Via del Pane Bianco. Un toponimo evocativo attraversa Servola, antico villaggio abbarbicato su un colle oggi inglobato dalla città di Trieste. Generazioni di bambini hanno frequentato l'asilo che si trova in questa strada, ascoltando fin da piccoli la storia delle pancogole e del pane destinato a diventare famoso in tutta l'Austria-Ungheria.
Nel XVIII secolo Trieste si avviava a diventare la terza città per importanza dell'impero asburgico nonché primo porto dell'Adriatico settentrionale. Servola invece era un piccolo borgo contadino abitato per lo più da gente di lingua slovena. Qui le donne contribuivano al ménage familiare preparando il pane in casa e andandolo a vendere in questa città brulicante di affari e traffici in espansione. Benché le sorvolane non fossero le uniche donne che preparavano il pane nella zona, la fama del loro prodotto fu tale da giungere fino a Vienna.
Il borgo di Servola in una fotografia d'epoca
Foto: Museo etnografico di Servola
La lavorazione del pane
La prima menzione del termine “pancogola” la troviamo nei registri e regolamenti comunali di Trieste del 1150, ma sarà a partire dal XVIII secolo che queste donne diventeranno protagoniste della vita cittadina imponendosi anche sulle breschizze, le colleghe provenienti da altri villaggi del circondario, in particolare dal Carso triestino e dall'Istria. La lavorazione del pane era una pratica faticosa e di grande responsabilità, che le servolane svolgevano con orgoglio e dedizione. La farina veniva acquistata quotidianamente in negozi che avevano l'obbligo di aprire anche la domenica. Era sempre bianca, secondo l'uso italiano, e non nera, di segale, come d'abitudine in Austria. Le pancogole servolane preferivano quella proveniente dall'Ungheria e la passavano al setaccio di seta mescolando marche differenti per ottenere un pane migliore. Prima si preparava il lievito e dopo averlo lasciato riposare, s'impastava il pane e si lasciava gonfiare. Le donne si svegliavano fra l'una e le quattro del mattino per eseguire l'impasto successivo, questa volta lavorando i singoli pezzi. Questi non avevano una forma prestabilita: era la fantasia della pancogola unita alle richieste specifiche dei clienti a determinarne la foggia.
Il panino però era sempre, rigorosamente di piccola taglia e bianco, poiché questa era la caratteristica più apprezzata. Le versioni più diffuse erano la s'ciopeta, composta da un unico pezzo accartocciato, oppure il parič (biga), formata da due o quattro palline di pasta attaccate a coppie. Il pane veniva cotto poi nel forno in pietra della cucina, alimentato con legna di nocciolo o frassino, ma meglio ancora da legni misti. Solitamente si realizzavano due informate al giorno, ma chi doveva rifornire le osterie o i rivenditori ne faceva di più.
Le pancogole a Vienna
Foto: Museo etnografico di Servola / Renato Palčič
La preparazione del pane prevedeva all'incirca quattro ore di lavoro per ogni infornata, per questo la pancogola si faceva aiutare dalla figlia o da una sorella. Se però alle sventurate capitava d'addormentarsi, in loro aiuto accorreva tutta la famiglia, uomini compresi, poiché era fondamentale che il pane fosse pronto ogni giorno. Dopo averlo sfornato e fatto raffreddare su una tavola di legno, si sistemava il pane nel prenier, un cesto rotondo con due piccoli manici che poteva pesare otto o dieci chili. I pezzi andavano disposti secondo l'ordine di consegna, poiché ogni donna aveva i suoi clienti fissi e sapeva già a chi consegnarli lungo strada.
