Nella città brasiliana di Salvador de Bahia c’è una basilica in cui il cattolicesimo incontra gli antichi culti tribali africani. Dedicato al Senhor Bom Jesus do Bonfim - il Signore della “buona fine”, o della buona morte - il santuario è il punto d’incontro tra la religione importata dai conquistadores e il candomblé, culto che fonde in un solo credo divinità e riti importati dall’Africa con la tratta degli schiavi. Il sincretismo che rende unico questo luogo ha una storia lunga oltre quattro secoli, in cui la fede è diventata un’arma di resistenza per chi, strappato alle proprie radici, ha dovuto crearne di nuove ripartendo dalla propria identità.
Fedeli del candomblé portano cesti di fiori per il rito in onore di Yemanjà, dea del mare
Foto: Cordon Press
Dalla metà del XVI alla fine del XIX secolo oltre dieci milioni di uomini, donne e bambini furono deportati dall’Africa al nuovo continente e ridotti in schiavitù. Il Brasile ne accolse quasi la metà: sotto la dominazione portoghese furono impiegati come forza-lavoro nelle immense piantagioni e nelle miniere ricche di pietre e metalli preziosi. Per chi arrivava nel nuovo mondo, la ricerca di un’identità si riduceva a ciò che ognuno riusciva a portare con sé: senza terra né famiglia, privi di diritti e proprietà, non gli restava che aggrapparsi alla cultura d’origine cercando rifugio nella fede e nei riti che la rendevano viva.
Fede e resistenza
L’origine del candomblé si può ricondurre ai popoli dell’Africa centro-occidentale, in particolare alle tribù bantu (provenienti da Congo, Angola e Mozambico) e yoruba (Nigeria e Benin). Le piantagioni furono il primo punto d’incontro tra i diversi gruppi etnici, che oltre agli schiavi africani includevano le popolazioni indigene del Sudamerica. Seppur differenti per origine e lingua, trovarono forti assonanze nella venerazione degli elementi naturali, trasformati in divinità (in seguito chiamate orixàs) con caratteristiche antropomorfe. Nel tempo si creò così un vero e proprio pantheon, composto da orixàs maggiori e minori: erano ritenuti responsabili degli eventi atmosferici e in grado d’influenzare ciò che accade nella vita degli uomini. Il contatto con il divino avveniva attraverso offerte votive e rituali di danza, in cui gli dèi venivano invocati e invitati a prendere possesso dei fedeli. Lo stesso termine “candomblé” deriva infatti dalla parola kimbundu candombe (danza con tamburi) e dal termine ioruba ilê (casa).
Tutto ciò non incontrò il favore dei dominatori europei, intenzionati a imporre con le armi la supremazia della Chiesa cattolica per dissipare le “tenebre” dei culti tribali e animisti, che vennero additati come stregoneria e furono perseguitati. L’unico modo per sopravvivere alla sanguinosa repressione fu pregare in segreto, accettando solo formalmente il culto europeo: le divinità del candomblé vennero accomunate ai santi cristiani, scelti in base alle rispettive vocazioni. Gesù è Oxalà, signore della vita, Oxùm è la dea dell’amore e della fertilità associata all’Immacolata, san Gerolamo è Xhango, dio del fuoco, Ogum è il dio della guerra, associato a san Giorgio che uccide il drago, san Lazzaro è Omolù, archetipo del guaritore dalle malattie infettive, e così via. Questo consentì ai discepoli del candomblé di continuare a professare la propria fede indisturbati.
Statue di orixàs disposte sul lago di fronte allo stadio di Salvador Bahia, in Brasile
Foto: Cordon Press
La religione degli uomini liberi
Per circa due secoli il culto sommerso venne alimentato in segreto, costituendo le basi di una religione autonoma e fortemente identitaria che superava le frontiere etniche e sociali. Il candomblé mantenne nel tempo la propria complessità, costituita da diverse “nazioni”, ovvero le molteplici correnti definite in base alle rispettive tradizioni etnico-religiose d’origine. La struttura gerarchica divenne invece molto simile a quella importata dal cristianesimo: a capo c’è un sommo sacerdote (che può essere uomo o donna), seguito dai ministri di grado minore, cui spetta il compito di amministrare i rituali ed entrare in contatto con i filhos de santo, i fedeli.
Nonostante le radici siano strettamente legate alla tratta degli schiavi, il candomblé venne concepito come un culto vero e proprio solo a partire dal XVIII secolo, con lo sviluppo dei centri urbani. Nel saggio Sobre el candomblé, Fernando Giobellina Brumana (docente di antropologia sociale all’università di Cadice) sottolinea che il sincretismo tra i diversi culti africani non avviene in modo naturale durante la schiavitù, ma «è una religione di neri liberi», che nelle grandi città lavorano come servitori o domestici. Lì trovarono il proprio spazio per tessere relazioni e costruire luoghi di ritrovo e culto, chiamati terreiros. In origine si trattava di radure situate nei campi o al limitare delle foreste, concepite come spazi comunitari a uso religioso, che saranno riconosciuti e autorizzati dal potere costituito solo a partire dal XX secolo.
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Convivere è possibile
La strada verso il diritto di culto fu parecchio accidentata e strettamente legata alle vicende politiche che agitarono il paese. Il 7 settembre 1822 il Brasile dichiarò la propria indipendenza dal Portogallo sotto l’egida di don Pedro I, luogotenente e figlio di Giovanni VI: mentre il padre sedeva sul trono di Lisbona, il giovane principe si pose a capo del movimento separatista che rinnegò lo status di colonia e instaurò una monarchia. Due anni più tardi venne varata la prima costituzione: fu il primo passo verso una forma di stato moderno, che tuttavia ancora non contemplava l’integrazione religiosa per la sua popolazione. L’articolo 5 proclamò il cattolicesimo come religione ufficiale, mentre per tutte le altre fu consentito il solo culto domestico. La religione afrobrasiliana sarà sempre guardata con sospetto dalla politica e dalle autorità costituite, in cui il razzismo e l’intolleranza celavano il timore che le comunità unite dalla religione potessero ribellarsi e sovvertire il potere.
Decorazione di un terreiro del candomblé. Bahia, Brasile
Foto: Pubblico dominio
L’abolizione della schiavitù nera in Brasile si concretizzò solo nel 1888, ma le tensioni proseguirono fino agli inizi del XX secolo: tra gli episodi più recenti, l’operazione Xangô, movimento popolare animato da politici repubblicani e veterani militari, distrusse nel 1912 i principali terreiros di Maceió, città nello stato dell’Alagoas. A oggi la sommossa è considerata uno dei più efferati casi di razzismo e intolleranza religiosa in Brasile. Circa 150 case vennero invase e distrutte dai militari, i sacerdoti furono dispersi e messi in fuga verso altri stati, costringendo chi rimaneva a professare la propria fede in silenzio, ostaggi della paura e della repressione a mano armata. Il cammino verso la tolleranza richiese ancora diversi anni, ma l’integrazione iniziò dal basso e trovò radici nell’anima multiculturale del Brasile, che già dal 1745 trovava filhos e fedeli cristiani seduti a fianco per venerare la statua che nel Santuario o Bonfim incarna al contempo Cristo e Oxalà, simbolo di una convivenza possibile.
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