Una donna non può essere avvocato. I suoi abiti, la sua volubilità, la sua condizione sociale – sempre un passo dietro l’uomo – non le consentirebbero di amministrare la giustizia, né di sostenere un ruolo che esige credibilità e rigore. Questa era la convinzione comune in Italia fino all’inizio del XX secolo, finché una giovane torinese decise di laurearsi in giurisprudenza e consacrare la propria vita ad una professione fino a quel momento declinata al maschile. Lidia Poët non fu solo la prima avvocata d’Italia: pioniera per l'emancipazione femminile, fu tra gli ideatori del moderno diritto penitenziario e tra le promotrici del suffragio universale.
La sua storia riscatta il diritto al lavoro e l’affermazione professionale in un’epoca che ancora collocava le donne accanto al focolare riservando carriera e potere agli uomini. A 140 anni dalla sua nomina e dalla vicenda che l’ha resa simbolo di tenacia ed emancipazione, la vita di Lidia insegna l’importanza di battersi per la propria causa e la consapevolezza che la vera giustizia va ben oltre una norma scritta.
Lidia Poët, la prima avvocata d'Italia
Foto: Pubblico dominio
Donna e avvocata
Lidia nasce il 26 agosto 1855 a Perrero, un piccolo borgo della val Germanasca in provincia di Torino. È l’ultima di sette fratelli: i genitori sono proprietari terrieri valdesi, sensibili ai temi della cultura e dell’istruzione. Da subito orientano i figli agli studi: ancora adolescente, Lidia lascia la casa di famiglia e raggiunge il fratello Enrico a Pinerolo, dove frequenta la scuola normale (equivalente alle magistrali). A 17 anni rimane orfana di padre, ma non viene a mancare il sostegno della madre, che vuole offrire alla figlia le stesse opportunità concesse ai fratelli. Lidia è una studentessa brillante, con una particolare propensione per le materie umanistiche e le lingue: ne parla quattro – italiano, francese, tedesco e inglese – e studia in autonomia il greco e il latino. Otto mesi dopo aver conseguito il diploma di maestra, riesce ad ottenere anche la maturità classica.
A differenza di molte coetanee, la giovane decide di proseguire gli studi: sfidando i pregiudizi dell’epoca, s’iscrive alla facoltà di legge dell'Università di Torino, che frequenta con ottimi risultati. All’età di ventisei anni è tra le prime donne laureate in giurisprudenza, con una tesi sulla condizione della donna nella società in cui tratta anche il tema del diritto di voto. Svolge il praticantato a Pinerolo, nello studio del senatore Cesare Bertea, per poi sostenere l’esame di abilitazione di avvocato. Nel 1883 la sua richiesta d’iscrizione all’albo viene approvata dall’Ordine degli avvocati di Torino, con otto voti a favore contro quattro contrari: a ventotto anni è la prima avvocata italiana.
«Sarebbe disdicevole»
La notizia viene ripresa dalla stampa, tra cui la rivista femminile La donna, che seguirà l’avvocata in tutto il suo percorso professionale. Al contempo, si moltiplicano testi e articoli contrari all’avvocatura di Lidia: la nomina viene impugnata dal procuratore generale della corte d’appello di Torino, che ne chiede l’annullamento. Le motivazioni sono evidenziate nel pronunciamento dell’11 novembre 1883, in cui si ritiene che l’avvocatura sia «esercitabile soltanto da maschi», mentre le donne «non dovevano immischiarsi», perché «sarebbe disdicevole e brutto vedere le donne discendere nella forense palestra e agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi». Senza contare che sarebbero costrette a trattare argomenti che poco si addicono alle «donne oneste».
La dissertazione si estende a fattori estetici, come l’incompatibilità tra la toga e gli «abbigliamenti strani e bizzarri» che le donne sono solite portare, rischiando di distrarre con la propria presenza il regolare corso dei dibattimenti. Lo scritto si conclude con un’ammonizione: le donne non dovrebbero considerare un progresso «mettersi in concorrenza con gli uomini» e divenire «eguali anziché le compagne». Il caso viene sottoposto al vaglio della Cassazione, che accoglie le istanze della Corte d’appello. Il verdetto si rifà al principio della infrimitas sexus: Lidia non potrà esercitare nelle aule di giustizia perché donna, categoria cui era preclusa per legge la professione forense.
La sentenza della corte di Cassazione di Torino che sancisce la cancellazione di Lidia Poët dall'albo degli avvocati. 14 novembre 1833
Foto: Pubblico dominio / www.lidiapoet.it
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Due "impedimenti"
Negli anni successivi il dibattito infiamma e lascia le aule forensi per raggiungere le piazze e i circoli culturali, dove si aggiungono altre teorie contrarie all’emancipazione delle donne nell’avvocatura. La prima è a carattere medico: a causa di ciclo mestruale, si ritiene che una volta al mese una donna non avrebbe l'obiettività e la serenità necessarie per affiancare adeguatamente i propri assistiti.
