Non era regnare il suo destino. Tuttavia Tuthmosis III poté ascendere al trono d’Egitto poiché suo padre, Tuthmosis II, e la sua Grande Sposa Reale, Hatshepsut, non avevano un erede maschio. Così il giovane, figlio di una sposa secondaria del faraone, si trovò a dominare sul Paese del Nilo intorno al 1458 a.C. In ogni caso, si trattò di una fortuna per il Paese poiché Tuthmosis III possedeva le qualità indispensabili per un buon governante, ma soprattutto aveva una straordinaria attitudine militare che, unita al suo grande valore, gli assicurò per tutta la vita la lealtà del potente esercito egizio. Al comando delle sue truppe, Tuthmosis III creò un impero che si estendeva dall’attuale Siria fino alla quarta cateratta del Nilo, nell’odierno Sudan. L’Egitto faraonico raggiunse allora la sua massima espansione.

Rilievo del settimo pilone di Tuthmosis III, nel tempio di Amon a Karnak, che rievoca le vicende della vittoriosa battaglia di Qadesh
Foto: G. Sioen / Dea / Age Fotostock
Per attuare il suo ambizioso disegno, Tuthmosis III compì ben diciassette spedizioni in terre asiatiche, tra la penisola del Sinai e l’Eufrate. In una vasta regione compresa fra quest’ultimo fiume e il Tigri si estendeva il regno di Mitanni, allora il più agguerrito nemico dell’Egitto. I due stati si scontrarono violentemente per il controllo della Siria, dove convergevano tutte le rotte commerciali del Vicino Oriente.
I predecessori di Tuthmosis III avevano collaudato un esercito professionista permanente e ben organizzato, ma fu lui a trasformarlo in un efficace strumento di conquista e difesa. Il faraone era il comandante in capo di tutte le armate d’Egitto, benché potesse demandare alcune delle proprie mansioni al suo principe ereditario. Diverse iscrizioni attestano che suo figlio, il futuro Amenhotep II, imparò a maneggiare le armi fin dalla tenera età e, una volta asceso al trono, diede prova della sua abilità nell’impiego di carri da guerra oltre che di archi e frecce, sia durante l’addestramento sia sul campo di battaglia.
Fanti, navi e carri da guerra
Agli ordini diretti del faraone c’era una sorta di primo ministro, il visir, responsabile dell’apparato amministrativo del Paese, che a sua volta impartiva le direttive ai governatori delle due ampie regioni in cui era suddiviso l’Egitto, con capitale a Menfi e a Tebe, città con importanti guarnigioni militari.

Il faraone combatte contro i nubiani. Cofanetto del tesoro di Tutankhamon
Foto: Kenneth Garrett / Getty Images
I principali corpi dell’esercito erano rappresentati dalla fanteria e dai carri da guerra, a cui si aggiungeva la flotta fluviale. I carri da guerra erano raggruppati in squadroni di circa cinquanta elementi, a loro volta divisi in reparti di cinque o dieci carri. L’unità tattica fondamentale della fanteria egizia, la compagnia, era invece formata da duecento o 250 soldati, comandati da un alfiere e divisi in gruppi di cento o cinquanta uomini. Varie compagnie di fanteria formavano un battaglione, agli ordini di un comandante, e diversi battaglioni costituivano una grande unità, sotto il comando di un generale.
I soldati, provenienti perlopiù dal centro e dal sud del Paese o dalla Nubia (l’attuale Sudan), avevano il corpo temprato dagli esercizi di lotta ed erano abituati a compiere lunghe marce di trasferimento. Durante la campagna di Megiddo, potente città di Canaan – nella quale Tuthmosis III sconfisse la coalizione dei principi di Qadesh e di Megiddo, alleati di Mitanni – l’esercito egizio percorse in dieci giorni gli oltre duecento chilometri che separavano Tjaru, località di confine sul delta nordorientale, e Gaza, nella terra di Canaan.
Le navi da guerra egizie, impiegate per trasportare sia uomini sia viveri, avevano nomi come Il Toro o Amata da Amon. Perno delle operazioni militari nel territorio nubiano era la flotta fluviale che percorreva il Nilo; tuttavia c’erano anche imbarcazioni destinate a solcare il Mediterraneo, che raggiungevano le coste del Vicino Oriente.

Posta su una collina nel nord di Israele, Megiddo sorgeva in posizione strategica sulla via commerciale che connetteva Egitto e Mesopotamia.
Foto: Duby Tal / Albatross / Age Fotostock
Durante la sesta campagna asiatica, che si concluse con la presa di Qadesh, roccaforte ittita nella valle del fiume Oronte, le truppe del faraone navigarono fino ai porti del litorale cananeo (nelle aree occupate dagli attuali Israele e Siria), dove riportarono numerose vittorie. In seguito, nell’ottava campagna, gli egizi entrarono in contatto diretto con l’armata mitannica e l’esercito di Tuthmosis III avanzò per oltre quattrocento chilometri dal porto di Biblo fino alle sponde dell’Eufrate trasportando le navi smontate su carri trainati da buoi. Una volta giunti a destinazione, i soldati riassemblarono le imbarcazioni e attraversarono il fiume con grande sconcerto dei Mitanni. Nel contempo, Tuthmosis III trasformò il piccolo porto fluviale di Menfi, noto come Peru-Nefer (letteralmente “Buon Viaggio”), in un vasto complesso portuale dotato di cantieri navali, così da agevolare le azioni belliche sulle coste cananee.
Le difficili campagne militari
Le spedizioni militari erano programmate in stretta relazione alle condizioni climatiche. In genere, le guerre sul territorio africano venivano condotte durante l’inverno; viceversa le operazioni belliche nell’area asiatica avevano luogo in estate. In tal modo gli egizi sfuggivano ai rigori del gelo e alla morsa del caldo soffocante, entrambi temibili nemici.
Nel fragore della battaglia, gli ordini venivano trasmessi da squilli di tromba e rulli di tamburo. Il nerbo dell’esercito era la fanteria, suddivisa in due categorie: accanto alla fanteria pesante, i cui componenti erano equipaggiati con scudo, lancia e ascia, vi erano soldati armati alla leggera che impugnavano giavellotti, archi e frecce. Non mancavano inoltre unità di frombolieri, muniti di fionda.

