«Io sono ancora giovane e lo so. Ma a trentasette anni ho già fatto il giro del mondo, ho conosciuto i naufragi e la prigionia. E qui comando io. Io sono lo zar, il sultano, il papa, tutto quello che volete. Io sono Nino Bixio e voi dovete ubbidirmi. Guai a chi alza le spalle, a chi vuole ammutinarsi, sarà ucciso senza pietà. Ho ricevuto l’ordine di sbarcarvi in Sicilia e lo farò. Poi mi impiccherete al primo albero… ma soltanto in Sicilia! E vi garantisco che in Sicilia vi ci porterò». Dopo attimi concitati si rivolse in questi termini agli uomini dell’equipaggio del vapore Lombardo il comandante Nino Bixio. Carisma ne aveva da vendere. La missione era di quelle difficili ma non impossibili: condurre i volontari garibaldini in Sicilia e dare avvio alla liberazione delle regioni meridionali della penisola italiana dalla tirannide del Borbone. Erano i primi giorni di maggio del 1860. Se l’Unità d’Italia, parzialmente raggiunta poco meno di un anno dopo, era stata il frutto dell’astuzia e della diplomazia di Camillo Benso conte di Cavour e allo stesso tempo all’azione energica di Giuseppe Garibaldi, tra gli uomini d’azione al suo seguito di quest’ultimo si distinse il comandante Nino Bixio. Trascorsi due secoli dalla nascita del “secondo dei Mille”, un memoriale pubblicato nel 2008 dal pronipote Jean-Jacques Villard sulla base di note autografe dello stesso Bixio consente di gettare uno sguardo sulle vicissitudini di un ragazzo scapestrato e dallo spirito ribelle destinato a solcare i mari di mezzo mondo e poi a dar forma, armi in pugno, al sogno di un’Italia libera e indipendente sotto le insegne sabaude.

La nave Lombardo su cui viaggiarono i Mille garibaldini per raggiungere la Sicilia
Foto: Pubblico dominio
Il giovane e il mare
Nino Bixio nacque a Genova il 2 ottobre 1821 da Tommaso e Colomba Caffarelli e fu registrato allo stato civile col nome di Gerolamo. Era l’ultimo di otto figli. La scomparsa prematura della madre e il suo carattere passionale e ribelle lo “condannarono” a un’infanzia disordinata: «Non auguro a nessuno un’infanzia come la mia; se non sono finito tanto male, è solo perché doveva esserci in me un istinto che resisteva a ogni cattiva tentazione». Per una qualche monelleria a scuola Nino venne punito dal maestro con tre colpi di righello sui palmi delle mani e da quel momento rimase «in uno stato di ribellione permanente», non tanto per la punizione ricevuta, ma «per la vile ironia che il superiore esercita nei confronti di chi non può rispondere». Per aver scagliato con rabbia il calamaio verso il “maestro-torturatore”, Nino venne espulso.
Nel 1834 il padre lo mandò da un certo capitano Caffarena, al quale mancava un mozzo per il suo viaggio in America del Sud: «Viaggerò – disse Nino – vedrò terre lontane, libero dalla tirannia dei pedanti». Nonostante i tentativi di fuga, Nino fece rientro a Genova sul brigantino Oreste e Pilade nel 1837: «I tre anni trascorsi mi avevano temprato nel fisico e nel morale; mi avevano ispirato l’amore per il mare». Ma Nino ripiombò nuovamente nel torpore esistenziale: si aggirava sporco e sciatto, viveva alla giornata nei bassifondi del porto, di espedienti ma «a fronte alta». Il primo novembre 1837 il padre lo costrinse ad arruolarsi nella Marina militare sarda come marinaio di quarta classe, dove venne accolto dal capitano Millelire: «Ragazzo mio, conosco bene il tuo passato. Finora sei stato un bambino, un bambino maltrattato […] Ora sei un ragazzo ribelle, la Marina Militare nella quale hai l’onore di servire farà di te un uomo». E così fu: i sette anni trascorsi per i mari di mezzo mondo insegnarono a Nino «quanto sia necessaria la disciplina, se attuata con equità, e quanto sia fondamentale lo studio. Inoltre farà crescere in me quell’ideale di patria che mi era stata inculcata a suo tempo da mia madre».

