«Non sopporto quando le persone mi chiamano eroina. Non sono un'eroina». In una delle pochissime interviste rilasciate quando era ancora in vita, Irena Sendler ripercorse la storia che la rese nota come “l’angelo del ghetto di Varsavia". Testimone del “puro inferno” che infiammò il cuore dell’Europa durante il secondo conflitto mondiale, scelse di “dichiarare guerra a Hitler” salvando 2500 bambini dallo sterminio del campo di concentramento. «Ognuno di questi è la giustificazione della mia esistenza su questa terra - affermò - e non un titolo di gloria». Nonostante la minaccia nazista, fece una scelta controcorrente: di fronte alla morte, aiutò la vita a non fermarsi, a superare il filo spinato e trovare una chance dove molti non la ebbero.

Irena Sendler nel 1942, all'età di 32 anni
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Nata per prendersi cura
Irena Sendler (all’anagrafe il suo cognome era Krzyżanowska) nacque il 15 febbraio 1910 a Varsavia. Suo padre era il dottor Stanislaw Krzyżanowski, membro del partito socialista polacco, che sosteneva diritti civili e uguaglianza per le minoranze. Tra queste rientrava la comunità ebraica, a cui il padre offriva cure gratuite destinate alle persone in difficoltà economica. Nel 1917 l’uomo morì di tifo, contratto cercando di curare pazienti infetti durante una durissima epidemia. La comunità ebraica locale si offrì di pagare le spese del funerale e di sostenere l’educazione dei figli. Irena ebbe l’opportunità di studiare e d’iscriversi all’università, dove per la prima volta si scontrò con i dettami nazisti.
Nel 1937 le università polacche iniziarono ad adottare le “ghetto bench laws”, che imponevano agli studenti ebrei di sedersi su panche di legno in fondo alla classe o di restare in piedi, addossati al muro. Irena prese posizione: prima si sedette con loro, poi si unì all’Unione studentesca democratica e partecipò attivamente alle proteste pubbliche contro le persecuzioni razziali. L’audacia le costò una sospensione accademica lunga tre anni. Riuscì a laurearsi nel 1939 e trovò lavoro nel dipartimento dei servizi sociali della città di Varsavia.

Manifesto nazista in tedesco e polacco, che minacciava di morte i polacchi che avessero aiutato gli ebrei
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Oltre la porta dell'inferno
Nel settembre dello stesso anno le truppe naziste e russe invasero la Polonia portando il governo al collasso. Sotto il controllo degli invasori, nel 1940 prese forma l’agghiacciante piano di pulizia etnica che porterà prima alla segregazione delle minoranze e poi alla costruzione di un enorme ghetto a Varsavia, dove vennero deportati oltre 450 mila ebrei. All'età di trent’anni Irena iniziò a lavorare come assistente sociale e sanitaria per il dipartimento di controllo delle malattie infettive. «La prima volta che sono entrata nel ghetto - raccontò - sono rimasta sotto shock. Gli spazi erano sovraffollati, il cibo razionato e insufficiente, i soldati tedeschi erano crudeli». Le pessime condizioni igieniche e la fame portarono presto malattie e morte per migliaia di persone.
Nel 1942 Irena aderì a Żegota, un’organizzazione segreta nata per aiutare gli ebrei e offrire supporto alla resistenza. Il suo nome in codice era Jolanta, il suo scopo proteggere i bambini che ogni giorno incontrava oltre la cinta del ghetto. Lo stesso anno i vertici nazisti adottarono la “soluzione finale”, che impose la deportazione delle famiglie ebree nel campo di sterminio di Treblinka. Non c’era più tempo: affiancata da quattro collaboratori, Irena iniziò a trasportare clandestinamente i bambini fuori dal ghetto. Falsificò i documenti per assegnare nomi polacchi e un’identità fittizia ai piccoli salvati, che fuori dal ghetto vennero affidati ad una rete di soccorso costruita da famiglie vicine alla resistenza e a gruppi cattolici.

Bambini ebrei nel ghetto di Varsavia
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Identità di carta
Eludere la sorveglianza e i sospetti dei soldati nazisti era tutt’altro che semplice, ma Irena non demorse. I piccoli venivano nascosti sotto le barelle, fatti sgattaiolare attraverso passaggi sotterranei e fognature, nascosti in valigie, sacchi di iuta, tra i cadaveri da inviare alla sepoltura. Tra gli alleati c’era anche un cane, addestrato a latrare in presenza dei soldati per coprire il pianto dei bambini durante le fasi più delicate del trasferimento. Così facendo, vennero portati in salvo circa 2500 bambini, con la promessa di riconsegnarli alle rispettive famiglie appena tutto fosse finito. A questo scopo Irena annotò su fazzoletti di carta i nomi di battesimo dei piccoli, abbinandoli a quelli falsi. Gli elenchi vennero nascosti in bottiglie di vetro e vasetti di marmellata e sepolti nel giardino dell’attivista Jadwiga Piotrowska, amica di Irena.
La manovra funzionò, ma non passò inosservata. Nell’ottobre 1943 Irena venne scoperta: la Gestapo fece irruzione nella sua casa e setacciò le stanze da cima a fondo, senza trovare prove. Nonostante ciò venne arrestata, interrogata e torturata senza sosta per estorcerle nomi e informazioni. Le fratturarono gambe e piedi, senza ottenere alcuna confessione. Sulla sua testa c’era una sentenza di morte: nel giorno della sua fucilazione, venne però liberata dal soldato che avrebbe dovuto ucciderla, corrotto dall’associazione Zegota. Irena visse in segreto fino alla fine della guerra. La liberazione consentì alla donna di recuperare i registri contenenti tutti i nomi dei bambini salvati, per accompagnarli tra le braccia di mamme e papà. Riuscì a rintracciare meno di duemila famiglie: la maggior parte dei genitori era morta nei campi di sterminio.

Sendler, nella sua uniforme da infermiera, fotografata alla vigilia di Natale del 1944
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Come gocce nel mare
«Ho solo fatto ciò che avrebbe fatto ogni persona con una dignità. I bambini, i genitori e i nonni erano i veri eroi». Anche a distanza di decenni Irena non smise di considerare la propria missione un atto di coraggio necessario, generato da quella stessa umanità che l’accomunò alle tante persone salvate. La sua storia divenne nota solo nel 1965 e riconosciuta trent’anni più tardi con la medaglia di "Giusto fra le nazioni", la più alta onorificenza assegnata dall’Ente nazionale per la memoria della Shoah in Israele. Nel 2007 fu candidata al Nobel per la Pace e lo stesso anno il governo polacco la proclamò eroe nazionale, con voto unanime del senato.
Irena morì a Varsavia il 12 maggio 2008, all’età di novantotto anni. Lasciò due figli, Adam e Janka, ma per circa duemila persone rimase la “mamma” del ghetto di Varsavia. «Avrei potuto fare di più - era solita ripetere. - Questo rimpianto non mi lascia mai». Come suo padre, considerava la solidarietà un gesto naturale, che trovava senso nell’aiutare chi ne aveva bisogno. Per dirla con parole sue: «Noi siamo miliardi di gocce: uniamoci, e saremo mare».
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