Dopo anni di tensioni politiche e sociali, il 28 giugno 1914 Francesco Ferdinando, erede al trono austro ungarico, venne assassinato insieme alla moglie da un giovane nazionalista serbo, Gavrilo Princip, mentre era in visita a Sarajevo. Il governo austriaco si convinse che dietro all’attentato ci fossero le mire indipendentiste della Serbia, da tempo desiderosa di liberarsi dal giogo imperiale. Il 28 luglio 1914 l’Austria-Ungheria invase la Serbia: questa dichiarazione di guerra generò un effetto domino di alleanze che nel giro di poche settimane precipitarono l'Europa nel baratro della Prima guerra mondiale. Nell'agosto di quell'anno il Vecchio Continente si trovò diviso in due grandi schieramenti: da una parte, a difesa della piccola nazione serba, si schierarono la Russia, la Francia e l’Inghilterra; dall’altra, alleate con l’Austria Ungheria, si schierarono la Germania, l’Impero Ottomano e, più tardi, la Bulgaria. La prima offensiva militare della guerra consistette nell’invasione della Serbia da parte dell’Austria Ungheria, che risultò fallimentare. Seguì nel novembre del 1914 una seconda invasione, anch’essa fallimentare. Nell’ottobre del 1915 un ulteriore attacco, più massiccio e forte dell’aiuto dell’esercito tedesco e di quello bulgaro che spingeva da est, decretò la definitiva sconfitta della nazione Serba e delle sue truppe, costrette ad abbandonare la propria terra e a intraprendere un cammino di centinaia di chilometri lungo le inospitali montagne albanesi.

Prigionieri austriaci catturati dai serbi riposano sulle sponde del Danubio. 1915
Foto: The Print Collector / Heritage Images
La disfatta serba e la “marcia della morte”
L'esodo di migliaia di serbi, con indosso indumenti inadatti e aggravato da una carenza pressoché totale di acqua e viveri, diede vita ad una vera e propria crisi umanitaria che coinvolse decine di migliaia di civili e militari serbi e un numero esorbitante di prigionieri austro ungarici catturati nei mesi precedenti e costretti a seguire l’esercito serbo nella tragica traversata, passata alla storia come “marcia della morte”. Il freddo, la fame e le malattie lasciarono sui sentieri innevati dei monti albanesi circa 140mila uomini. Fra i tanti testimoni diretti della tragica marcia del popolo serbo in fuga, colpisce particolarmente il racconto dell’ammiraglio inglese Troubridge: «I serbi scappavano attraverso territori deserti, ricoperti di neve e gelati. Non avevano strade da percorrere. In Serbia, le strade non sono altro che un terreno paludoso con pietre libere gettate sopra. Non c’erano case lungo il cammino, nessun tipo di rifugio, niente fuochi e niente cibo. Bisognava attraversare corsi d’acqua privi di ponti, cadeva una pioggia gelida. Intere famiglie si trascinavano avanti, i vari membri stretti gli uni agli altri. Se uno di loro si accasciava esausto, cosa si poteva fare? Sopraffatto, si limitava a dire “non posso proseguire”».
I prigionieri austro ungarici che presero parte alla marcia furono circa 40mila, ma solo poco più della metà riuscì a raggiungere il porto di Valona. Qui furono presi in consegna da un contingente militare italiano che nel frattempo aveva assunto il controllo della città albanese. Il giovane prigioniero austriaco Josef Šrámek nel suo diario descrisse le terribili sofferenze patite nelle lunghe settimane di marcia: «Lungo la strada c’erano dei cavalli morti. Ci siamo avventati sopra gli animali come se fossimo un branco di lupi, abbiamo staccato dei pezzi di carne, abbiamo acceso dei fuochi e li abbiamo affumicati. Eravamo stati salvati da cavalli morti. Quel pezzo di carne quasi cruda, annerita dal fumo, mi sembrava più buono della carne di maiale. Abbiamo anche cotto qualche pezzo di carne da tenere come riserva».