Il secondo impedimento è di carattere giuridico: secondo quanto stabilito nel Codice della famiglia istituito nel 1865, le donne non possono essere ammesse ai pubblici uffici, né godere di autonomia economica (appannaggio degli uomini di casa). Lo stesso vale per la possibilità di spostarsi in autonomia e frequentare luoghi normalmente preclusi al genere femminile. Ciò avrebbe condizionato fortemente una donna avvocato, pregiudicando la sua affidabilità ed efficacia professionale, quindi danneggiando l’assistito.
Intervista a Lidia Poët. Corriere della Sera, 4 dicembre 1883
Foto: Pubblico dominio
L'impegno e il riscatto
Viene spontaneo chiedersi perché consentire ad una donna di laurearsi, se poi il mestiere per cui ha studiato non potrà essere svolto. La motivazione è semplice: l’istruzione era consentita, ma solo per fornire una cultura generale utile a trovare marito e garantirsi una buona posizione sociale. Essere colte è considerato un valore aggiunto per contrarre un buon matrimonio, ma non per esercitare una professione. Mentre il dibattito infuria, Lidia non si lascia fermare: pur non avendo la facoltà di partecipare alle udienze in tribunale né firmare atti processuali, negli anni continua a collaborare nello studio legale del fratello.
All’inizio del XX secolo prendono corpo le prime mobilitazioni femminili: nel 1908 a Roma si tiene il primo Congresso delle donne italiane, cui Lidia partecipa attivamente, inserendo nel programma temi come il suffragio universale, l’emigrazione e l’istruzione. Su quest’ultimo tema, si farà portavoce al Consiglio Internazionale delle donne, organizzato nel 1914 sempre nella capitale. Il contributo di Lidia si focalizza in questo caso sull’assistenza morale e legale ai minori in Italia, giudicando inappropriati i sistemi coercitivi e punitivi (prigioni e riformatori). L’avvocata vede nell’educazione scolastica lo strumento per assicurare un futuro ai giovani e un adeguato sostegno alle famiglie italiane.
Rivista quindicinale La donna del 5 maggio 1908
Foto: Pubblico dominio
Rieducare per aiutare
Oltre alla difesa dei minori, Lidia prende a cuore il tema dei diritti dei detenuti, sostenendo il valore della riabilitazione. Nel 1883 partecipa al primo Congresso Penitenziario internazionale, dove sostenendo l’inefficacia di approcci punitivi. Per lei il riscatto sociale e morale dei carcerati passa attraverso l’educazione e il lavoro: tra le proposte innovative, la possibilità di proporre corsi e iniziative di formazione per restituire dignità alla persona e rimetterla in contatto con la realtà fuori dal carcere. I Congressi che si terranno negli anni a venire forma il moderno sistema penitenziario, di cui Lidia sarà promotrice diventando su questo tema una figura di riferimento su scala internazionale.
La Prima guerra mondiale scuote le fondamenta sociali in Italia e in Europa. Il conflitto porta gli uomini al fronte, lasciando alle donne il compito di badare agli affari e alla famiglia. Lidia assiste a questo cambiamento in prima persona e decide di farne parte offrendosi come volontaria al fronte tra le fila della Croce Rossa, impegno premiato con una medaglia a fine conflitto. Il cambiamento inizia ad influenzare la norma: nel 1919 viene avanzata una proposta di legge per regolarizzare ciò che di fatto era naturalmente divenuto appannaggio delle donne: il diritto al lavoro. Il 17 luglio 1919 viene approvata legge numero 1176 “norme circa la capacità giuridica ella donna” che articolo 7 include diritto adesso delle donne a tutti gli impieghi pubblici, esclusi ruoli legati alla magistratura, alla politica o in ambito militare.
Placca commemorativa a Torino
Foto: Betty&Giò - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://rb.gy/ilt3lt
La battaglia continua
Come contesteranno i movimenti femministi d’inizio XX secolo, una legge di quel tipo era necessaria per mettere ordine in un mondo cambiato dalla guerra, ma non sufficiente a garantire quella parità tanto agognata. Divenute ormai insostituibili nel contribuirei al benessere della famiglia, le donne godono di una prima effettiva emancipazione, ma ancora non possono ottenere posti di rilievo nella società. Ciò permette però a Lidia di vincere la propria battaglia e riesce ad iscriversi all’Albo degli avvocati di Torino.
Lidia non si sposerà e non avrà figli: dopo una vita spesa al servizio degli altri, muore il 25 febbraio 1949 a Diano Marina, dove trascorre gli ultimi anni. Viene sepolta a Perrero, nella valle che le ha dato le origini. Nel cimitero locale, dedicato a san Martino, l’epigrafe sulla sua tomba la commemora come «prima avvocatessa d’Italia», ricordando l’esempio che ha saputo portare alle donne del suo tempo, aprendo loro la strada verso una parità di genere ancora lontana ma forse finalmente possibile.
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