Quando Luisa Levi varca la soglia della classe che ospitava le lezioni della facoltà di Medicina all’università di Torino cala il silenzio. È il 1914 e non capita spesso d’incontrare una ragazza tra i banchi: se già laurearsi all’epoca era una cosa per pochi, figuriamoci per una donna. Qualcuno avrà ridacchiato, dando di gomito al compagno di banco. Qualcuno altro avrà semplicemente distolto lo sguardo, come si fa di fronte a bizzarrie che destano scalpore senza lasciare il segno. Il tempo racconterà una storia diversa, quella di una delle prime neuropsichiatre italiane che ha dedicato la propria vita al mondo dell’infanzia e dell’educazione, consapevole che non c’è cura senza ascolto.
Nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli (1945), il fratello Carlo Levi – noto scrittore e pittore – descrive Luisa come «donna di grande intelligenza e operosa bontà» e «medico valentissimo». Con affetto ricorda «i suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto della sua voce, l’aperto sorriso», che sono per lui fonte di conforto e ispirazione. Fu proprio quel «temperamento costruttivo» a tracciare il percorso verso la medicina, animato dal desiderio di fare per gli altri, che troverà espressione tanto nella professione quanto nell’impegno sociale e femminista, convinta che l’unico modo per cambiare le cose sia mettersi in gioco.

Fototessera di Luisa Levi degli anni '10
Foto: Archivio Guido Sacerdoti // www.scienzaa2voci.unibo.it
Una donna tra i medici
Luisa Levi nasce il 4 gennaio 1898 in una famiglia ebraica dell’alta borghesia torinese. Il padre Ercole Raffaele Levi lavora come rappresentante per una fabbrica di tessuti inglese. La madre Annetta Treves è sorella di Claudio Treves, leader socialista, da cui Luisa mutuerà l’interesse per la politica e le questioni sociali che animeranno la seconda parte del XX secolo. Come lui frequenta l’Università di Torino scegliendo però la facoltà di Medicina, sulle orme dell’altro zio materno Marco, medico psichiatra. Sostenuta dalla famiglia, Luisa inizia gli studi nel 1914. Occorre considerare che all’inizio del XX secolo in Italia si contavano solo 250 donne iscritte all’università. La metà della popolazione era analfabeta, con maggioranza femminile.
Il primo giorno di lezione, la giovane si ritrova così in una classe di soli uomini, a eccezione della compagna di corso Marie Coda, di cui diventa amica inseparabile. In alcuni scritti autobiografici ricorda l’impatto con il mondo accademico: «I compagni maschi ci accolsero con indifferenza o con dispetto». Uno scoglio che la giovane supera con determinazione e impegno, incoraggiata da ottimi risultati. L’8 luglio 1920 si laurea con lode in Medicina, presentando una tesi dal titolo Sopra un caso di endocardite lenta e aggiudicandosi prestigiosi premi accademici per gli ottimi risultati conseguiti. In otto anni è riuscita a guadagnare il rispetto dei colleghi e dei docenti, ma non ad incrinare il "soffitto di cristallo", ovvero la barriera socio-culturale invisibile che preclude alle donne la possibilità di una carriera analoga ai colleghi di sesso maschile. La strada verso un’effettiva parità è ancora lunga.
Professione: neuropsichiatra
Gli anni degli studi sono arricchiti da collaborazioni di alto livello: durante la Prima guerra mondiale Luisa presta servizio come aspirante ufficiale medico nel laboratorio psico- fisiologico dell’aviazione e successivamente come infermiera volontaria presso l’Ospedale territoriale torinese della Croce rossa italiana. Subito dopo la laurea si propone come assistente volontaria nella clinica neuropatologia universitaria di Torino, dove rimane fino al 1928, quindi affianca in qualità di medico praticante lo zio Marco Treves all’ospedale psichiatrico torinese di via Giulio.
Segue un’esperienza all’ospedale pediatrico Koelliker, dove l’interesse per le malattie nervose dei bambini avvia la sua carriera da neuropsichiatra infantile. I lavori della dottoressa Levi vengono pubblicati su riviste di fama nazionale e internazionale, ampliando il suo sguardo all’estero. Sarà un viaggio Parigi nel 1927 ad aprirle gli occhi sulle malattie mentali e nervose, cui affiancherà l’interesse per la psicanalisi. Lì ritrova lo zio Claudio Treves, fuggito in Francia per continuare coltivare il socialismo riformista lontano dalla patria, come molti altri intellettuali antifascisti.