Vista dell'Asinara da una spiaggia di Stintino
Foto: Pubblico dominio
Verso l’Asinara
I prigionieri austro ungarici divennero presto oggetto di un uno scontro diplomatico fra la Francia e l’Italia. La custodia di un numero tanto grande di soldati nemici faceva gola a entrambi i governi, consapevoli che in futuro avrebbero potuto rappresentare un’importante merce di scambio. L’Italia, che si riteneva la nemica principale dell’impero dal momento che lo stava combattendo ormai da diversi mesi, fece molte pressioni sul governo francese affinché le fosse concessa la gestione dei soldati austriaci. Il 10 dicembre il governo italiano, chiuso il lungo braccio di ferro diplomatico, ottenne la custodia di tutti i prigionieri austro ungarici sopravvissuti alla marcia e arrivati al porto di Valona, insieme a ciò che rimaneva dello stato e dell’esercito serbo. Il ministero dell’Interno si adoperò per trovare un luogo adatto ad ospitare tutti per un breve periodo di quarantena, prima di deportarli in veri e propri campi di prigionia sulla Penisola, nel timore che si diffondessero epidemie all’interno del Paese. La scelta ricadde sull’isolotto sardo dell’Asinara, già adibito a stazione sanitaria dal 1885 e perciò reputato adatto all’accoglienza e alla gestione di poche centinaia di prigionieri per volta.
L’Italia era al corrente delle misere condizioni in cui versavano le migliaia di superstiti, fra le quali si era diffuso il tifo e iniziavano a comparire i primi sintomi di colera. I soldati italiani impegnati nello sgombero del porto di Valona rimasero agghiacciati dalle loro condizioni. L’ufficiale Nicora ricorda così l’incontro con circa 650 ufficiali austriaci giunti nei pressi di Feras, a pochi chilometri da Valona: «Mi sfilarono tutti sotto gli occhi: al confronto delle condizioni in cui erano ridotti tali ufficiali, i nostri soldati, che pur venivano dal Carso e non guazzavano nell’abbondanza, erano l’emblema del benessere e della ricchezza. Quasi tutti scalzi, coi piedi ignudi e tumefatti che qualcuno teneva avvolti in stracci fangosi e chiazzati di sangue; tutto ciò che una volta doveva costituire l’uniforme, si presentava ora come un ammasso di cenci sudici e logori che stentavano a coprire le nudità; qualche indumento, irriconoscibile a prima vista, conservava ancora le tracce di elegante mantello, o cappotto alla moda, che una volta aveva probabilmente sfolgorato negli eleganti ritrovi viennesi».

Paolo Spingardi, uno dei responsabili dell'organizzazione dei prigionieri sull'isola dell'Asinara
Foto: Pubblico dominio
L’organizzazione e la gestione logistica e sanitaria dei prigionieri fu affidata essenzialmente a due figure: l’epidemiologo Alberto Lutrario e il generale Paolo Springardi. I due uomini redassero un decalogo di norme sanitarie volte a scongiurare il diffondersi delle epidemie a bordo delle lance e sull’isola. Queste però non furono rispettate. Nel frattempo l’aggravarsi della situazione sanitaria in Albania, dove il colera stava mietendo decine di vittime al giorno, e una voce non meglio identificata secondo la quale la marina austriaca stava preparando un attacco al porto di Valona spinsero i comandi militari italiani a disattendere il piano logistico e sanitario predisposto dai due esperti e ad imbarcare in fretta e furia quanti più prigionieri possibili, al fine di sgomberare la costa albanese in tempi rapidi. Le lance utilizzate per il trasferimento si trasformarono nel giro di poche ore in veri e propri lazzaretti.
