Nel 415 a.C. giunse ad Atene una delegazione della città siciliana di Segesta. Di fronte all’assemblea popolare gli ambasciatori invocarono l’aiuto contro Selinunte, a sua volta protetta da Siracusa, colonia corinzia, che minacciava la loro patria per terra e per mare. Un’eventuale sconfitta di Segesta, peraltro, avrebbe assicurato a Siracusa il predominio sull’intera Sicilia. E una volta sottomessa la loro città, ammonivano poi i segestani, i siracusani avrebbero potuto stringere un accordo militare con Sparta e volgersi contro Atene.
Soldati che partono per la guerra su un vaso attico del V secolo a.C. Museo di belle arti, Budapest
Foto: Museum of Fine Arts, Budapest / Scala, Firenze
L’appello di Segesta trovò orecchie attente nella polis attica. Dal 431 a.C., infatti, Atene aveva visto affievolirsi la propria influenza, fiaccata com’era dalla guerra del Peloponneso, il sanguinoso conflitto contro Sparta, che le contendeva l’egemonia sulla Grecia. Benché nel 421 a.C. entrambe le parti avessero sottoscritto una tregua, detta pace di Nicia dal nome del generale ateniese che si adoperò per ottenerla, molti chiedevano una ripresa delle ostilità. Così, la richiesta dei segestani accese un forte dibattito nell’ecclesia, l’assemblea del popolo ateniese.
Tra quanti suggerivano prudenza, spiccava lo stesso Nicia. Egli obiettò che nemmeno i cartaginesi, il cui potenziale militare era superiore a quello di Atene, erano riusciti a invadere la Sicilia e rammentò il consiglio di Pericle, l’uomo che per oltre trent’anni aveva guidato le sorti della polis, il quale ammoniva gli ateniesi a non estendere i loro domini durante la guerra. Tuttavia, spinta dai possibili vantaggi economici, l’assemblea approvò l’invio di una spedizione contro Siracusa. Sulla decisione influirono senz’altro i sessanta talenti d’argento che i segestani avevano offerto come anticipo in cambio del sostegno di Atene.
Fu decretato così l’allestimento di un’ingente flotta di 134 triremi, con a bordo 5000 opliti, 1550 tra frombolieri e arcieri e trenta cavalieri. Il comando della spedizione fu affidato a tre generali, nominati strateghi plenipotenziari: Alcibiade, Nicia e Lamaco, ognuno dei quali mostrava un atteggiamento diverso nei confronti della campagna. Alcibiade, il personaggio politico più in vista della polis, secondo lo storico Tucidide caldeggiò l’impresa «con il più grande ardore di tutti», per la smania di acquisire fama e ricchezza; Nicia, che vi si era fortemente opposto, fu eletto stratego contro la sua volontà, perché con la sua cautela stemperasse l’audacia di Alcibiade. Lamaco, infine, pur essendo più anziano, non era meno temerario di quest’ultimo sul campo di battaglia.
Busto di Alcibiade, stratego ateniese. IV secolo a.C. Galleria degli Uffizi, Firenze
Foto: AKG / Album
Cattivi presagi
Una mattina nell’estate del 415 a.C., poco prima che la grande flotta partisse dal Pireo, gli ateniesi scoprirono che le erme – pilastri raffiguranti il dio Ermes, situati un po’ ovunque nella città e oggetto di un culto assai radicato – erano state decapitate e mutilate. Tale atto sacrilego fu considerato di pessimo auspicio per la spedizione in Sicilia e suscitò il panico tra la popolazione. Molte voci attribuivano il misfatto ad Alcibiade, ma egli salpò ugualmente con la flotta; gli avversari politici dello stratego avrebbero però approfittato della sua assenza per accumulare prove contro di lui.
Secondo lo storico ateniese Cratippo, invece, responsabili della decapitazione delle erme sarebbero stati i corinzi che, in un estremo tentativo di difesa dei loro coloni siracusani, intendevano dimostrare come quella campagna militare fosse invisa agli dei. Comunque, alcuni giorni dopo la partenza Alcibiade, da poco sbarcato a Catania, fu raggiunto da una trireme ateniese e richiamato in patria per rispondere delle accuse a suo carico. Temendo una condanna, fuggì e si recò a Sparta, mettendosi al servizio dei nemici di Atene.
La spedizione ateniese restò sotto il comando di Lamaco e Nicia, che s'impadronirono delle Epipole, l’altopiano che sovrasta Siracusa, e iniziarono a costruirvi delle fortificazioni con l’obiettivo di circondare la città e costringerla alla resa, tagliandola fuori dalle vie di comunicazione. Intorno a queste mura i due eserciti si scontrarono in numerose scaramucce, in una delle quali morì il generale Lamaco. Nicia, afflitto peraltro da una grave forma di calcolosi renale, rimase l’unico comandante.
