Sin dal XVI secolo buona parte delle persone che vivevano nelle regioni artiche e subartiche del pianeta erano conosciute in Europa come "eschimesi". È incerto se questo termine originariamente significasse "coloro che mangiano carne cruda" o "costruttori di racchette da neve". In ogni caso, oggi viene considerato un nome dall’accezione dispregiativa e si preferisce utilizzare il termine "inuit", che nella lingua inuktitut significa "persone" o "esseri umani".
Si pensa che circa 4500 anni fa i primi popoli paleo-eschimesi arrivarono nell’Artide nordamericana dopo aver attraversato lo stretto di Bering dall’Asia. Poi, una cultura eschimese denominata thule, che si diffuse dall’Alaska alla Groenlandia un migliaio di anni fa, fu soppiantata dagli inuit storici, anche se alcuni esperti ritengono che si tratti comunque del popolo thule, ma più evoluto. Gli inuit si distribuirono in ventuno gruppi tribali nelle regioni artiche di Russia (Cukotka), Alaska, Canada e Groenlandia, e divennero l’etnia più estesa geograficamente di tutto il mondo.
Una famiglia inuit vicino a un igloo. Cartolina francese dell’inizio del XX secolo
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Presentavano tratti somatici comuni, avevano tradizioni orali molto legate fra loro e parlavano lingue appartenenti a una stessa famiglia, l’eschimo-aleutino. Le dure condizioni fisiche – con temperature invernali che possono raggiungere 55 gradi sottozero – hanno determinato il loro modo di vivere. Ma sarebbe un errore pensare che tutti gli inuit vivano nella stessa maniera, in igloo e cacciando foche le cui carni vengono poi mangiate crude.
Una dura sussistenza
L’igloo è l’immagine che la tradizione ha sempre trasmesso in relazione alla vita inuit, anche se anticamente solo il tredici per cento circa degli inuit che abitavano nell’Artide li utilizzava come casa permanente e abituale, e per un ulteriore venti per cento costituiva un rifugio temporaneo, il che significa che due terzi degli inuit non conosceva questo tipo di abitazione e non arrivò mai a costruirla.
La casa tradizionale e più rappresentativa di questa popolazione durante i periodi più freddi consisteva in una costruzione di pietra e torba, talora con un tetto a volta e con una struttura di ossa di balena, zanne di tricheco o legno portato dal mare. Come gli igloo, queste abitazioni si collocavano su una piattaforma e vi si accedeva attraverso un tunnel sotterraneo, in modo da bloccare il freddo. Durante i mesi estivi, gli inuit vivevano in tende fatte di pelli di caribù, simili ai teepee dei nativi nordamericani.
La pesca era una delle principali attività inuit. Incisione del 1860 che raffigura un inuit intento a catturare un narvalo
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Per gli inuit, la primavera era la stagione più importante dell’anno. In questo periodo si spostavano sulle loro slitte trainate dai cani e si dedicavano alla caccia di foche sul mare gelato, approfittando dei fori che questi animali creavano nel ghiaccio per respirare, o anche nelle polynyas, aree di mare aperto circondate dal ghiaccio, dove potevano cacciare anche trichechi e in alcuni casi diversi tipi di balene. Sia in primavera sia in estate erano soliti pescare salmoni, trote artiche o capelani e cacciare alcuni tipi di uccelli.
In primavera, gli inuit cacciavano le foche approfittando dei fori che aprivano nel ghiaccio per respirare
Una volta giunti i mesi estivi, con i kayak e le grandi imbarcazioni di pelle chiamate umiak andavano a caccia di mammiferi marini, mentre sulla terraferma le donne raccoglievano bacche, piante selvatiche e uova di uccelli, così come molluschi e alghe marine sulla costa. L’autunno era il periodo migliore per cacciare i caribù, anche se a volte si anticipava questo momento alla primavera o all’estate, a seconda della scarsità di alimenti e dal grado di dipendenza da questo animale.
