La Nubia, l’ampio territorio che si estendeva a sud all’attuale Egitto fino al Sudan, era stata ribattezzata dagli egizi “il Paese dell’oro”. Questa terra non era comunque l’unica fonte cui attingere il metallo ambito, poiché nello stesso Egitto si trovavano numerose miniere d’oro, localizzate per la maggior parte a sud di Koptos e a Kom Ombo, non lontano dalle prime cataratte del Nilo. Si importava oro anche dell’Asia, come rivela un testo presente nel tempio di Ramses III di Medinet Habu.
Ad Assuan, nell’Antico regno, il confine tra Egitto e Bassa Nubia si situava all’altezza della prima cataratta del Nilo
Foto: Daniela Dirscherl / Age Fotostock
Tuttavia i giacimenti d’oro più importanti si trovavano nell’Egitto meridionale: nei deserti montagnosi del sudest del Paese, in particolare nella zona del Wadi Hammamat, e nell’estesissimo territorio della Nubia, diviso oggi tra Egitto e Sudan. Questo territorio rappresentò una sfida per tutti i faraoni, infatti già all’epoca delle prime dinastie, gli egizi si avventurarono nella Bassa Nubia, chiamata Wawat, una fertile regione tra la prima e la seconda cataratta del Nilo, alla ricerca di metalli preziosi. Durante il Nuovo regno i sovrani raggiunsero anche il regno di Kush, l’Alta Nubia, situato tra la seconda e la quarta cataratta, che era particolarmente ricco d’oro.
Per i faraoni del Nuovo regno, Kush era importante non solo per i suoi giacimenti auriferi, ma anche perché era la via commerciale verso il mar Rosso. Per questo motivo gli egizi impiegarono molte forze per avere il controllo di questa regione, la quale fu comunque amministrata dal viceré di Kush, cui erano stati assegnati i titoli di “Figlio regale di Kush” e “Guardiano delle Terre d’Oro del Signore delle Due Terre”. Il viceré aveva la responsabilità di rendere sicuro il transito delle merci e d'inviare in Egitto i tributi annuali, in particolare l’oro estratto nelle miniere kushite, oltre a supervisionare il buon funzionamento delle stesse. Per consolidare il potere in questo territorio, a partire dal regno di Tutmosis II (XVIII dinastia) si cominciò a educare i figli dei governanti locali nella corte faraonica, al fine di renderli dei veri egizi, i quali al loro ritorno a casa avrebbero potuto trasmettere la cultura che li aveva formati.
Alla ricerca della miniera d’oro
È quasi certo che le vene di quarzo aurifero del deserto nubiano furono ininterrottamente e intensivamente sfruttate a partire dalla metà del V millennio a.C. soprattutto dagli egizi del periodo faraonico, che ricavarono i maggiori quantitativi d’oro. Durante l’Antico e il Medio regno lo sfruttamento minerario in Egitto si fece in giacimenti a cielo aperto, sui versanti delle montagne o nei wadi, i letti asciutti dei fiumi da cui si estraeva oro alluvionale. Era principalmente un’attività mineraria di superficie, basata su prospezioni sistematiche del terreno. A partire dal Nuovo regno si passò a esplorare anche i giacimenti sotterranei; l’oro era presente nelle abbondanti vene di quarzo della Nubia, con ardesia e granito.
Nubiani offrono manufatti in oro al faraone Tutmosis IV. Dipinto della tomba di Sobekhotep conservato al British Museum, Londra
Foto: British Museum / Scala, Firenze
Lo sfruttamento delle miniere era accuratamente organizzato: una squadra di sementiu, ovvero persone incaricate dal sovrano, guidate da un capo di spedizione e accompagnate da uno scriba, percorreva il deserto per individuare i luoghi adatti all’estrazione. Una volta localizzate le zone questi delegati informavano un responsabile in Nubia, il quale doveva a sua volta accertarsi che il luogo fosse accessibile, che la qualità dell’oro rispondesse alle aspettative e che ci fosse acqua sufficiente per l’approvvigionamento di animali e uomini, oltre che per le operazioni di lavaggio dell’oro. In caso di esito favorevole, s'informava la corte con un documento ufficiale perché questa lo approvasse e si disponessero i preparativi per la spedizione.
Localizzata una zona di estrazione, si controllava se ci fosse acqua a sufficienza per gli operai e per il lavaggio dell’oro
Nella corte si riunivano allora gli operai specializzati nell’estrazione, che avrebbero portato con sé i propri strumenti, i responsabili delle operazioni, gli “incaricati dell’oro”, gli “scribi contatori d’oro”, che dovevano pesare e registrare il metallo estratto, e infine i funzionari che avevano il compito di supervisionare il lavoro dei minatori. Le carovane, affidate al traino di bestie da soma, percorrevano la rotta del deserto attraverso le oasi, anziché seguire il corso del Nilo. Nel frattempo in Nubia si reclutavano squadre di lavoratori che avrebbero estratto il metallo prezioso dai giacimenti individuati.
Nella miniera, gli uomini alloggiavano in costruzioni fatte di pietra a secco, chiamate “case dei minatori”, non lontano dal luogo di estrazione. Vi erano diverse tipologie di abitazioni, alcune destinate agli scribi, altre alle forze militari di presidio e di controllo del territorio. Si disponeva infatti di una guardia che sorvegliava sia le miniere sia l’attività dei lavoratori contro la minaccia di ladri e predoni del deserto. Una delle unità armate impiegate presso le miniere era formata dagli arcieri, uomini reclutati in Nubia e molto apprezzati per le loro abilità militari.
