L’identità e la natura stessa di quello che per circa due secoli è stata la più importante superpotenza globale è oggi rimessa in discussione. Il Regno ci appare oggi molto meno Unito che in precedenza, soprattutto a causa del rapporto fra le sue componenti maggiori: l’Inghilterra e la Scozia. Con la Devolution del 1997 è stata conferita a quest'ultima una maggiore autonomia che per poco, in occasione del referendum del 2014, non è diventata una piena indipendenza. Per comprendere meglio le ragioni di questa congiuntura può essere utile ripercorre le tappe fondamentali che hanno portato a un’unione che appare adesso più fragile.
La doppia natura del regno
Fino all’inizio del Seicento le relazioni fra le due componenti della Gran Bretagna sono state improntate a un’ostilità apparentemente irriducibile. Quando i due regni non erano in conflitto aperto, i loro sudditi si dedicavano a una endemica guerriglia di frontiera, nella regione chiamata non a caso borders (frontiera), fatta di incursioni, saccheggi e furti di bestiame. Era abbastanza evidente, soprattutto dopo la conquista normanna dell’Inghilterra, che quest’ultima fosse più forte, perché più ricca e popolata. Tutto sommato però la Scozia fu per secoli in grado di difendere efficacemente la sua indipendenza politica e la sua identità nazionale. Anzi, quando, il 23 marzo 1603, Elisabetta I morì senza eredi diretti, a succederle fu proprio l’allora re di Scozia, Giacomo VI Stuart, figlio di quella Maria Stuart che Elisabetta aveva fatto giustiziare per aver complottato contro di lei. Giacomo era solo un lontano cugino, ma i suoi titoli dinastici erano comunque i migliori e le sue origini scozzesi, anche se non suscitarono entusiasmo, non furono d’ostacolo. Divenne quindi Giacomo I d’Inghilterra. Fu quindi, in un certo senso, la Scozia ad “annettere” l’Inghilterra.
Moneta d’oro da 4 sterline del re di Scozia Giacomo VI, coniata nel 1591 dalla zecca di Edimburgo. Dodici anni dopo, il sovrano Stuart divenne anche re d’Inghilterra con il nome di Giacomo I
Foto: Bridgeman / Aci
Ma la di là del fiume Tweed, che separava e separa i due regni, Giacomo I continuava a essere Giacomo VI. Infatti quella che si realizzò nel 1603 fu una cosiddetta “Unione delle Corone”, nella persona di Giacomo e della sua dinastia, e non una “Unione dei Regni”, che rimasero formalmente indipendenti. Ognuno con le proprie leggi, il proprio Parlamento e, naturalmente, i propri interessi politici ed economici che non necessariamente coincidevano. Una situazione forse difficile da comprendere per noi moderni, ma tutt’altro che insolita per l’epoca.
L’Europa del Seicento era al contrario quasi interamente costituita da monarchie “multiple” o “composite”, nelle quali un sovrano regnava su una pluralità di stati che conservavano ciascuno la propria identità e, almeno in teoria se non sempre in pratica, la propria autonomia. Una monarchia composita era per esempio quella su cui regnava il contemporaneo di Giacomo, Filippo III d’Asburgo, sovrano di molti regni: Castiglia, Aragona, Portogallo, Sardegna, Napoli, Sicilia e così via. Oppure quella di Rodolfo II, anch’egli un Asburgo, Sacro Romano imperatore, ma anche re di Boemia e di Ungheria. La situazione che si era venuta a creare in Gran Bretagna era dunque tutt’altro che insolita, ma era comunque una situazione intrinsecamente instabile. Molti dei conflitti che insanguinarono l’Europa, oltre che da motivazioni religiose e interessi dinastici nacquero proprio dalla difficoltà di tenere insieme, sotto un unico re, stati con interessi e identità spesso inconciliabili e che avevano alle spalle una tradizione secolare di ostilità. Come appunto la Scozia e l’Inghilterra o il Portogallo e la Castiglia.
