Statua dedicata a Keplero nella sua città natale di Weil der Stadt
Foto: Memorino, CC BY-SA 3.0, Pubblico dominio
L’osservazione della volta celeste è un’attività cominciata relativamente presto nella storia umana. In area mesopotamica comparve all’inizio del III millennio a.C., quasi in contemporanea alla scrittura. Già attorno all’VIII secolo a.C. gli astronomi babilonesi erano perfettamente in grado di distinguere i pianeti nel cielo notturno. Ma le difficoltà iniziavano quando si trattava di descrivere e spiegare il movimento di questi pianeti, che per noi oggi è tutto sommato scontato.
Per arrivare a comprendere il funzionamento del sistema solare l’umanità avrebbe avuto bisogno di più di duemila anni – e non sono neanche tanti, se si considera che ci è arrivata osservando il cielo praticamente solo a occhio nudo.
Tavola di Shamash, IX secolo a.C, British Library
Foto: Prioryman - Opera propria, CC BY-SA 4.0, Pubblico dominio
Astronomi rivoluzionari
Tra il cinquecento e l’inizio del seicento si verificò un momento decisivo della storia dell’astronomia, che ebbe enormi conseguenze, e non solo scientifiche: mandò in frantumi l’immagine rassicurante che il Medioevo aveva del cosmo e proiettò gli esseri umani in direzione di un universo infinito, di cui essi non occupavano più il centro.
I tre protagonisti principali di questa rivoluzione furono Niccolò Copernico, che lavorò soprattutto al modello generale, Tycho Brahe, che eseguì delle osservazioni di una precisione senza precedenti, e Johannes Kepler (spesso italianizzato in Keplero), che formulò le leggi capaci di descrivere il movimento dei pianeti. Tre figure a cavallo tra il passato e la contemporaneità, astronomi che erano anche teologi (a eccezione di Brahe), imbevuti di concetti di filosofia pitagorica e neoplatonica che influirono sulle loro teorie ma senza impedirgli di inaugurare un modo nuovo di fare scienza. Ma andiamo con ordine.
Tycho Brahe, Tolomeo, Sant'Agostino, Niccolò Copernico, Galileo e Andrea Cellario circondano Urania, la musa dell'astronomia. Frontespizio del 'Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica', Amsterdam 1660
Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press
E quindi, come si muovono questi pianeti?
Se si hanno disposizione un bel po’ di serate libere per guardare il cielo (e le popolazioni mesopotamiche, a quanto pare, ne avevano parecchie), non è così difficile distinguere i pianeti, per lo meno i cinque visibili a occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Sono generalmente più luminosi – ma non luccicanti – e hanno dei colori caratteristici. Ma soprattutto si muovono in modo particolare, e appunto per questo i greci li chiamarono planetes, che significa “erranti”.
Claudio Tolomeo. Ritratto di Justus Van Gent. XV secolo. Museo del Louvre, Parigi
Foto: White images / Scala, Firenze
I pianeti hanno due tipi di movimenti apparenti. Innanzitutto sorgono e tramontano quotidianamente come tutti gli altri corpi celesti. E poi, notte dopo notte, si spostano rispetto alle altre stelle (che invece mantengono inalterata la loro posizione reciproca e per questo motivo erano definite “fisse” dai greci), muovendosi da ovest a est.
Nell’antica Grecia, che ereditò le conoscenze astronomiche babilonesi ed egizie, si cercava di spiegare questi movimenti a partire da una serie di assunzioni di carattere filosofico che sarebbero rimaste pressoché invariate per molti secoli. Quella principale era il geocentrismo, cioè l’ipotesi che la terra stesse immobile al centro del cosmo; e poi che i pianeti le ruotassero intorno spostandosi su delle sfere invisibili con dei movimenti circolari (perché il cerchio era la figura perfetta), regolari e uniformi (cioè sempre nella stessa direzione e alla stessa velocità).
La Terra al centro del cosmo (Andreas Cellarius, 'Harmonia macrocosmica', 1660/61)
Foto: Pubblico dominio
Il grande problema dei pianeti che vanno all’indietro
Ma c’era un grosso problema. Già gli astronomi antichi avevano notato che, nel corso del loro spostamento rispetto alle stelle fisse, i pianeti periodicamente sembravano fermarsi e invertire il loro senso di marcia, diventando anche più luminosi, come se si avvicinassero alla Terra. Provare a spiegare questa irregolarità fu il grande rompicapo dell’astronomia premoderna.
La principale soluzione proposta, che fu sistematizzata nella forma più completa da Tolomeo, un astronomo egiziano vissuto nel II secolo d.C., fu la teoria “degli epicicli”. Con una certa semplificazione, dice più o meno così: ogni pianeta ruota in modo circolare, regolare e uniforme intorno un punto, il quale a sua volta ruota in modo circolare, regolare e uniforme intorno alla Terra.
Una rappresentazione della teoria degli epicicli
Foto: qph.fs.quoracdn.net
Come mostrato nella figura qui sopra, il movimento circolare più piccolo (che era detto appunto epiciclo, mentre quello più grande si chiamava deferente) permetteva di spiegare perché ogni tanto i pianeti fossero più vicini alla Terra e in quella fase la direzione del loro moto sembrasse invertirsi. Oggi, sapendo che il complesso sistema tolemaico è sbagliato, c’è quasi da meravigliarsi che fosse in grado di fornire dei calcoli e delle previsioni del moto dei pianeti abbastanza buoni, quanto meno per adeguarsi alle imprecise osservazioni dell’epoca.