Il comandante della nave Duca di Genova, Gustavo Nicastro, descrive con dovizia di particolari il terribile viaggio della lancia da Valona alla Sardegna iniziato il 25 dicembre 1915. Dopo pochi chilometri, ancora a ridosso della costa albanese, ordina di gettare in mare i corpi senza vita di diversi uomini trovati in stiva. Verso mezzogiorno del 26 dicembre viene informato delle condizioni disumane in cui versano i prigionieri stipati nella nave: dappertutto ci sono malati incapaci di muoversi e decine di morti. Il dottore sembra non avere dubbi: gli uomini in stiva stanno manifestando chiari sintomi di colera. Nella sola giornata del 26 dicembre vengono gettati in mare 71 cadaveri; il giorno seguente gli ammalati che erano stati spostati a poppa il giorno prima sono quasi tutti morti. In ognuna delle lance si verificava lo stesso scenario: durante il viaggio il tifo, la dissenteria e il colera causarono la morte di almeno 1500 prigionieri. I superstiti avrebbero dovuto affrontare, nelle settimane successive, una sfida ancora più dura: sopravvivere alle disperate condizioni che avrebbero trovato sull’isola del Diavolo.

Stazione sanitaria marittima dell'isola dell'Asinara
Foto: Valentina De Santis - Opera propria, CC BY-SA 4.0, shorturl.at/bJU59
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“L’isola del diavolo”
La stazione sanitaria dell’Asinara si dimostrò fin dai primi giorni totalmente impreparata ad accogliere le migliaia di uomini che le lance della marina italiana stavano trasportando sull’isola. Nei giorni precedenti diversi medici e militari avevano fatto notare a più riprese che le operazioni di sbarco avrebbero dovuto rallentare ed essere portate avanti in maniera più graduale, così da permettere l’ampliamento del campo, la cui capienza massima, al momento dell’arrivo delle prime navi, non superava le mille persone. Guido Scano, giovane sottotenente a cui fu affidato il compito di allestire la stazione sanitaria in vista dell’arrivo dei prigionieri, testimonia che « […] sul posto non vi era una tenda né una razione di pane da poter offrire ad un solo prigioniero in più del numero previsto in relazione alle possibilità massime di ricezione, di alloggio e di nutrimento […]. »
Diverse lance furono quindi costrette ad attendere per giorni nelle acque antistanti l’isola, permettendosi solo piccoli spostamenti al largo per gettare a mare i cadaveri di coloro che nel frattempo morivano all’interno delle stive. Presto la situazione a bordo divenne insostenibile, come risulta da quanto Nicastro telegrafò al ministero della Marina il 26 dicembre 1915: «Informo manifestatosi a bordo circa 200 casi di colera, 100 decessi fra i prigionieri. Proseguo verso Asinara dove sarò domani mattina ore 12. Pregherei provvedere sollecito sbarco». Nel giro di poche settimane circa 15.000 prigionieri raggiunsero l’Asinara e si trovarono in un vero e proprio girone infernale. I campi allestiti consistevano in enormi distese di tende costruite alla bell’e meglio, prive di qualsiasi servizio igienico e di acqua potabile. A molti prigionieri non ne venne nemmeno assegnata una e furono costretti a passare intere settimane all’addiaccio, in preda dei gelidi venti invernali che colpivano le coste dell’isola. La completa disorganizzazione degli accampamenti traspare dalle parole dell’ufficiale medico ungherese Robert Schatz: «Le tende erano piantate in caotico disordine; sebbene in ognuna ci fosse posto per soli quattro uomini, in molte si accalcavano in sei o sette, sani, malati e morenti mescolati insieme. Eppure solo un quinto era capitato sotto una tenda».