Carro da guerra. Tesoro di Tutankhamon
Foto: S. Vannini / Corbis / Cordon Press
I carri da guerra, protagonisti assoluti degli scontri campali, precedevano la fanteria ed erano utilizzati per condurre accerchiamenti, inseguimenti e azioni di disturbo. Ogni carro era provvisto sulle fiancate di due grandi faretre per le frecce e le lance e ospitava due uomini, l’auriga e un arciere o un lanciere. Quando si lanciavano alla conquista di una città fortificata, i fanti si servivano di innovativi strumenti d’assedio quali scale dotate di ruote, arieti e testuggini, mentre gli arcieri scagliavano un nugolo di frecce sui difensori. Spesso, poi, abbattevano gli alberi circostanti e con il legno ricavato costruivano fortini per impedire agli assediati ogni comunicazione con l’esterno. Tale strategia è descritta nelle Cronache della battaglia di Megiddo, città che si arrese dopo un assedio di sette mesi portato avanti dalle truppe di Tuthmosis III.
Una resistenza prolungata suscitava crudeli ritorsioni contro i vinti. Il figlio e successore di Tuthmosis III, Amenhotep II, passò alla storia per la ferocia del trattamento da lui riservato agli sconfitti. Si narra che i cadaveri dei capi battuti durante le sue tre campagne in Siria furono trasportati fino in Egitto, sospesi come trofei alla prua di una nave, per essere poi esposti sulle mura di Tebe. E il faraone successivo, Tuthmosis IV, ordinò che i superstiti di Gezer, riottosa città cananea, fossero deportati in Egitto e ridotti in schiavitù.
A queste spedizioni partecipavano militari esperti e capaci. Tra i più celebrati spicca il generale Djehuty (XVIII dinastia), che secondo leggende posteriori avrebbe conquistato Joppe (l’odierna Giaffa) con un astuto stratagemma, introducendovi i propri soldati in ceste offerte in dono. Le fonti menzionano anche Amenemheb, comandante al servizio di Tuthmosis III, che seguì il faraone in diverse spedizioni e ottenne numerosi riconoscimenti per il suo valore, che non si rivelava solo sul campo di battaglia: una volta, durante una battuta di caccia agli elefanti in Siria, quando il più grosso del branco aggredì il sovrano, Amenemheb gli si avventò contro e gli tagliò la proboscide.

In una decorazione della porta di Ramses III, nel palazzo reale di Medinet Habu, sono raffigurati due prigionieri, uno nubiano e uno asiatico, tradizionali rivali degli egizi. 1153 a.C. circa, Museo Egizio, Il Cairo
Foto: Bridgeman / Index
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La dura vita di un soldato
Le truppe erano formate da professionisti ben addestrati e da guerrieri mercenari, egizi e nubiani, i cui familiari risiedevano in colonie militari. Nel momento in cui un soldato abbandonava il servizio poteva continuare a godere di privilegi fiscali, purché uno dei figli lo sostituisse nell’adempimento dei doveri militari. Pane, carne bovina, verdura e birra facevano parte del rancio delle truppe, del cui approvvigionamento si occupavano gli scribi, il personale logistico e amministrativo dell’esercito, addetto anche al reclutamento.
La vita militare non era priva di attrattive: oltre ai terreni statali concessi in usufrutto dal faraone, ai soldati spettavano parte del bottino sottratto agli sconfitti e schiavi. Inoltre i più valorosi erano premiati con titoli onorifici, promozioni a ranghi più elevati e, talvolta, doni del sovrano, tra cui armi o gioielli in oro e argento. In genere, per agevolare il conteggio delle perdite nemiche e richiedere la dovuta ricompensa, i soldati tagliavano una mano a ogni guerriero che avevano ucciso e la consegnavano allo scriba della loro unità.
In ogni caso, la vita dei soldati era durissima. Sottoposti fin dalla giovane età a lunghi e faticosi turni di addestramento e alla rigida disciplina prescritta dai superiori, erano costretti a marce estenuanti e spesso morivano a causa delle malattie contratte durante le spedizioni in terre lontane.
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Per saperne di più
La cività dell’antico Egitto. Angelo Lepore, Lampi di Stampa, Cologno Monzese, 2008.
Storia dell’antico Egitto. Nicolas Grimal, Laterza, Roma, 2007.