
Joe Petrosino. Fotografia del New York City Police Department
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«Gli Stati Uniti sono diventati lo scarico dei rifiuti di tutta la criminalità e il banditismo italiani, in particolare della Sicilia e della Calabria […] Sono venuti qui, e adesso vivono prosperosamente di estorsioni, rapine, traffici illeciti di ogni sorta». Sono parole trancianti, senza sconti ma frutto dell’esperienza di un poliziotto che conosce bene i propri connazionali. Sono parte integrante del rapporto che nelle prime settimane del 1906 il detective Joe Petrosino, capo dell’Italian Branch, la “squadra italiana” di agenti incaricati di sgominare l’organizzazione della Mano Nera dedita a un racket generalizzato, consegnò nelle mani del direttore del Dipartimento di polizia di New York, Theodore Bingham.
In quegli anni gli immigrati italiani affollavano il quartiere della Little Italy e a causa delle loro condizioni e modi di vita erano oggetto d’invettive di natura razzista. Petrosino però non generalizza: «Per quanto riguarda la parte onesta della popolazione italiana, si dovrebbe fare opera educativa affinché comprenda che qui le leggi sono uguali per tutti». Il tenente italo-americano dallo sguardo torvo e dal piglio aggressivo si rivolge agli «abitanti della mia patria d’origine» che «non hanno diritti costituzionali come i nostri e hanno sempre paura delle autorità costituite» e «non sanno fare un uso corretto della libertà che trovano qui». La libertà “a stelle e strisce” Petrosino l’aveva abbracciata trentatré anni prima. Era l’estate del 1873 quando, dopo una traversata di venticinque giorni a bordo di un bastimento sbarcò a New York insieme a tutta la sua famiglia.
From Padula to New York
«Partono ’e bastimente / pe’ terre assai luntane / Cantano a buordo: so’ napulitane…». (Partono i bastimenti / per terre assai lontane / Cantano a bordo: sono napoletani…). Su una di quelle navi della speranza descritte dal compositore partenopeo E. A. Mario (pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta) nella canzone Santa Lucia luntana (1919), s’imbarcarono nell’estate del 1873 il sarto Prospero Petrosino, sua moglie Maria Giuseppa Arato e i loro tre figli. Giuseppe, il primogenito, era nato il 30 agosto del 1860. A Padula, un piccolo centro della valle del Diano in provincia di Salerno, i coniugi conducevano una vita umile ma dignitosa ed erano riusciti a dare ai propri figli un’istruzione. Ma la mancanza di più rosee aspettative spinse la famiglia a partire, destinazione New York. Erano gli anni che precedevano la prima ondata migratoria dell’Italia contemporanea, la cosiddetta “grande emigrazione” (1880-1930).

Prospero, il padre di Giuseppe "Joe" Petrosino
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Nel 1873 avevano varcato le frontiere circa 140mila italiani, ma le cifre erano destinate a impennarsi fino a circa 17 milioni di emigrati in un cinquantennio. I meridionali scelsero in massa gli Stati Uniti d’America e per molti si trattò di «una partenza definitiva, tagliare i ponti col passato e costruire un avvenire per sé e per i propri figli», scrive la storica Andreina De Clementi. A New York il tredicenne Giuseppe “detto Joe” si diede da fare prima come giornalaio e lustrascarpe, poi a diciotto anni fu assunto alle dipendenze del comune come netturbino. Poco prima era riuscito a ottenere la cittadinanza americana. «Il giovanotto non restò a lungo con la ramazza in pugno. Era sveglio, capace e, cosa molto importante, parlava l’inglese. Un anno dopo era già promosso foreman, caposquadra», scriveva di lui lo storico e giornalista Arrigo Petacco.