Così fu creata l'Union Jack
Foto: Bridgeman / Aci
Doti politiche e fortuna
Per riuscirci occorrevano grandi doti politiche e anche una certa dose di fortuna. Giacomo, che nonostante alcuni limiti caratteriali che lo resero poco popolare fra i suoi sudditi, oltre che fra gli storici, sciocco non era affatto, se ne rendeva conto e cercò di trasformare l’unione imperfetta del 1603 in una vera e propria unione politica che desse vita a un nuovo Stato, quello di Gran Bretagna. Sulle monete da 22 scellini fece, per esempio, incidere il motto programmatico Faciam eos gentem unam, “ne farò un solo popolo”. Cercò, a questo fine, anche di resuscitare il mito di Artù, re della Britannia unita. Se il tentativo fallì fu più per colpa dei sudditi inglesi, che nutrivano un fiero disprezzo per i loro poveri e arretrati vicini del nord e non intendevano rinunciare alla loro identità inglese in cambio di una indistinta identità britannica: Being English we cannot be Britanyes. L’unico risultato concreto fu la nascita di quella che sarebbe diventata la bandiera del Regno Unito, l’Union Jack.
A pagare il prezzo di questo insuccesso fu il figlio Carlo I, meno abile e fortunato di Giacomo. Il maldestro tentativo di Carlo di rendere più omogenei i suoi due regni imponendo il modello di Chiesa episcopale inglese alla Scozia, sovrapponendosi alle tensioni sociali e istituzionali interne all’Inghilterra, innescò quella crisi che conosciamo come Guerra civile o Rivoluzione inglese, che costò a Carlo il regno e la testa. Evento epocale, la Rivoluzione inglese però non risolse la questione delle relazioni anglo-scozzesi.
E non la risolse neppure la restaurazione della monarchia del 1660 e la nuova rivoluzione, la Gloriosa Rivoluzione, del 1688 che aveva regalato la corona a Guglielmo d’Orange e a sua moglie, Maria Stuart. Alla morte senza eredi di Guglielmo d’Orange, nel maggio del 1702, salì al trono la cognata Anna, il cui unico figlio sopravvissuto all’infanzia, Guglielmo, era morto due anni prima. Appariva a questo punto molto improbabile che la regina, ormai quasi quarantenne e con una tragica storia di gravidanze risoltesi in aborti spontanei, potesse avere un erede.
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Le incertezze sulla successione al trono di Scozia e Inghilterra cadevano in una congiuntura internazionale particolarmente delicata. Da tempo il Regno Unito era impegnato in una serie di conflitti contro Luigi XIV, il quale mirava a fare della Francia la potenza egemone in Europa. E la Francia sosteneva naturalmente i diritti del ramo cattolico degli Stuart, spodestato da Guglielmo d’Orange e generosamente ospitato nel castello di Saint-Germain, presso Parigi, dove Giacomo III, detto il “Vecchio Pretendente”, teneva una sua corte in esilio. Era evidente che per gli inglesi una successione degli Stuart al trono d’Inghilterra o a quello di Scozia era un’ipotesi inaccettabile, per ragioni religiose, ma soprattutto geopolitiche, dato che gli Stuart erano ormai un mero strumento nelle mani di Luigi XIV.