La processione delle pancogole
Dopo le fatiche della notte, le pancogole erano pronte per portare il pane in città. Una processione di donne si snodava lungo la collina con portamento elegante, tenendo in equilibrio sulla testa un gran cesto coperto da un fazzoletto bianco. Le breschizze del circondario raggiungevano Trieste a dorso di un asinello, ma le servolane no, loro camminavano erette lungo i quattro o più chilometri che le separavano dalla città. Nelle mattine in cui la bora, il vento gelido del nord, soffiava impetuoso, erano gli uomini ad aiutarle. E quando le strade gelavano, poggiavano la mercanzia su una lastra di metallo, il lamarin, e lo spingevano in ginocchio. Erano pronte a tutto pur di non mancare la consegna quotidiana. Lungo strada si fermavano per recapitare le ordinazioni ai clienti fissi, e poi, una volta giunte in città, dovevano esporre la merce nel luogo deputato (che oggi porta il nome di via del Pane) fino alla campana delle ore undici. Solo a quel punto potevano offrirlo ai rivenditori o alle osterie. Fra i clienti abituali, v'erano anche molti nobili che mandavano la serva in piazza a rifornirsi di panini, oppure venivano serviti direttamente a casa per ultimi. Il pane delle servolane era molto rinomato, tutti concordavano nel ritenerlo superiore agli altri, e loro non tornavano mai a casa con della merce invenduta. La fama di quel pane candido dalla mollica bianca come la carta giunse a Vienna, tanto che sotto il regno di Maria Teresa le pancogole vennero invitate per ben due volte nella capitale al fine d'insegnare la tecnica ai panificatori locali. Questi due viaggi, nel 1756 e nel 1764, non riportarono però il successo sperato. Forse per una diversa durezza delle acque, forse per un'aria differente, fatto sta che nessun panettiere viennese riuscì mai ad emulare il successo del pane bianco di Servola.
Pane bianco di Servola in una foto d'epoca
Foto: Museo etnografico di Servola / Damiano Tommasi
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L'ammutinamento delle pancogole
Sebbene la gente amasse le pancogole e il loro pane bianco, non mancavano però le tensioni con le autorità. Il principale oggetto del contendere era costituito dal fontico, il deposito per la conservazione e la vendita del grano e della farina che riforniva i pistori, i panettieri cittadini. I funzionari avrebbero voluto imporre anche alle servolane l'obbligo di rifornirsi lì, ma queste rifiutavano caparbiamente: quella farina era costosa e di cattiva qualità; non a caso era risaputo che il pane dei pistori fosse pessimo. Nel 1710, in seguito ad una risoluta protesta delle donne, il suppano – il capovillaggio – di Servola ricevette una lettera dell'autorità preposta che gli intimava di depositare i nomi delle pancogole, rendendolo così responsabile della loro disciplina. Ciononostante, molte donne contrabbandavano il pane con farina estranea a quella cittadina rischiando così la galera.
Strumenti d'epoca utilizzati dalle pancogole per la preparazione del pane di Servola
Foto: Museo etnografico di Servola / Damiano Tommasi
Nel 1757 venne istituita l'Impresa del pane, una sorta di cooperativa che per qualche tempo riuscì a stabilire una sorta di monopolio ai danni delle servolane alle quali venne vietato, nel 1759, di recarsi in città a vendere il pane. Queste non si persero d'animo e continuarono a vendere i loro prodotti nelle case private. Diversi documenti dell'epoca riportano attriti con le autorità. Ad esempio, in uno scontro fra tre agenti ed un contrabbandiere (questa volta un uomo) le guardie ebbero la peggio e il loro cane rimase ferito mortalmente. Secondo il rapporto di polizia, «La temerarietà dè Servolani era resasi insofribile et otrepassava li limiti […] Vogliono baldanzosamente continuare Giornalmente li loro contrabandi del pane con l'animo ferino di opporsi à qualsiasi forza della Giustizia». La tensione era tanto papabile che come racconta una servolana nel corso di un interrogatorio «li nostri Uomini erano somamente afliti di questo divieto, e bramavano non incontrarsi in qualche numero con li deti Sbirri, poiché sarebbe successo del male, ò con bastonarsi». La protesta culminò nel 1760. Davanti alla superiorità indiscussa del pane servolano, le autorità avevano nuovamente concesso alle pancogole di riappropriarsi della piazza di Trieste previo rifornimento al fontico cittadino. Loro però non cedettero di un punto, e piuttosto che usare quella disprezzata farina si ammutinarono rifiutandosi di portare il pane in città. Non si arrivò mai ad un accordo: l'animo mercantile della città continuò a cercare l'affare a spese delle servolane e queste continuarono a difendere la qualità del loro ineguagliabile pane.
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