L’isola di Cipro, nota per il santuario di Afrodite, le vigne e i vini, le miniere di rame e le piantagioni di canna da zucchero, era stata la perla dell’impero romano d’Oriente fino a quando, alla fine del XII secolo, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, mentre era impegnato nella terza crociata, la strappò ai bizantini per concederla a Enrico, fratello di Guido di Lusignano re di Gerusalemme.
Sigillo di Riccardo Cuor di Leone, sovrano d’Inghilterra dal 1189 fino alla sua morte, avvenuta nel 1199. British Museum, Londra
Foto: Bridgeman Images
Per situare il ruolo politico della dinastia dei Lusignano bisogna considerare ch’essi erano nominalmente pretendenti alla corona di Gerusalemme in concorrenza con Corrado di Monferrato prima, con gli Svevi e gli Angioini poi; e che per questo i sovrani ciprioti mai cessarono di proporre il loro ruolo nella prospettiva d’una risolutiva crociata che costituì parte non secondaria nella trattatistica politico-militare del XIII-XV secolo, tra il secondo concilio di Lione e i progetti su Gerusalemme di Pio II. In particolare, i sovrani ciprioti guardarono con favore alle prospettive d’occupazione dei porti nilotici tenuti dai sultani mamelucchi d’Egitto: anche perché essi erano in concorrenza con Cipro.
Lo specifico ruolo geopolitico dell’isola era di straordinario rilievo: i suoi porti costituivano tappe per i mercanti e le navi di pellegrini sia da e per la Terrasanta, sia da e per il delta nilotico; e, attraverso le rotte del golfo di Alessandretta, l’isola si proponeva come termine di sud-ovest d’una carovaniera centroasiatica – un diverticolo della Via della seta – che attraverso Tabriz e le strade del Caucaso giungeva a Trebisonda sul mar Nero per condurre poi le merci orientali a Laiazzo.
Durante il XIII secolo, sotto la pressione dell’ilkhanato tartaro-persiano, i Lusignano entrarono a far parte di una prospettiva di alleanza che includeva armeni, principi bizantini, ordine degli Ospitalieri di san Giovanni il centro dei quali era ormai Rodi, domenicani e genovesi, e che si misurava con uno schieramento avversario includente angioini, veneziani, pisani, templari stessi fino al dissolvimento del loro ordine nel 1312 e francescani. I primi puntavano sull’amicizia mongola; i secondi preferivano una prospettiva di collaborazione con i sultani mamelucchi d’Egitto proprio per condizionare l’avanzata mongola. Obiettivo era la leadership sul Mediterraneo orientale e il controllo degli itinerari di sud-ovest della Via della seta.
Moschea di Lala Mustafa Pasha. Edificata a Famagosta come cattedrale, fu convertita al culto islamico all’indomani della conquista turca
Foto: Aldo Pavan / Fototeca 9X12
Il crescere inatteso e inarrestabile della potenza ottomana, dalla fine del XIV secolo, sconvolse tuttavia questo quadro e obbligò la dinastia a rivedere la sua politica di alleanze e i suoi rapporti con i mamelucchi. Si andò così preparando il passaggio alla sovranità veneziana, che avrebbe ridefinito il ruolo dell’isola nel quadro dell’impero marittimo della Serenissima. La vita della Cipro duecentesca, economicamente prospera, fu attraversata dalle incessanti tensioni tra i due Ordini militari rivali, la grande nobiltà riottosa che proveniva dall’ormai perduto regno latino di Gerusalemme e nella quale avevano un ruolo speciale gli Ibelin, le inquiete “borghesie mercantili” di Nicosia e di Famagosta e i coloni latini di Pisa, di Genova e di Venezia cui andavano aggiungendosi anche i catalani di Barcellona. Spettò a Enrico II gestire questo complesso nodo di problemi, in modo energico e anche crudele.
