Una pettinatura all’ultima moda, splendenti gioielli, un elegante vestito di seta: questi gli ornamenti con cui le donne aristocratiche dell’antica Roma cercavano di farsi notare nelle occasioni pubbliche, a teatro o durante le passeggiate in lettiga per le vie dell’Urbe. Ma una speciale attenzione era dedicata alla pelle. La cura dell’epidermide fu un’autentica ossessione per le romane dei ceti alti; si sviluppò di conseguenza un’arte del trucco non meno preziosa e raffinata di quella dei giorni nostri.
Toeletta di una matrona romana, truccata e pettinata dalle sue schiave. Dipinto di Juan Giménez Martin. XIX secolo. Camera dei Deputati, Madrid
Foto: Prisma
I canoni di bellezza romana richiedevano alla donna un incarnato luminoso, roseo e, soprattutto, candido: quest’ultimo era il massimo tratto di distinzione. Il poeta latino Ovidio, autore anche di un piccolo trattato di cosmetica nel quale dava consigli per conservare la bellezza del viso, scrisse nella sua Ars Amatoria: “Saprete anche procurarvi un viso bianco incipriandovi”. Per ottenere questo effetto di candore si utilizzavano diverse sostanze, che si applicavano sul viso come i moderni cosmetici. Nel 2003 alcuni archeologi hanno ritrovato a Londra un barattolino di stagno risalente al II secolo e ben conservato, chiuso ermeticamente. Al suo interno vi era una crema biancastra leggermente granulosa, presumibilmente utilizzata per il make-up.
Le creme per il viso
Il prodotto rinvenuto a Londra conteneva tre ingredienti: lanolina, una sostanza cerosa ottenuta dal grasso della lana, amido e ossido di stagno. La lanolina serviva come base per la miscela; l’amido ammorbidiva la pelle, funzione per cui è tuttora utilizzato nei cosmetici; lo stagno era l’elemento che sbiancava la pelle e iniziò a essere impiegato durante l’età imperiale in sostituzione dell’acetato di piombo, che aveva effetti molto nocivi.
Le fonti rendono noti tanti altri tipi di cosmetici usati dalle donne romane per schiarire il viso. Alcuni autori parlano di una miscela a base di gesso, farina di fave, solfato di calcio e biacca. Si utilizzava poi una base per il trucco preparata con aceto, miele e olio d’oliva, oppure impacchi con radici secche di melone ed escrementi di coccodrillo o storno. Altri ingredienti impiegati come sbiancanti erano la cera d’api, l’acqua di rose, l’olio di mandorle, lo zafferano, il cetriolo, l’aneto, i funghi, il papavero, la radice del giglio e l’uovo. Con lo stesso proposito si diceva che le donne mangiassero cumino in grande quantità. Per dare maggior luminosità alla pelle si utilizzavano inoltre le polveri di mica.
Belletto e rossetto
Le donne romane amavano mettere in risalto gli zigomi colorandoli con toni di rosso acceso, segno di buona salute. A tal fine si applicavano terre rosse, henné o cinabro, anche se esistevano alternative più economiche, come il succo di mora o i fondi di vino. Anche il rossetto era in tonalità di rosso molto vivo; si otteneva con l’ocra proveniente da licheni o da molluschi e perfino con il minio. Inoltre, a detta di Properzio, era molto diffusa tra le donne la moda di marcare con il blu le vene delle tempie.
Secondo l’ideale di bellezza romana, la donna doveva possedere grandi occhi e lunghe ciglia. Con un piccolo strumento arrotondato in avorio, vetro, osso o legno, che veniva prima immerso in olio o in acqua, si applicava l’eye-liner, ottenuto con galena, fuliggine o polvere di antimonio. Per gli ombretti, solitamente neri o azzurri, erano fondamentali la cenere e l’azzurrite. Inoltre, per influenza egizia, esistevano ombretti verdi preparati con polvere di malachite. Le sopracciglia venivano delineate e ritoccate con le pinzette. Curiosamente si preferivano unite sopra il naso, effetto che si otteneva applicando una miscela di uova di formica schiacciate e mosche secche, e che era utilizzata anche per le ciglia come mascara.
Una donna è assistita nella toeletta da quattro schiave. Rilievo. I-III secolo. Museo archeologico di Treviri
Foto: Erich Lessing / Album
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Trucchi e maschere
I cosmetici venivano acquistati nei mercati. Quelli liquidi erano conservati in piccoli recipienti di terracotta, in vasi di vetro verde e azzurro o in piccoli contenitori realizzati con diversi materiali; il collo del recipiente era chiuso in modo che il prodotto di bellezza potesse essere versato goccia a goccia. I cosmetici densi si vendevano invece in piccoli scrigni di legno di fattura egizia, accompagnati da cucchiaini per mescolare, spatole, matite, pennelli o bastoncini per applicare il trucco.
Per truccarsi era indispensabile possedere uno specchio. Questo poteva essere di forma arrotondata, secondo la tradizione etrusca, o quadrata, modello molto diffuso durante l’età imperiale. Tradizionalmente venivano fabbricati in metallo (bronzo, rame, argento e oro) e avevano manici finemente lavorati, sia in metallo sia in osso o avorio. Secondo Plinio il Vecchio, la più importante fabbrica di specchi si trovava a Brindisi, anche se in epoca tarda quelli di vetro finirono per rimpiazzare quelli in metallo.
Le donne romane non si accontentavano di avere una pelle candida; doveva essere perfetta: senza rughe, lentiggini o macchie. A tal scopo, erano solite applicare degli impacchi durante la notte. Esistevano maschere di bellezza contro le macchie a base di finocchio, mirra profumata, petali di rosa, incenso, salgemma e succo d’orzo.
Per combattere le rughe era molto comune utilizzare impacchi di riso e farina di fave; si usava anche il latte d’asina, “è noto che alcune donne vi si curino le gote con sette applicazioni al giorno”, scriveva Plinio il Vecchio. Lo stesso autore parla di un altro sorprendente rimedio contro le rughe: l’astragalo (osso del calcagno) di un vitello bianco, fatto bollire per quaranta giorni e quaranta notti fino a trasformarlo in gelatina da applicare poi con un panno. Per trattare le lentiggini si consigliava invece la cenere di lumache. Per lisciare la pelle si impiegava spesso una maschera a base di rapa silvestre e farina di veccia, orzo, frumento e lupino. Similmente esistevano impacchi per il viso contro l’acne, le lesioni oculari e le ferite labiali.
Poppea Sabina, moglie di Nerone, creò la prima maschera per il viso, detta 'tectorium'. A base di crema e latte d'asina, si applicava prima di andare a letto. XVI secolo. Museée d'art et d'histoire, Ginevra
Foto: Dagli Orti / Art Archive
Il segreto della bellezza
Truccarsi e curare la pelle richiedeva dunque una buona dose di tempo e abilità. Bisognava anche abituarsi a maneggiare prodotti talvolta disgustosi. Per preparare maschere per il viso si utilizzavano ingredienti come escrementi, placenta, midollo, bile e perfino urina, e per questo andavano intensamente profumate. Non è un caso che il poeta Ovidio raccomandasse alle donne di applicare i cosmetici quando erano sole, senza che i loro amanti le vedessero: “Chi non è infastidito dalla puzza del grasso estratto dal vello di pecora sporco inviatoci da Atene? Vi sconsiglio di servirvi, in presenza di testimoni, del midollo del cervo o di lavarvi i denti: queste operazioni aumentano la bellezza, ma sono sgradevoli alla vista. Perché dovrei sapere qual è la causa del candore del vostro viso?”.