La regina Anna di Gran Bretagna presiede nella House of Lords, una delle prime riunioni del Parlamento unificato dopo l’incorporazione della Scozia nel Regno Unito ( 1707)
Foto: Her Majesty Queen Elizabeth II, 2016 / Bridgeman / ACI
Un’unione difficile
Ancor prima dell’ascesa al trono di Anna, nel 1701, il Parlamento inglese aveva quindi pensato di risolvere la questione con un Act of Settlement, secondo il quale alla morte di Anna sarebbero saliti al trono i principi elettori dell’Hannover in quanto discendenti di Elisabetta Stuart (1596-1662), figlia di Giacomo I. Da un punto di vista genealogico e dinastico si trattava di un escamotage, ma gli elettori dell’Hannover avevano il vantaggio di essere indubbiamente protestanti, seppure luterani e non calvinisti. Il governo di Londra non poteva certo permettersi che la Guerra di Successione spagnola si trasformasse anche in una Guerra di Successione anglo-scozzese e che una eventuale secessione della Scozia aprisse a nord un secondo fronte: «C’è un antico e veritiero detto che recita: se vuoi battere la Francia, comincia dalla Scozia» (Enrico V). Questo, che ai tempi di Shakespeare era un assioma geopolitico indiscusso, conservava un secolo dopo tutta la sua validità.
Nell'Enrico V di Shakespeare si leggeva: «se vuoi battere la Francia, comincia dalla Scozia»
Occorreva quindi lavorare a una vera e propria unione che saldasse definitivamente i due regni britannici. Era un progetto che, su entrambi i lati della frontiera, aveva molti sostenitori. In un eccesso propagandistico di ottimismo, la regina Anna affermò che «L’Unione è stata a lungo desiderata da entrambe le nazioni». Era vero per quanto concerne l’Inghilterra, ma per quanto riguarda la Scozia era meno di una mezza verità. Alcuni esponenti della nobiltà scozzese erano in effetti convinti che l’unione potesse portare dei vantaggi, soprattutto economici, per la Scozia e soprattutto per loro stessi, e che in ogni caso fosse inevitabile. Ma a Edimburgo prevalevano gli oppositori, anche se con motivazioni molto diverse. Una parte della nobiltà scozzese rimaneva legata alla dinastia nazionale e nutriva simpatie per i pretendenti di Saint-Germain. Si trattava dei cosiddetti “giacobiti”, in larga parte cattolici. Altri ancora, come il duca di Argyll, figura di riferimento della fazione presbiteriana, temevano al contrario per l’autonomia della Chiesa scozzese, la Kirk, in caso di una successione decisa solo dal Parlamento inglese e che per tanto assomigliava molto a una pura e semplice annessione.
Documento del Parlamento scozzese (1689) che riconosce Guglielmo d’Orange come re di Scozia e indica Anna Stuart come futura erede al trono
Foto: Bridgeman / Aci
Nel complesso, se gli scozzesi erano profondamente divisi tra loro per ragioni religiose e per antiche rivalità fra clan, almeno una cosa li univa: la profonda avversione per l’Inghilterra. I loro sentimenti affondavano le loro radici in una storia plurisecolare che la coesistenza un po’ forzata degli ultimi cento anni non aveva affatto smorzato, anzi. Gli scozzesi avevano la sensazione – non del tutto ingiustificata – che l’Unione delle Corone avesse comportato solo svantaggi e che i loro interessi fossero stati sacrificati sull’altare di quelli del loro potente vicino. Per esempio, gli scozzesi erano stati costretti a condividere costi e sacrifici di guerre condotte per obiettivi inglesi spesso contro stati, come la Francia, con i quali gli scozzesi avevano da tempo strette relazioni economiche e politiche. D'altra parte gli inglesi non sembravano affatto disposti a condividere i vantaggi, in particolare quelli derivanti dalla rapida espansione commerciale e coloniale. Il nascente impero globale britannico rimaneva riserva di caccia dei soli inglesi e gli scozzesi, anche se sudditi dello stesso re, ne erano esclusi.