Una rivoluzione copernicana
Il vero problema era che il modello tolemaico era una soluzione di tipo geometrico-matematico, ma non spiegava davvero la causa del movimento dei pianeti: perché, per esempio, avrebbero dovuto percorrere delle piccole orbite attorno a un punto immaginario?
All’inizio del cinquecento Copernico propose un nuovo modello “eliocentrico” (cioè con il sole al centro dell’universo), che semplificava molto la spiegazione dei movimenti planetari ed eliminava l’oscura faccenda degli epicicli. A patto però di considerare la Terra un pianeta come tutti gli altri. Nella teoria copernicana tutti i pianeti, Terra inclusa, ruotano sul proprio asse e allo stesso tempo si muovono attorno al sole, su orbite diverse e a velocità diverse. Quando un pianeta più interno “sorpassa” uno che sta al suo esterno, lo vedrà andare indietro rispetto alle stelle fisse. I movimenti “retrogradi” dei corpi celesti che osserviamo dalla Terra sono insomma apparenti, come anche il sorgere e il tramontare del sole, che dipendono in realtà dalla rotazione quotidiana della Terra.
Nell’immagine si vede come cambia il movimento apparente di un pianeta (in rosso) rispetto alle stelle fisse (sullo sfondo) quando la Terra (in blu) lo “sorpassa”
Foto: Brian Brondel, CC BY-SA 3.0, Pubblico dominio
Copernico mise così in discussione uno degli assunti fondamentali del mondo antico e medievale: quello della centralità della Terra. Non si staccò però dall’idea che i movimenti dei pianeti dovessero essere perfettamente circolari e uniformi. Un compito che invece si sarebbe assunto Johannes Kepler all’incirca un secolo più tardi.
L’era dell’osservazione
Ciò che avvenne in quel secolo, e che segna un’altra tappa fondamentale della nascita della scienza moderna, è che si fecero moltissime osservazioni e si raccolsero una grande quantità di dati. Da questi emergeva che, per quanto più semplice, neppure la teoria di Copernico descriveva correttamente i movimenti dei pianeti.
Ritratto di Tycho Brahe (1546-1601), 1879. Collezione privata
Foto: © Fine Art Images/Heritage
Chi più di ogni altro si spese nel campo delle osservazioni celesti fu l’astronomo danese Tycho Brache, che si fece costruire dal re Federico II di Danimarca una specie di palazzo-osservatorio tutto per lui, su un’isola. Qui poté condurre un programma di ricerca di altissimo livello, con un budget stratosferico per l’epoca e degli strumenti innovativi e di grande precisione. Nel 1599 offrì a Kepler un posto di assistente e gli affidò il problema di determinare l’orbita di Marte. A questo scopo gli mise a disposizione una quantità impressionante di dati, che non potevano essere spiegati né con la teoria degli epicicli né con la nuova teoria di Copernico.
Non è per nulla facile ricostruire quale sia l’orbita di un pianeta attorno al sole se lo osservi anche tu da un pianeta in orbita attorno al sole, ma Keplero prese la sfida molto sul serio. Passò dieci anni a studiare i dati di Brahe e a fare complessi calcoli trigonometrici. Poi pubblicò i risultati nel 1609, in un libro intitolato Astronomia nova. Erano sconvolgenti.
Johannes Kepler (italianizzato Giovanni Keplero) nel 1620
Foto: Pubblico dominio
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La fine del cosmo antico
Riassumibili nelle prime due leggi che portano il suo nome, quei risultati smantellavano definitivamente ciò che restava dell’astronomia antica. Keplero scoprì infatti che i pianeti non ruotano intorno al sole in modo circolare, ma disegnando un’ellissi, di cui il sole occupa uno dei due fuochi (prima legge); e che il loro movimento non è uniforme, ma subisce un’accelerazione quando sono più vicini al sole (seconda legge). La terza legge sarebbe arrivata dieci anni più tardi, determinando la relazione matematica che intercorre tra la distanza del pianeta dal sole e il suo tempo di rivoluzione (più i pianeti sono lontani dal sole, meno velocemente gli orbitano attorno).
Le leggi di Keplero restano una descrizione matematica fondamentalmente corretta, applicabile (a certe condizioni) a qualunque corpo orbitante intorno a un altro. Non sono infatti state smentite dalla successiva legge della gravitazione universale di Newton, e anzi lo stesso Newton dimostrò che sono perfettamente deducibili da questa.
Ma il contributo di Keplero andò anche oltre. L’astronomo tedesco riteneva infatti fondamentale interrogarsi su quali fossero le forze che determinavano il movimento di pianeti. E arrivò a ipotizzare che il sole, ruotando su se stesso, trascinasse con sé gli altri corpi celesti nel movimento rotatorio; e che questa forza fosse controbilanciata da una sorta di attrazione/repulsione magnetica esercitata dai pianeti sul sole, che spiegava l’eccentricità delle loro orbite.
Anche se le sue ipotesi non erano corrette, mettevano in luce una nuova concezione dell’astronomia, che non doveva più limitarsi a descrivere matematicamente i fenomeni, ma spiegarli in base alle forze fisiche che li determinano. Proprio come avrebbe fatto Newton un’ottantina d’anni più tardi, con l’unificazione delle tre leggi di Keplero in unico principio dinamico di attrazione universale.
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