Il duomo di Siracusa conserva i resti di un tempio dorico dedicato ad Atena e risalente al V secolo a.C., le cui colonne reggono tuttora il tetto dell’edificio
Foto: Scala, Firenze
L’intervento di Sparta
Di fronte all’offensiva ateniese, non tardò a farsi sentire la reazione degli spartani che, esortati da Alcibiade, inviarono una flotta a sostegno di Siracusa sotto la guida dell’esperto generale Gilippo. Il nutrito contingente lacedemone, composto da 3000 opliti e duecento cavalieri, giunse in Sicilia nella primavera del 414 a.C. e ottenne l’appoggio di altre colonie greche, quali Imera, Gela e Selinunte, che temevano un predominio ateniese sull’isola.
Gilippo occupò il forte ateniese di Labdalo, sul lato settentrionale delle Epipole, e impedì agli ateniesi di terminare la costruzione delle mura d’assedio. Nicia fortificò allora il Plemmirio, il promontorio che di fronte all’isola di Ortigia chiude a oriente l’imboccatura del porto Grande di Siracusa, e inviò degli emissari ad Atene per sollecitare rinforzi. Ormai indebolito dalla malattia, lo stratego illustrò in una lettera la difficile situazione in cui versava il suo esercito e richiese l’invio tempestivo di un’armata di soccorso non inferiore a quella con cui era giunto in Sicilia; altrimenti sarebbe stato meglio richiamare le truppe in patria.
L’ecclesia deliberò di mandare in rinforzo un considerevole contingente di settantatré triremi e 5000 opliti. A guidarlo vi erano i generali Demostene (da non confondersi con il celebre oratore) ed Eurimedonte, che avrebbero affiancato Nicia nel comando. Del resto, anche l’esercito spartano di Gilippo si accrebbe grazie all’apporto di soldati provenienti da altre città siciliane, da Corinto e da Tebe.
Decadracma d’argento di Siracusa coniata per commemorare il trionfo della città sugli ateniesi. 413 a.C. British Museum, Londra
Foto: British Museum / Scala, Firenze
La conclusione della campagna di Sicilia ebbe luogo nell’agosto del 413 a.C. Dopo alcuni scontri di minor rilievo, le forze ateniesi e lacedemoni si fronteggiarono nella cruciale battaglia delle Epipole, il cui controllo era fondamentale per la conquista di Siracusa. Gli ateniesi, ai quali in un primo momento sembrava arridere la vittoria, subirono una disfatta clamorosa: 2500 dei loro uomini rimasero uccisi sul campo di battaglia. Molti superstiti, poi, sarebbero morti di malaria o dissenteria nell’accampamento del Plemmirio, un luogo paludoso e insalubre.
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La terribile disfatta
Se tuttavia gli ateniesi si fossero ritirati subito dalla Sicilia, avrebbero potuto salvare ancora gran parte delle loro forze. Ma il 27 agosto 413, proprio mentre l’armata era in procinto di fuggire dal porto di Siracusa, si verificò un’eclissi di luna, interpretata come un cattivo presagio. Nicia, che a detta di Tucidide era «troppo dedito alla divinazione e a simili pratiche», decise di ritardare la partenza di «tre volte nove giorni»; fu un errore fatale. Peloponnesiaci e siracusani ebbero il tempo di organizzare in modo ottimale la propria offensiva, per terra e per mare; chiusa l’uscita del porto Grande con una barriera di navi, circondarono le triremi nemiche da ogni lato. Gli ateniesi cercarono disperatamente di rompere l’argine, ma patirono una sconfitta totale in una delle battaglie più cruente della guerra del Peloponneso: la loro flotta fu annientata.
A quel punto, dopo aver abbandonato i feriti al furore del nemico, gli ateniesi superstiti intrapresero la ritirata via terra, schierati in due corpi di battaglia guidati da Nicia e Demostene. Non arrivarono però molto lontano, poiché spartani e siracusani li seguirono costantemente per giorni, ostacolandone l’avanzata e bloccando ogni possibile passaggio. Stremati dalla fame e dalla sete, alla fine i fuggiaschi furono assaliti e massacrati senza pietà; gli stessi strateghi furono presi e giustiziati. Si salvarono solo 7000 uomini, gran parte dei quali avrebbero finito i loro giorni nelle famigerate cave di pietra di Siracusa.
Battaglia navale tra ateniesi e spartani all'interno del porto di Siracusa. Incisione
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Tucidide definisce la spedizione in Sicilia come «la più imponente mai intrapresa da una sola città greca» e la considera l’evento cruciale della guerra del Peloponneso, descritta a sua volta come «il più grande sconvolgimento che sia avvenuto tra i greci». La campagna militare contro Siracusa, frutto dell’ambizione sfrenata degli ateniesi, fu segnata fin dall’inizio da una serie di passi falsi che li avrebbero trascinati in una débâcle senza precedenti. Malauguratamente per i greci, però, il cammino verso la pace era ancora lungo, irto di ostacoli e sofferenze.
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Per saperne di più
Le storie. Vol. 6: La disfatta a Siracusa. Tucidide, Marsilio, Venezia, 1996
Sparta e Atene. Il racconto di una guerra. Sergio Valzania, Sellerio Editore, Palermo, 2017
Una guerra diversa da tutte le altre. Come Atene e Sparta combattevano nel Peloponneso. Victor Davis Hanson, Mondadori, Milano, 2018