Josef Šrámek, prigioniero di guerra austriaco, scrisse un diario in cui raccontò l'odissea dell'Asinara
Foto: Pubblico dominio
Il freddo, la fame, la sete e le epidemie decimarono la popolazione del campo nel giro di poche settimane. Le parole contenute nel diario di prigionia di Josef Šrámek aiutano a comprendere l’emergenza sanitaria generata dal diffondersi poderoso del colera fin dai primi giorni sull’isola: «Hanno identificato il morbo – si tratta del colera asiatico portato dall’Albania. Gli uomini che la sera vanno a dormire sani, al mattino si svegliano ammalati. Siamo in cinque in ogni tenda e il virus si diffonde molto rapidamente. Si possono vedere creature in preda agli spasmi dietro ogni arbusto. […] I cadaveri vengono riuniti in pile e vengono gettati in una fossa. Nessuno si occupa di annotare i nomi dei morti». Solo fra il 7 e il 14 gennaio 1916 morirono 1352 prigionieri. I primi mesi furono i più duri e quelli nei quali le epidemie e la malnutrizione provocarono il maggior numero di vittime, ma la terribile prigionia dei “dannati dell’Asinara” continuò fino al termine della guerra, che decretò la fine dell’odissea di questi uomini.
Una vicenda scomoda
Il totale ed evidente fallimento politico, logistico e sanitario del governo italiano è in parte cancellato dalla coscienza pubblica nazionale. L’Italia fece in modo che un muro di silenzio si ergesse a difesa della reputazione della nazione e decise, terminata la catastrofe, di non fare più i conti con la stessa. Di questa grande tragedia umanitaria si raccontò dunque solo quanto interessava al governo. Questo atteggiamento è esemplificato in modo emblematico dal comandante del campo, il generale Ferrari, le cui memorie auto celebrative riguardo la vicenda stridono fortemente con la realtà dei fatti. Nonostante avesse davanti agli occhi l’immane tragedia descritta, nella relazione inviata a Roma nell’aprile del 1916 affermava: «Le malattie hanno […] prodotto nelle file dei prigionieri di guerra qualche vuoto, ma la oculatezza, la solerzia, l’interessamento ed il non comune valore professionale del personale sanitario, hanno troncato principi di gravi malattie, che, senza la virtù dei medici, avrebbero potuto crescere e dilagare […]».

Ossario austro-ungarico dell'Asinara, Porto Torres. Fu eretto nel 1936 per volere del governo austriaco per raccogliere le spoglie dei prigionieri austro-ungarici deceduti sull'isola
Foto: Pubblico dominio
A ulteriore prova del fallimento di cui si è detto sopra, appare utile infine soffermarsi sulla relazione inviata dal dottor Giuseppe Druetti, ispettore sanitario dell’Asinara, al Ministero degli Interni, il 16 gennaio 1916. Druetti si diceva certo che le cause che favorirono la diffusione delle epidemie sull’isola fossero l’assenza di acqua potabile ed un’alimentazione insufficiente: «tale deficienza di acqua che saltuariamente si è verificata ora in un punto ora in un altro, ha costretto i prigionieri a ricercare acqua stagna, pozzanghere, scavare suolo per raccoglierne, fuggire anche da locali di isolamento. Questo per sopperire bisogno fisiologico, a prescindere da impossibilità praticare più elementare pulizia personale. Tale è stata insufficienza acqua da impedire per fino dissetare colerosi. Insufficienza alimentare, che ha spinto prigionieri raccattare pezzi pane, frugare immondizie, impossessarsi residuo viveri infermi. Tale deficienza ha pure influito non permettendo ristabilimento equilibrio organismi esausti, depauperati, per quali è diminuita resistenza organica». A fronte di questa testimonianza, ancora una volta il Generale Ferrari negò l’evidenza, sostenendo che i prigionieri erano stati indotti a bere l’acqua dalle pozzanghere non perché non ve ne fosse di potabile, ma a causa della loro “ignoranza” e “pigrizia”. A conti fatti, dei 40mila soldati austro ungarici fatti prigionieri dall’esercito serbo nell’ottobre del 1915, solo poco più di 17mila riuscirono a tornare in patria, dopo più di tre anni di estremi patimenti.
Per saperne di più
I dannati dell'Asinara. L'odissea dei prigionieri austro-ungarici nella Prima guerra mondiale. Luca Gorgolini, UTET, Milano, 2011.
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