Morto quel sovrano nel 1324, gli succedette il nipote Ugo IV: una personalità forte e colta che seppe pacificare gli animi e ristabilire la collaborazione tra la corona, gli aristocratici e le potenti corporazioni mercantili senza tuttavia rinunciare alle prerogative regie. Sotto il suo regno crebbe però in modo preoccupante la potenza dei nuovi emirati costieri turchi di Anatolia, che avevano approfittato della debolezza del ricostituito impero bizantino e delle contese tra veneziani, genovesi e catalani che turbavano il Mediterraneo orientale. Ugo prese parte alla “Santa Unione” formata dal papa e da Venezia, alla quale si associarono anche gli Ospitalieri di Rodi, e grazie alla quale ebbe felice esito l’impresa per la conquista di Smirne, condotta a buon fine nell’ottobre del 1344.
Egli non era tuttavia un re-guerriero: non commise l’imprudenza di cedere alla tentazione di lavorare affinché la fortunata impresa proseguisse come crociata generale, anche perché sapeva bene quale malinconica fine spettasse ai tentativi di realizzare una nuova crociata, cioè quel passagium generale sul quale si versavano fiumi di parole e d’inchiostro fino dal concilio di Lione del 1274. Anzi, Ugo mantenne i buoni rapporti con il sultano mamelucco d’Egitto, che per lui si traducevano in ricchi affari commerciali.
Guido di Lusignano conquista San Giovanni d'Acri. Terza crociata. Musée Condé, Chantilly
Foto: Dea / Scala, Firenze
I sogni di gloria di Pietro I
Fino dal 1358 a Ugo si era associato al trono il figlio Pietro. Alla sua morte, l’anno successivo, questi gli succedette. Era un temperamento molto diverso dal padre: non era né uno studioso né un uomo di pace, anzi sognava in termini mistici e cavallereschi la gloria crociata. Attaccò subito gli emirati costieri turchi, occupò nel 1361 Gorigos e Satalia e si dette quindi ai raid sulle coste anatoliche. Fin qui, tuttavia, i suoi progetti parevano plausibili: si trattava di prevenire potenziali attacchi dai vicini lidi anatolici e di affermare l’egemonia cipriota sul quadrante settentrionale del mar di Levante. Ma Pietro I sognava ancora, sulla scorta dei mai realizzati progetti di crociata che si erano susseguiti a partire dal primo Duecento, di riconquistare la Terrasanta per mezzo di un “ricatto geoeconomico”: l’assedio ai porti del Nilo, che avrebbe dovuto indurre il sultano mamelucco cairota a restituire alla cristianità la città di Gerusalemme.
A tale scopo, nell’autunno del 1362 egli fece un lungo viaggio in Europa cercando di convincere i re di Francia e d’Inghilterra (peraltro in conflitto tra loro) e alcuni principi tedeschi. Messa quindi insieme una poderosa flotta, il 10 ottobre del 1365 assalì e saccheggiò il porto di Alessandria. Ma la prestigiosa conquista si trasformò in un tragico fallimento: i crociati fecero man bassa, massacrando ma soprattutto rubando; furono saccheggiati anche i fondaci veneziani, genovesi, catalani e marsigliesi. Fu d’altronde subito chiaro che l’opulenta conquista non poteva esser mantenuta; né si poteva sostenere l’urto dei mamelucchi che, passata la sorpresa, si andavano riorganizzando. Alessandria dovette essere dunque evacuata. L’immediata rappresaglia del sultano colpì i mercanti latini con confische di beni e blocco dei commerci. Venezia inviò in gran fretta al Cairo gli ambasciatori Francesco Bembo e Pietro Soranzo: e con una certa fatica la normalità mercantile venne restaurata l’anno successivo.
A quel punto Pietro era screditato dinanzi agli occidentali che a loro volta, ai suoi occhi, erano dei traditori della cristianità. Tuttavia non si arrese: continuò gli assalti, che concentrò sulle coste anatolica e siro-libanese; e fra il 1367 e il 1368, con un altro viaggio in Europa, cercò di nuovo di convincere le potenze cristiane d’Occidente a tentar l’alea della crociata.