In quest'incisione del 1812 si può ammirare una donna inuit che porta due bambini negli abiti
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Per gran parte dell’anno gli inuit consumavano ciò che avevano cacciato e pescato, ma accumulavano anche ciò che avanzava per quando fosse arrivato il durissimo inverno artico. Allora, la maggior parte dei gruppi riduceva al minimo le sue attività e cercava di sopravvivere con le riserve immagazzinate.
Ma se durante i mesi di gennaio e febbraio le provvigioni si esaurivano, gli inuit adottavano una crudele pratica nei confronti degli anziani, che venivano lasciati morire di fame. La priorità era assicurare la sopravvivenza della comunità.
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La suddivisione del lavoro
I compiti fra gli inuit erano distribuiti a seconda del sesso. Il lavoro delle donne consisteva fondamentalmente nel conciare le pelli con i denti, confezionare vestiti per tutta la famiglia, smembrare gli animali e accudire i bambini. Di certo, la loro attività più importante consisteva nel mantenimento di una lampada di steatite conosciuta come qulleq; alimentata con olio di grasso animale e provvista di uno stoppino di muschio o cotone artico, serviva per seccare le pelli degli animali, cucinare, riscaldare e illuminare la casa. In un certo senso, la qulleq era il caposaldo su cui si basava tutto l’edificio culturale del popolo inuit: senza questa lampada non sarebbe stato possibile sopravvivere in un clima tanto estremo e in un ambiente tanto duro come l’Artide.
Gli uomini si dedicavano fondamentalmente alla caccia e alla pesca, ovvero a procurare il cibo necessario per la sussistenza familiare. Inoltre costruivano, con l’aiuto delle donne, le case invernali, le imbarcazioni di pelle e le slitte. Allo stesso modo, si dedicavano a fabbricare gli utensili da caccia e pesca, aiutati da un trapano ad arco che serviva per fare il fuoco e per praticare fori.
Comunione con la natura
L’insicurezza del domani, la preoccupazione per il successo della caccia, la continua minaccia della fame e la mera sopravvivenza in uno dei climi più estremi del pianeta portarono gli inuit a sviluppare una serie di credenze e riti legati alla loro attività di sussistenza. Le loro norme di convivenza e le loro strategie di sopravvivenza erano rivolte alla ricerca di un equilibrio armonico fra il mondo naturale e il mondo spirituale.
Un inuit pesca in un buco di foca. Incisione del XIX secolo. British Library, Londra
Foto: Scala, Firenze
Gli inuit credevano che ogni oggetto, fenomeno di natura, animale, persona o luogo avesse la propria anua o inua, termine traducibile come "spirito vitale". Per questo motivo, il mondo animale era oggetto di ammirazione e rispetto, e questo atteggiamento incontrò la sua massima espressione nei numerosi riti e festività che gli inuit consideravano irrinunciabili per il successo delle loro attività. Solo lo sciamano o angakkoq aveva un vincolo con l’inua ed era l’unico a possedere la capacità di chiedergli aiuto, facendo a tale scopo uso di un linguaggio specifico. Inoltre, si occupava del culto propiziatorio, che per questo popolo di cacciatori aveva un’importanza estrema. Con le sue canzoni, le sue formule e i suoi rituali , lo sciamano controllava il tempo e il mondo animale. Aveva inoltre l’incarico di vegliare sul rispetto dei tabù e di mantenere l’armonia fra esseri umani e natura. Coloro che non seguivano queste regole sarebbero stati puniti con malattie e disgrazie.
Gli inuit mantennero questo modello di vita per secoli e seppero adattarsi a condizioni estreme, senza trasformare il loro ambiente, ma sentendosi parte di esso. L’arrivo degli europei a partire dal XVI secolo alterò quel fragile equilibrio e iniziò a trasformare la cultura tradizionale e le credenze ancestrali degli inuit.
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