La parte inferiore del sarcofago di Tutankhamon è decorata con la dea Iside inginocchiata sul simbolo dell’oro. Museo Egizio, Il Cairo
Foto: S. Vannini / Cordon Press
Il duro lavoro dei minatori
Il lavoro nelle miniere era estremamente duro. Innanzitutto era necessario scavare per creare tunnel, alcuni pozzi arrivavano fino a un centinaio di metri di profondità; successivamente si mettevano in atto delle misure per assicurare il passaggio degli operai ed evitare il crollo delle pareti. I minatori erano spesso obbligati a lavorare in posizioni scomode o sospesi a corde per molte ore e l’illuminazione consisteva solo di lampade a olio.
In queste condizioni si estraeva il quarzo da cui si separava l’oro, utilizzando attrezzi di materiali diversi a seconda delle varie epoche storiche. Durante il Nuovo regno, se la vena di quarzo aurifero si trovava a grande profondità, l’estrazione era resa ancora più difficoltosa dalla mancanza di ossigeno, pertanto i lavori di scavo e di estrazione furono limitati a circa trenta metri, poiché non era possibile creare dei condotti di ventilazione che permettessero di scendere ancora più in profondità. All’interno dei giacimenti, i minatori disponevano di acqua potabile che conservavano nelle ghirbe, gli otri di pelle. Date queste difficili condizioni di lavoro, gli operai erano spesso scelti tra i beduini, i prigionieri o i criminali, che erano rigorosamente sorvegliati da guardie egizie.
Nel 2007 una squadra di ricercatori dell’università di Chicago ha riportato alla luce in Nubia, in una località chiamata Hosh el-Geruf, circa 350 chilometri a nord di Khartoum, un centro di lavorazione dell’oro dove sono state rinvenute cinquantacinque pietre utilizzate per levigare le pietre. La roccia estratta dalla miniera veniva frantumata e polverizzata con utensili litici, rinvenuti in gran numero attorno ai siti di estrazione del metallo.
L’ acquarello mostra i diversi compiti svolti dagli operai egizi in una miniera vicina al Wadi Hammamat
Acquerello di Jean-Claude Golvin. Musée Départemental Arles Antinque © Editions Errance
Successivamente i frammenti erano macinati in appositi macchinari ed erano completamente polverizzati. Questo materiale era infine lavato su una lastra inclinata in modo tale da far confluire il residuo in un piccolo canale al centro. Le particelle d’oro affondavano nell’acqua e aderivano alla lastra, mentre la polvere di quarzo era trascinata via attraverso la fessura. Se l’oro ricavato aveva molte impurità, era necessario prima riscaldarlo e poi macinarlo ancora una volta in mortai e infine sottoporlo a un ultimo lavaggio.
L’oro ottenuto dagli egizi non era puro: quasi sempre era elettro, una lega di oro e argento
Gli egizi raramente ottennero oro da ventiquattro carati: infatti, era spesso presente una percentuale di argento e rame; ciò che essi considerarono oro puro aveva, in realtà, circa il 75 per cento d’oro e il 25 per cento di altri metalli. Pertanto la presenza d’argento rendeva l’oro egizio una lega, chiamata elettro.
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
Il trasferimento dell’oro a corte
Il metallo prezioso estratto era conservato in particolari sacche di cuoio e consegnato al “contatore di oro” per pesarlo su una bilancia: il peso era indicato in deben, che equivalevano a circa novantun grammi ed era controbilanciato da particolari pietre che avevano diverse misure, indicate con le linee verticali apposte sulla loro superficie. Questo processo di stima del valore dell’oro si svolgeva in presenza degli “scribi contatori d’oro”, che erano responsabili della registrazione della quantità del metallo e della valutazione della qualità e della tipologia dell’oro estratto (grezzo, raffinato, in pepite, in polvere ecc.).
Orafo della tomba di Sobekhotep. British Museum, Londra
Foto: Scala, Firenze
Quando era stata depositata una grande quantità d’oro, il metallo veniva trasportato attraverso il wadi alla più vicina sponda del Nilo, dove doveva essere caricato sulle imbarcazioni per essere portato a corte, ovviamente scortato. I registri ritrovati raccontano che una spedizione proveniente da Wadi Hammamat «fu scortata da cinquanta carrozze e dieci carri, ciascuno trainato da sei buoi». Nell’iscrizione di Ameni, sotto il regno del faraone Sesostris I (1971-1930 a.C.), si legge di alcune spedizioni annuali composte da un gran numero di uomini, tra cui una condotta per prelevare le pietre destinate alla costruzione di edifici in Egitto.
È difficile immaginare la grande quantità d’oro che fu utilizzata durante tutta la storia dell’Egitto faraonico: oltre agli innumerevoli gioielli e oggetti in oro massiccio, anche l’arredo funerario reale era fabbricato spesso con il metallo prezioso; inoltre l’oro era destinato ai templi e ai santuari per la celebrazione delle cerimonie e dei rituali religiosi, e per abbellire monumenti e luoghi di culto. Le punte degli obelischi erano rivestite d’oro, così come alcuni ambienti dei templi più importanti erano ricoperti con lamine d’oro. Gli Annali di Tutmosis III (1479-1425 a.C.), la lunga iscrizione rinvenuta a Karnak nella quale il faraone racconta le sue imprese belliche, ci informano che tra gli anni 34 e 41 del suo regno, nella regione di Wawat il faraone ricavò circa 776 chili d’oro (8542 deben) e in quella di Kush circa cinquantaquattro chili (595 deben).
Una volta raggiunto l’Egitto, l’oro doveva essere fuso nei forni e prendere la forma desiderata negli appositi stampi. Successivamente il metallo veniva raffinato, diviso in porzioni più piccole e in sottili lamine che erano lavorate ulteriormente dagli orafi per la creazione di meravigliosi gioielli e altri oggetti.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!