L’Act of Settlement era stato uno sgarbo istituzionale che aveva esacerbato i malumori. Il Parlamento inglese non aveva alcun titolo per decidere del destino della corona di Scozia, che rimaneva un regno del tutto autonomo. E la soluzione hannoveriana non era stata concordata con gli scozzesi i quali, comprensibilmente, la presero male. L’Act of Settlement diede quindi il via a una guerra fredda fra i due Parlamenti di Londra e di Edimburgo. Nel 1704 gli scozzesi approvarono infatti un Act of Security che ribadiva che ogni decisione sulla successione al trono di Scozia spettava unicamente agli scozzesi. L’anno successivo, a sua volta, il Parlamento di Westminster emanò un Aliens Act che confermava che in Inghilterra e nelle colonie i sudditi scozzesi di Anna dovevano essere considerati a tutti gli effetti degli stranieri.
Oliver Cromwell scioglie il Parlamento repubblicano nel 1653 assumendo in prima persona il controllo diretto del Paese con i poteri di un vero e proprio dittatore, con il titolo di Lord Protettore
Foto: Montclair Art Museum, New Jersey / Bridgeman / Aci
Al limite della rottura
La situazione era al limite della rottura e il governo di Londra, per incoraggiare i suoi sostenitori a Edimburgo e ammorbidire le opposizioni, fece massicciamente ricorso a generose elargizioni di denaro e di favori. La “leggenda nera” alimentata dal nazionalismo scozzese ha sempre sostenuto che l’indipendenza della Scozia è stata «comprata e venduta grazie all’oro inglese». Comunque sia, il 22 luglio 1706 una commissione anglo-scozzese giunse a redigere una bozza di Trattato dell’Unione. In base a esso, i due regni avrebbero dovuto fondersi per costituire un unico Regno di Gran Bretagna, con un unico Parlamento – di fatto quello inglese – nel quale sarebbero stati però accolti 45 deputati nella Camera dei Comuni e 16 lord nella Camera Alta.
In realtà l’Unione non era così completa come alcuni avrebbero voluto. La Scozia conservava infatti un ordinamento giuridico separato, basato, al contrario di quello inglese, sul diritto romano e, soprattutto, la sua Chiesa nazionale presbiteriana manteneva intatta la sua autonomia da quella anglicana che aveva a capo il re. Inoltre, la Scozia ottenne vantaggi economici non trascurabili, primo fra tutti quello di poter approfittare su un piano di parità con gli inglesi delle grandi opportunità che l’espansione coloniale e mercantile stava aprendo.
Lo stemma attuale della Gran Bretagna mostra i tre leoni rampanti inglesi, il leone di Scozia su fondo oro e l’arpa irlandese. L’Irlanda entrò a far parte del Regno Unito nel 1800
Foto: The Stapleton Collection / Bridgeman / ACI
Il testo venne sottoposto ai due Parlamenti. Per quello di Westminster non ci furono problemi e l’approvazione giunse a larga maggioranza alla fine del 1706. L’iter fu invece molto più contrastato nel caso di quello di Edimburgo, con discussioni accese, anche per la pressione di un’opinione pubblica popolare fortemente ostile. Alla fine, il 16 gennaio del 1707, l’Atto di Unione venne approvato, sia pure con una maggioranza modesta, 110 favorevoli e 69 contrari. A decorrere dal primo maggio 1707, il Regno Unito di Gran Bretagna prese dunque ufficialmente il posto dei due regni d’Inghilterra e Scozia (ai quali nel 1800 si aggiunse anche l’Irlanda).
Le reazioni della piazza furono molto diverse. A Londra, James Douglas, duca di Queensberry, principale sostenitore scozzese del Trattato, venne accolto come un eroe e «ovunque andasse veniva festeggiato e quando si trovava ancora a 29 miglia da Londra, l’intera città gli venne incontro per rendergli omaggio». A Edimburgo invece nessuno esultò. La verità è che l’Union Actcreò un Regno, non una Nazione Unita. Ed è anche per questo che il carattere “perpetuo” dell’Unione, proclamato nel primo articolo del trattato, appare oggi piuttosto dubbio.
Articoli del Trattato dell’Unione tra il Regno d’Inghilterra e quello di Scozia (1707) tratti dall’ufficio del registro della House of Lords
Foto: Bridgeman / Aci
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