Da informatore a detective
A New York i netturbini erano alle dipendenze del Dipartimento di polizia. Il capo di Joe era l’ispettore Aleck Williams, cui serviva un “confidente” per penetrare nel quartiere italiano dove la gente viveva in condizioni disumane e i tassi di criminalità erano altissimi. Petrosino era in grado di comprendere ed esprimersi nelle varianti dialettali italiane parlate a New York e fu forse quest’abilità a valergli la divisa di poliziotto che indossò a partire dal 19 ottobre 1883. Il suo distintivo recava il numero 285. L’esordio di Petrosino non fu però dei migliori e, come ricorda Petacco, anche per via della sua figura bassa e tozza «i suoi connazionali lo derisero. Molti lanciavano al suo passaggio motteggi e insulti. Cominciarono a fiorire curiosi giochi di parole basati sul suo curioso cognome che, in diversi dialetti meridionali, significava prezzemolo». Dopo un primo periodo in cui fu impiegato di pattuglia, Joe fu trasferito all’ufficio investigativo e nel 1895 fu innalzato al grado di sergente-detective: avrebbe dovuto fronteggiare la malavita italiana. Torme di poveri, sporchi e disperati provenienti soprattutto dalle regioni meridionali d’Italia venivano scaricate dai bastimenti al porto di New York. La gran parte era desiderosa di un lavoro onesto e stabile, ma tra di loro si nascondevano autentici malviventi sulle cui teste pendevano in Italia sentenze di condanna per reati più o meno gravi.
Bastava un passaporto falso, ottenuto tramite un’oleata rete di connivenze, a consentirgli di lasciarsi alle spalle il fosco passato e ricominciare a vivere con la fedina penale immacolata. Molti si ricongiunsero ai loro “compari” fuoriusciti con le prime ondate migratorie, dando vita a reti criminali strutturate. Petrosino capì subito che non si trattava di delinquenza comune e avrebbe avuto modo di dimostrarlo quando, a partire dal 1903, si trovò a fronteggiare la famigerata Mano Nera, un'organizzazione che praticava estorsioni all'interno delle comunità italiane nelle città statunitensi all'inizio del XX secolo. Il detective italo-americano puntava tutto sul fattore sorpresa ed era un esperto di travestimenti: «L’armadio di casa sua era più fornito del guardaroba di un teatro. Era capace di travestirsi da sterratore siciliano per andare a lavorare per settimane nei tunnel di Manhattan o lungo le strade ferrate. Quando tornava alla Centrale aveva le mani coperte di calli e il taccuino pieno d’informazioni», annota Petacco. Quando poi era sicuro di riuscire ad acciuffare un malavitoso, Petrosino concedeva ai reporter il privilegio di assistere all’arresto. Così si guadagnò il favore della stampa che contribuì a forgiarne il mito: «È rozzo e sembra piuttosto tardo di comprendonio. Il suo volto è inespressivo e potrebbe attraversare la folla senza attrarre l’attenzione dei passanti. Ma proprio qui sta la forza del detective […] più di un ladro e di un assassino hanno scoperto a proprie spese quanto rapida sia la sua mente e svelto il suo braccio».
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Truffatori, omicidi, anarchici
La fama di Petrosino, ormai considerato un «esperto di cose italiane», crebbe all’indomani dell’omicidio del capo della polizia di New Orleans, l’irlandese David Hennessy, avvenuta nel 1890. Il poliziotto ucciso era stato un cacciatore di taglie del selvaggio West. Risoluto, scorretto e brutale, riuscì a farsi eleggere capo della polizia. Interpellato sul caso, Petrosino invitò i colleghi a indagare sui precedenti della vittima, perché lì si annidavano le ragioni dei crimini. Dalle indagini emerse infatti che Hennessy era colluso con la famiglia italo-americana dei Provenzano che contendeva il controllo del territorio a quella dei Matranga, anch’essa di origini siciliane. Al processo per la morte del poliziotto la maggior parte degli accusati fu assolta. Alla comunità di New Orleans non interessò il fatto che il capo della polizia era in qualche modo legato a famiglie criminali. Il risentimento generale per la sua morte sfociò in uno dei linciaggi più brutali ai danni di italiani nella storia degli Stati Uniti d’America.