Il castello di Kolossi, roccaforte di grande importanza strategica nei pressi di Limassol, appartenne agli Ospitalieri e passò poi ai Templari
Foto: Alamy / Aci
Non ci riuscì: anzi furono i veneziani e i genovesi a convincerlo ch’era meglio stipulare una nuova pace con i mamelucchi. Il seguito e l’esito finale del regno di Pietro hanno un ritmo quasi shakespeariano: molte vicende della corte dei Lusignano potrebbero dare vita a pagine romanzesche. L’aristocrazia dell’isola era stufa del comportamento tirannico del sovrano, dei suoi protetti poulains (cioè i francesi del continente), degli intrighi, protagonisti dei quali erano sua moglie Eleonora d’Aragona, il di lei amante e le due favorite del sovrano. I numerosi scontenti trovarono alla fine una guida in Giovanni, principe titolare di Antiochia e fratello di Pietro. Nella notte fra il 17 e il 18 gennaio del 1369 il sovrano fu assalito in camera sua e trucidato: una versione dei fatti racconta come la sua testa insanguinata fosse esposta dall’alto del balcone del palazzo di Nicosia alla folla.
Non si osò far ascendere al trono il fratricida Giovanni, che tuttavia, con l’altro fratello Giacomo e con la regina Eleonora, divenne reggente del regno per il piccolo Perrin, l’undicenne Pietro II, figlio del re assassinato. Il giovinetto fu incoronato, secondo la tradizione, re di Cipro a Nicosia il 12 gennaio del 1371 e re di Gerusalemme in Famagosta il 12 ottobre del 1372: già nel giorno di questa seconda incoronazione scoppiò un tumulto generato da un’accesa disputa tra il bailo della colonia veneziana e il podestà di quella genovese, che si disputavano l’onore di tenere la briglia del cavallo del sovrano. In gioco era, in realtà, l’egemonia sull’isola.
I rapporti con Genova
Poiché i genovesi ebbero la peggio nella sanguinosa rissa che seguì, e durante la quale i loro fondachi di Famagosta vennero saccheggiati, essi abbandonarono l’isola giurando vendetta e dichiarando di ritenere la casa reale corresponsabile dell’accaduto. In conseguenza delle preoccupazioni nate da quella vera e propria dichiarazione di guerra, Pietro II dovette cedere il controllo della città di Satalia, conquistata dal padre, all’emiro turco di Teké. Nell’ottobre del 1373 una potente squadra navale genovese, comandata da Pietro di Campofregoso, conquistò Famagosta, catturò Pietro II e saccheggiò Nicosia. Il giovane sovrano, sottoposto a minacce e umiliazioni, dovette firmare il trattato del 21 ottobre del 1374 che impegnava il regno a pagare alla repubblica di Genova un colossale indennizzo – oltre due milioni di scudi d’oro – e a consentirle di mantenere l’occupazione di Famagosta, mentre Giacomo, zio del re e coreggente, veniva trasferito come ostaggio nella città ligure. Si consumava frattanto la vendetta della perfida Eleonora, che faceva pugnalare il cognato Giovanni accusandolo della morte del marito e agitando dinanzi al morente, con tragico furore, la camicia insanguinata del consorte.
Moschea del sultano Barquq Bein al-Qasreen, XIV secolo, Il Cairo, Egitto
Foto: Anna Serrano / Fototeca 9X12
Nel tentativo di bilanciare l’egemonia genovese sull’isola, Pietro II sposò Valentina Visconti, figlia del signore di Milano Barnabò, dal quale si attendeva di ottenere un appoggio contro la Superba; e cercò di approfittare della guerra di Chioggia del 1378-1381 fra essa e Venezia per recuperare Famagosta. Ma invano. Quando egli morì il suo possibile successore, suo zio Giacomo, era ostaggio dei genovesi: per poter rientrare nell’isola e prenderne regale possesso egli dovette ceder loro Famagosta e fare altre onerose concessioni.
Il pugno della repubblica di San Giorgio non fu per nulla lieve su Cipro. Tutto il regno di Giacomo I, tra il 1385 e il 1398, fu caratterizzato da un progressivo aggravarsi del peso della fiscalità, reso necessario affinché la corona potesse soddisfare l’insaziabile appetito dei genovesi che avevano finanziato la spedizione pubblica della loro città contro Famagosta. Essi erano riuniti nella società detta Maona Cypri, la destinataria di tutte le somme che i ciprioti versavano alla repubblica di Genova: inoltre, la dogana genovese di Famagosta aveva il monopolio su tutto il commercio dell’isola, il che naturalmente obbligava i veneziani a boicottare tale commercio, com’essi fecero con gli atti formali del 1374 e del 1375. Il drenaggio delle ricchezze cipriote instradate così in modo sistematico alla volta di Genova e la guerra economica che gli avversari della città ligure condussero contro l’isola costituirono due formidabili cause congiunte d’impoverimento.
