo misero esilio, lontano dalla città che lo aveva acclamato e che aveva tanto amato.