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Il soffitto di cristallo
Il percorso di Luisa è costellato di riconoscimenti, ma l’accesso alla professione continua a rivelarsi particolarmente difficile. «Presentavo i miei titoli a parecchi concorsi per medico di Ospedale psichiatrico. Dichiarata prima a pari merito, veniva poi sempre nominato il collega maschio» – racconta in un testo autobiografico. Tenta l’accesso a Torino, Brescia, Castiglione delle Stiviere, ma la dinamica si ripete. Finché nel 1928 arriva il primo contratto presso i Manicomi centrali veneti, dove lavora per la colonia medico-pedagogica di Marocco di Mogliano. Affiancata solo da un medico di medicina generale e qualche suora, si sarebbe occupata di circa 150 giovani. «La mia ignoranza al riguardo – scrive – fu aiutata da una deliziosa maestrina, che mi insegnò i primi rudimenti sull’educazione degli anormali». A questo tema dedica lavori di approfondimento orientati alla rieducazione.
L’entusiasmo e l’intelligenza dimostrati sul campo attirano l’attenzione del direttore amministrativo dell’ospedale, che perseguita la donna prima con insistenti avance e poi con accuse volte a screditarne la figura. Luisa decide di dimettersi, ma il riscatto arriva già l’anno successivo (1930) con l’assunzione tramite regolare concorso agli Ospedali psichiatrici di Torino, dove viene assegnata al Ricovero provinciale di Pianezza. L’impatto non è dei migliori: le metodologie in uso si scontrano duramente con la “scuola francese” tanto cara a Luisa, che critica «l’inumanità e la rozzezza» dei trattamenti cui assiste. Due anni dopo trova alla Casa di Grugliasco un ambiente più moderno, dove fonderà un cooperativa di floricoltura per i pazienti dimessi dall’ospedale.

L'educazione sessuale. Luisa Levi, 1962
Foto: Elena Speziale - Opera propria shorturl.at/fgkwZ
Superare la discriminazione
Tra il 1933 e il 28 avvia inoltre uno studio medico privato dedicato ai «fanciulli di difficile educazione», cui propone cure mediche che sia estendono alla fisioterapie e psicoterapie, compresa la rieducazione sensoriale, psicomotoria, morale e intellettuale. Le leggi razziali del 1938 le costano il licenziamento dalla struttura di Grugliasco, seguita da altri colleghi ebrei, mentre lo studio privato rimane con un solo paziente. Lavorare durante la guerra diventa impossibile, così si ritira nella campagna di Alassio e si dedica ad attività agricole, per poi rifugiarsi con la madre a Torrazzo Biellese, dove vive sotto falso nome. Qui collabora come medico di brigata e istruisce le staffette sulle principali manovre di primo soccorso.
Il dopoguerra riporta Luisa sulla propria strada: torna a dedicarsi alla neuropsichiatria infantile – cui affianca l’attività di docente – e si accosta alla politica: negli anni Cinquanta s’iscrive a Unità popolare e confluisce nel 1953 nel la sezione del PSI Matteotti di Torino. Il suo impegno si propaga alla Camera confederale del lavoro di Torino e dell’Unione Donne Italiane. La rivoluzione socio-culturale è ormai alle porte, e la sua esperienza di medico rende ulteriore servizio alle istanze femminili, offrendo un contributo intellettuale e pratico sulle tematiche al cuore del dibattito, tra cui l’educazione.
Educazione sessuale: oltre i pregiudizi
Nel 1962 Luisa pubblica L’educazione sessuale: orientamenti per i genitori. Si tratta del primo volume dedicato a questa tematica: l’obiettivo è scardinare i pregiudizi legati al sesso e offrire ai genitori gli strumenti per indirizzare i figli verso un approccio libero da tabù e condizionamenti. La pubblicazione suscita grande interesse: tra le varie testate che se ne occupano c’è la rivista Noi donne, che il 4 novembre 1962 ne parla pubblicando un’inchiesta sul tema. Il pezzo sostiene la linea dettata da Levi, secondo cui «l’educazione generale e sessuale deve iniziarsi nella prima infanzia e continuare ininterrottamente fino al completo sviluppo del giovane».
Gli ultimi anni di Luisa trascorrono tra ricerca e insegnamento: sceglie di restare nella sua Torino , dove viene a mancare il 16 dicembre del 1983. Ancora le parole immortali del fratello Carlo ricordano quel suo temperamento: «Lei stessa avrebbe dato volentieri il suo tempo per una causa che le pareva così giusta. Bisognava fare, non dormire, né rimandare sempre a un nuovo domani».
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