L'autore Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz
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Il 4 aprile 1928, sei mesi prima di morire a seguito di un incidente d’auto, Italo Svevo scrisse nella pagina iniziale di Confessioni del vegliardo, romanzo rimasto incompiuto nonché prosieguo del celeberrimo La coscienza di Zeno (1923): «L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera».
Al di là della profetica riflessione circa l’attuale proliferare di romanzieri dalla vena autobiografica, quanto Svevo voleva sottolineare era la necessità della letteratura quale strumento di analisi, conoscenza, comprensione di sé. Per tornare a vivere il passato, dargli una nuova veste, riscoprire emozioni già trascorse, forse in una luce diversa. La letteratura si oppone quindi alla «vita orrida vera», che tutto ingloba nel suo essere arida, violenta, feroce, prosaica.
Italo Svevo lo sapeva più di ogni altro, perché a lei si era consegnato per molti anni, prima che giungesse la fama per La coscienza di Zeno. In lui tale contrapposizione doveva probabilmente risuonare con particolare forza e drammaticità, giacché la maggior parte della sua esistenza fu consacrata al mondo dell’industria e del commercio, ossia a un ambito del tutto estraneo alle avanguardie polemiche ed esibizioniste dell’epoca, o alle figure di vati estetizzanti.
Lo scrittore con la moglie Livia e la figlia Letizia (1912 circa)
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Un letterato
Nato il 19 dicembre 1861 da padre austriaco e madre italiana, Ettore Schmitz – questo il vero nome dell’autore, che scelse lo pseudonimo di Italo Svevo per rimarcare le origini e le influenze sia italiane sia “sveve”, ovvero tedesche – visse perlopiù a Trieste, città cosmopolita, multireligiosa e multietnica, che allora si trovava ancora sotto l’impero austroungarico e che svolse un ruolo fondamentale nella circolazione della cultura mitteleuropea, facendo approdare nella ben più arretrata Italia il pensiero di grandi filosofi e scienziati, da Nietzsche a Schopenhauer a Freud.
Seguendo le orme paterne, il giovane Schmitz si dedicò agli studi commerciali e, benché con il fratello Elio coltivasse interessi musicali e letterari, a diciannove anni s’impiegò in banca per far fronte a un crollo finanziario del padre. All’uscita dal lavoro frequentava la vivace vita culturale triestina e, trentenne, tentò il successo con un primo romanzo, Una vita (1892), che stampò a proprie spese.
Nello stesso anno morì il padre e conobbe la futura moglie, la cugina Livia, figlia dell’industriale Gioachino Veneziani, direttore di una fabbrica di vernici per sottomarini. Nell’azienda di famiglia il genero inizierà a lavorare pochi anni dopo, nel 1899. L’anno prima Schmitz, che già aveva preso a firmarsi come Italo Svevo, provò nuovamente a farsi strada con un secondo romanzo, Senilità, accolto in maniera piuttosto fredda da pubblico e critica.
Deluso, rassegnato alla vita della grande borghesia affaristica, Svevo smise di scrivere. Anzi, si spinse a definire la letteratura come «ridicola e dannosa». Non perse, però, la curiosità intellettuale: nel ventennio di silenzio artistico che sarebbe seguito, ebbe modo di conoscere James Joyce, suo insegnante d’inglese, e di avvicinarsi alle teorie freudiane, verso le quali prima si appassionò e poi mostrò un certo scetticismo. Teorie presenti, con ironiche sfumature, anche in quello che sarà il suo capolavoro, La coscienza di Zeno.