Nino Bixio in un ritratto di Aristide Calani
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Approdato a Genova con un anno di anticipo rispetto al previsto Nino s’imbarcò nuovamente nel 1845 sul “tre alberi” americano Sarah Baxter diretto a Sumatra per far carico di spezie destinate agli Stati Uniti. Con alcuni compagni decise di abbandonare la nave: l’impresa era ardua perché la natura di Sumatra era ingenerosa e ostile e gli autoctoni non godevano di buona reputazione. Prelevati nel sonno Nino e i compagni si risvegliarono nella capanna di un villaggio, e vennero lavati e rifocillati. Il motivo fu presto noto: «La graziosa sovrana, vedova da poco tempo, sarebbe lieta di convolare a nozze con me». Ciò avrebbe comportato la conversione all’islam che «ha come conseguenza una piccola formalità di ordine chirurgico a cui dobbiamo sottometterci, pena l’essere venduti come schiavi, data la nostra qualità di cani infedeli non circoncisi». Il diniego portò Nino e gli altri su un palco, esposti allo sguardo della folla tra anatre, maiali e vettovaglie. Ma, inatteso, apparve il capitano Baxter che, dopo aver pagato, «ci fa slegare e ci riporta a bordo, senza un’osservazione, senza una parola di rimprovero». Sbarcati a Filadelfia e piazzato l’intero carico di foglie d’indaco e spezie, il gruppo procedette per New York e da lì s’imbarcò su una nave diretta ad Anversa.
Non dobbiamo più attaccare il re
Nino non poteva ancora far rientro a Genova: colto da febbre e senza soldi, decise di chiedere asilo al fratello Alessandro a Parigi. Ci vollero dei mesi per riprendersi, ma un incontro gli ridonò vigoria: «Alessandro mi fa conoscere Mazzini, l’eroe della mia prima infanzia, e insieme parliamo tanto del nostro ideale di unificazione e di indipendenza della patria». Rientrato a Genova nel 1847 partecipò alle riunioni di patrioti, tra cui Goffredo Mameli: «Ci comprendiamo subito e proviamo un affetto fraterno l’uno per l’altro […] La nostra audacia non conosce limiti ed è strano che non ci abbiano ancora arrestati o sparati addosso, quando ci presentiamo soli in mezzo alla cavalleria governativa sventolando la bandiera, o appendiamo ex voto sediziosi, o tagliamo gli ormeggi a una barca che trasporta uno sbirro dei Borboni». Nino Bixio maturò in questo periodo la consapevolezza che «con queste manifestazioni puramente rivoluzionarie mi oppongo all’unico sovrano che potrebbe aiutarci a liberare la patria dal giogo austriaco […] Non dobbiamo più attaccare il re, ma dobbiamo convincerlo a mettersi alla testa delle nostre file». Una sera, mentre faceva ritorno al palazzo, il sovrano fu raggiunto da queste parole: «“Maestà, passate il Ticino e noi tutti vi seguiremo!”. Il re impallidisce, ma non dice niente; ha capito che tutto il popolo parla con la mia bocca».
Impeto e assalto
Quelle parole furono il “manifesto” per un trentennio di speranze. Bixio fu sempre in prima linea tra coloro i quali fecero l’Italia attivamente, a partire dai moti insurrezionali del 1848. Nello stesso anno prese parte alla Prima guerra d’indipendenza, dimostrando coraggio nelle battaglie di Treviso, Verona e soprattutto Governolo, dove al grido di “Viva l’Italia” «la nostra linea si sparpaglia, circonda il fossato, attraversa il ponte e si lancia alla baionetta sul nemico, trasformando la sua ritirata in una disfatta, in una fuga sconfinata». Alla fine del 1848 entrò a far parte della legione italiana di Giuseppe Garibaldi: «Avevo saputo che Garibaldi stava formando una legione per andare a Roma a difendere la repubblica minacciata, Mameli e io avevamo radunato gli anziani della Mantovana in ritiro a Genova […] Eravamo in duecento, in gran parte studenti […] Per la prima volta seguivo Garibaldi e ne ero fiero».
Nel 1849 si distinse a San Pancrazio e venne promosso luogotenente per meriti di guerra. Nella battaglia per la presa di villa Corsini, brandendo la sciabola al grido “Avanti!”, Bixio fu ferito da fuoco francese. Venne ricoverato insieme a Mameli all’Ospedale della carità dei pellegrini: l’atto eroico gli valse il grado di maggiore e la medaglia d’oro concessa dall’Assemblea nazionale. Caduta la repubblica romana fece ritorno a Genova per conseguire alla fine del 1859 il diploma reale di capitano di prima classe nella marina mercantile. Nel 1855 aveva ottenuto una speciale dispensa papale che gli consentì di sposare l’amata nipote Adelaide, che gli diede quattro figli.