Un giovane Joe Petrosino in divisa
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Nel 1898 Petrosino riuscì a salvare dalla condanna a morte sulla sedia elettrica il venticinquenne Angelo Carboni. La notte del 18 luglio nei pressi del caffè Trinacria a Little Italy c’era stata una zuffa tra Carboni e il quarantaduenne Natale Brogno, che aveva avuto la peggio. Come raccontò il presunto assalitore accusato di omicidio: «Facevamo a pugni nel buio quando ad un tratto Brogno m’è caduto davanti e non s’è più mosso. Io mi sono chinato su di lui per rialzarlo e gli ho trovato un coltello ficcato nella schiena. Per questo mi avete trovato col coltello in mano…». Carboni si proclamava innocente, ma ciò non gli evitò la sentenza di condanna a morte. Raccolte dalla strada testimonianze sull’innocenza di Carboni ed esaminati i precedenti della vittima, Petrosino giunse a indagare sul sessantaduenne Salvatore Ceramello, che La sera dell’omicidio si trovava al Trinacria e da quel momento si era reso irreperibile.
Col proposito d’interrogarlo Petrosino lo inseguì per mezza America e in Canada; lo scovò infine in una casa alla periferia di Baltimora. Travestendosi da funzionario del servizio sanitario alla ricerca di un caso di vaiolo, Petrosino ebbe accesso all’abitazione di una coppia dove trovò un altro uomo che diceva di chiamarsi Fiani. «Invece vi chiamate Ceramello», lo incalzò Petrosino con la pistola in pugno. Arrestato, dopo qualche giorno il fuggiasco confessò l’omicidio e fu giustiziato al posto dell’innocente Carboni. Negli anni successivi Petrosino sgominò due bande di malviventi italo-americani. Gli “avvelenatori” riuscivano a scoprire nomi e luoghi di origine delle vittime, le avvicinavano con cordialità offrendogli del vino in cui avevano mescolato del sonnifero e indisturbati le derubavano. Toccò poi alla “banda degli assicuratori”: truffatori che convincevano i loro connazionali a sottoscrivere false polizze a credito sulla vita. Furono centinaia i malviventi assicurati alla giustizia.

Striscia tratta dal volume 'La mano nera', di Onofrio Catacchio (2020), gentilmente concessa da Bonelli editore
© Bonelli Editore
Il 14 settembre 1901 il presidente degli Stati Uniti William McKinley fu assassinato a colpi di rivoltella da Leon Czolgosz, un giovane polacco trovato in possesso di un ritaglio di giornale sull’omicidio del re Umberto I di Savoia a opera dell’anarchico italiano Gaetano Bresci. Nell’occasione Petrosino rese pubblici i risultati di un’indagine svolta qualche tempo prima per conto del vicepresidente Theodore Roosevelt sulla comunità anarchica di Paterson nel New Jersey: «Io glielo avevo detto! Gli avevo detto che i malfattori anarchici volevano ucciderlo». Il legame tra Czolgosz e Bresci non fu mai provato, ma Petrosino divenne per la stampa «il detective italiano che aveva cercato di salvare McKinley».
Per saperne di più
Testi
Arrigo Petacco, Joe Petrosino, Mondadori 1972
Autori Vari, Verso L’America. L’emigrazione italiana e gli Stati Uniti, Donzelli 2005
Anna Maria Corradini, L’omicidio di Joe Petrosino, Bonanno Editore 2013
John Dickie, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza 2007
Il fumetto
Onofrio Catacchio, La mano nera. New York, Petrosino indaga, Sergio Bonelli Editore 2020
Il film
Joe Petrosino. Lo sceneggiato (1972, regia di Daniele D’Anza)