Italo Svevo con la bozza preliminare di 'Una vita' (1892)
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Svevo, Zeno e gli altri
Quest’ultimo fu dato alle stampe nel 1923. In Italia Svevo dovette affrontare l’ennesima frustrazione, e commentò che i suoi romanzi erano come «un pezzo d’aglio nella cucina di persone che non possono soffrirlo». Tuttavia Joyce ci mise lo zampino e, riconosciuto l’immenso valore dell’opera, nel 1925 la portò all’attenzione di due critici francesi, Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux. Dalla Francia l’interesse penetrò man mano anche in Italia, dove Eugenio Montale riconobbe la grandezza di Svevo e paragonò il protagonista Zeno a un moderno Ulisse, nonché a uno Charlot triestino. Era lo stesso Montale che aveva già conosciuto Svevo anni prima, affermando poi che «un sentore di trementina [Svevo lavorava nel settore delle vernici] restò nei nostri rapporti». Nasceva il “caso Svevo”. Quell’autore che si era sempre tenuto ai margini della vita letteraria poté finalmente vedere riconosciuto, almeno in parte, il proprio talento, poi rivalutato del tutto solo negli anni sessanta, quando La coscienza di Zeno s’impose quale opera fondamentale della nostra letteratura.
Cartolina di Trieste datata 25 gennaio 1908
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«L’occhialuto uomo» nella modernità
Senza voler entrare nell’analisi critica di quello che è considerato il primo romanzo d’avanguardia italiano, un testo raffinato, ironico e complesso, un autentico capolavoro dal respiro europeo, preme però sottolineare il contesto storico e politico in cui nacque. Innanzitutto, a cavallo tra XIX e XX secolo l’uomo aveva contemplato lo sgretolarsi di ogni certezza in seguito ai colpi inferti dalla psicanalisi, dalla fisica e dalla filosofia. Coscienza, spazio e tempo: Freud, Einstein, Bergson, tra gli altri, avevano sottolineato la relatività delle conoscenze e dell’identità. I ritmi alienanti del lavoro, l’emergere della società di massa, la burocratizzazione avevano minato la consapevolezza individuale e sociale. La modernità aveva sì infiammato gli animi, per poi mostrare il suo lato più terrificante durante il conflitto mondiale. Svevo scrisse proprio in tale temperie e all’indomani della Grande guerra, scontro di biplani, carri armati, bombe e gas chimici.
Zeno Cosini, il protagonista della Coscienza, è frutto della sua epoca: borghese nevrotico, inetto, disadattato, si affida al dottor S., ossia alla psicanalisi, per curarsi, pur non credendoci del tutto. E ripercorre la propria vita, la “letteraturizza”, per mostrare con compiaciuta ironia la sua «malattia dell’anima», la nevrosi. Chi non ricorda la famosa lotta con le sigarette, lo schiaffo del padre, la bizzarra scelta della moglie Augusta, il tremendo lapsus nel giorno del funerale del cognato Guido?
Zeno è un personaggio complesso, che si mette a nudo, che sembra non aver compreso la psicanalisi mentre è consapevole di ogni meccanismo da lui messo in atto per distorcere la realtà. Zeno rivendica la malattia in un mondo di “sani” perché, sostiene il critico Romano Luperini, «solo rinunciando al tentativo di capire e controllare la “vita orrida vera” possiamo raggiungere con questa un compromesso che la renda sopportabile».
Di più: Zeno si sente guarire proprio durante la Prima guerra mondiale. Come? Grazie al commercio, alle fraudolente speculazioni che mette in atto nella terribile calamità. Zeno è quindi un avido approfittatore, lucidamente cosciente di un’altra nevrosi, quella che ha colpito l’umanità moderna. Dopo aver affermato: «Io sono guarito!» (pur non essendolo, in realtà), ecco che si lancia in una delle più belle e intense riflessioni mai svolte sul genere umano e su quel periodo, riflessioni che sono ancora di una cocente e disperata attualità.
Secondo Zeno/Svevo, l’«occhialuto uomo» che «inventa gli ordigni» ha scavalcato qualsiasi forma di progresso e selezione naturale: più diventa furbo, più è debole, e «sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati». Il progresso tecnologico non ha fatto altro che incentivare la catastrofe. E, quindi, conclude, solo una sarà l’amara soluzione, ancora una volta profetica: «Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».
Fanteria australiana con le maschere a gas. Ypres, 1917
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