Tornò a solcare i mari sudamericani fino al 1857, quando, tornato a Genova, riprese l’attività politica in posizione filosabauda e fondò il giornale S. Giorgio; poi nel 1859 prese il comando di un battaglione di Cacciatori delle Alpi. Nel maggio del 1859 comandò il vapore Lombardo che avrebbe condotto in Sicilia i mille volontari garibaldini: «All’alba dell’11 ci infiliamo fra Marettimo e Favignana; siamo già nelle acque di Marsala […] Preferisco buttare il Lombardo sugli scogli […] uno schianto e la mia nave si immobilizza. Iniziamo subito lo sbarco. Tutte le barche vengono requisite a tale scopo. In due ore lo sbarco è praticamente terminato». Nel risalire le province del Regno delle due Sicilie e liberare il Meridione dagli ultimi scampoli di resistenza borbonica, Bixio si distinse nelle battaglie di Calatafimi, Palermo, Reggio e sul Volturno e rimase ferito.

Garibaldi e i suoi uomini s'imbarcano da Quarto
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Nella cittadina di Bronte, nel Catanese, agli inizi di agosto scoppiò una rivolta di circa 10mila contadini contro la promessa disattesa della redistribuzione di terre comuni che prese di mira i locali proprietari terrieri. Garibaldi affidò al suo più fidato generale la repressione della rivolta: «Chi si mette ora in marcia non si sente un soldato strappato al riposo ma un giustiziere che va a punire i colpevoli […] Lo spettacolo che si offre ai nostri occhi rinforza la nostra collera; accanto alle case incendiate fluttua un odore di carne bruciata, nel convento e nel seminario sciami di mosche ronzano attorno a pozze di sangue coagulato. Faccio arrestare i principali colpevoli e gli istigatori del massacro, i miei uomini procedono con una energia che talvolta devo frenare […] Viene costituito un tribunale regolare […] i principali colpevoli sono condannati a essere passati per le armi seduta stante […] Questa repressione può sembrare atroce ma deve essere inesorabile e fulminea per avere effetto ed è ben lontana dall’eguagliare in orrore i crimini commessi».
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Gli ultimi anni
Dopo l’incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, Bixio ebbe il compito di organizzare i plebisciti per l’annessione delle regioni liberate al Regno di Sardegna. Nel 1861 fu eletto deputato nel collegio di Genova II e si attestò su posizioni moderate cercando di conciliare le posizioni di Garibaldi e Cavour sulla “questione romana”: il primo propendeva per un’azione energica sulla città sede del potere temporale del papa ma allo stesso tempo designata quale capitale d’Italia, mentre il secondo sperava in una soluzione diplomatica. Tornò nuovamente alle armi nella Terza guerra d’indipendenza, partecipando come comandante alle battaglie di Custoza e Mentana, dove fu fatto prigioniero ma riuscì a fuggire. Eletto senatore nel febbraio del 1870, ebbe il compito di espugnare la fortezza di Civitavecchia, preludio alla presa di Roma, dove entrò il 20 settembre 1870 insieme a Cadorna da porta S. Pancrazio. È questo l’ultimo atto della sua attività militare e politica.
Negli anni successivi tornò a solcare i mari orientali a bordo del proprio bastimento in ferro, il Maddaloni: «Questa vita stagnante mi fa orrore […] Mi allontano a poco a poco dalla Spada che arrugginisce nel suo fodero e mi sento irresistibilmente attirato dall’altro polo della mia vita: l’Ancora. Nel commercio marittimo posso ancora operare per la gloria della mia patria». Nino Bixio morì all'età di cinquantadue anni il 16 dicembre 1873 in una delle isole di Sumatra, a causa del colera o, secondo altri, di febbre gialla (tifo itteroide). Ricevette lì una sepoltura provvisoria che in seguito venne profanata. Le sue spoglie mortali fecero ritorno a Genova nel 1877 e furono inumate nel cimitero di Staglieno.
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Per saperne di più
Nino Bixio. Uomo, marinaio, patriota. La vita avventurosa dell’eroe garibaldino nel racconto del pronipote. Jean-Jacques Villard. Viennepierre edizioni, Milano 2008.