A Giacomo I succedette il figlio Giano, che era stato a sua volta ostaggio di Genova. Un tentativo da parte sua di scrollarsi di dosso la pesante tutela genovese, nel 1402, condusse a un peggioramento della situazione: Genova era appoggiata dal regno di Francia e governata, a quel tempo, dal maresciallo Boucicault, per nulla conciliante nel trattare la pace del 1403 successiva alla mossa maldestra di Giano. Ma la pesante tutela genovese finì col condurre al declino il porto di Famagosta, un tempo prospero.
Ritratto di Caterina Cornaro. Tiziano, 1542, Galleria degli Uffizi, Firenze
Foto: Bridgeman / Aci
Un po’ la debolezza della corona, un po’ il bisogno continuo di danaro, inducevano i ciprioti che potevano farlo a darsi all’attività corsara, esercitata principalmente contro il sultanato mamelucco d’Egitto: e con il solito alibi della crociata. Ciò finì col provocare la reazione del sultano Barsbai, che tra il 1425 e il 1426 scatenò contro l’isola una campagna avviata con il saccheggio di Limassol e culminata con quello di Nicosia. Giano dopo la cattura e la prigionia al Cairo, umiliato e stremato, morì nel 1432 lasciando il regno al figlio Giovanni II che nei suoi ventisei anni di governo dovette accettare la supremazia mamelucca e sopportare anche una rinascita d’importanza dell’elemento greco, stretto attorno alla sua consorte, Elena Paleologa, figlia di Teodoro II despota di Morea. Dopo la caduta di Costantinopoli in potere degli ottomani, nel 1453, gli esuli greci in Cipro contribuirono a stabilire una vera e propria egemonia nell’isola.
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
Da San Giorgio a San Marco
Un’insperata risorsa giunse tuttavia da un figlio bastardo di re Giovanni: Giacomo, che divenne arcivescovo di Nicosia e che si distinse per raffinatezza intellettuale, spregiudicatezza morale e abilità politica al punto che in lui si è visto un caratteristico modello di prelato rinascimentale secondo gli schemi interpretativi ispirati, per esempio, ai Borgia. Perseguitato dalla sorella Carlotta che aveva ereditato il trono, fuggì da Cipro nel 1459, ma vi tornò l’anno successivo a capo d’una squadra navale mamelucca. Il sultano d’Egitto lo aveva difatti investito del regno; e con l’appoggio egiziano egli – liberandosi dalla sua condizione ecclesiastica– si proclamò re umiliando i baroni ciprioti, cacciando nel 1464 i genovesi da Famagosta e appoggiandosi a un variopinto seguito di mercenari e avventurieri catalani, aragonesi e siciliani cui si sarebbero uniti più tardi anche i greci.
In questo modo, liberatosi anche (con un massacro) dei suoi tutori mamelucchi, ma senza tuttavia rompere con la corte del Cairo, completò la sua opera diplomatica sposando Caterina, ereditiera delle grandi fortune dei Corner; e in tal modo sostituendo l’alleanza veneziana alla tutela genovese ormai conclusasi con l’episodio del 1464. Dopo la morte di Giacomo, che si era intanto riconciliato anche con il papato, nel luglio del 1473, Caterina mantenne la corona cipriota dal 1474 al 1489. Il suo tutore, lo zio Andrea, resse frattanto saldamente il governo per conto della Serenissima e rintuzzò i tentativi dell’aristocrazia siciliana, aragonese e catalana, la quale avrebbe voluto consegnare Cipro a Ferdinando I di Napoli. Andrea Corner fu appunto assassinato dai fautori dell’egemonia aragonese: ma la pronta reazione veneziana fu l’anticamera della completa sottomissione di Cipro alla repubblica di San Marco.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!
Per saperne di più
Caterina Cornaro, dal Regno di Cipro alla Signoria di Asolo. Francesco Boni De Nobili, De Bastiani, Vittorio Veneto, 2012