«Quando in alto il Cielo non aveva ancora un nome / e la Terra, in basso, non era ancora stata chiamata con il suo nome, / nulla esisteva eccetto Apsu, l’antico, il loro creatore, / e Tiamat, la madre di loro tutti». Con questi versi inizia il poema babilonese della creazione, l’Enuma Elish, che rivela la complessa concezione cosmologica dei popoli della Mesopotamia. Secondo quest’opera, all’inizio dei tempi esisteva solamente un insieme caotico di acque formato dal dio Apsu, le acque dolci, e dalla dea Tiamat, le acque salate. Dall’unione di queste due divinità ebbero origine due gemelli, Lahmu e Lahamu, che a loro volta generarono il Cielo, il dio Anshar, e la Terra, la dea Kishar. Da questi ultimi poi si originò il resto del pantheon mesopotamico.
Tale genealogia presenta in forma di mito una precisa realtà geografica: quella della Mesopotamia, dove le acque dolci, Apsu, sono il Tigri e l’Eufrate, e le acque salate, Tiamat, sono quelle del Golfo persico. L’unione delle due divinità nel mito corrisponde al luogo in cui i due fiumi sfociano nel Golfo persico; lì si registrava il forte scontro delle correnti, dalla cui schiuma ed energia sarebbero sorti gli dei. Il racconto mitologico dimostra l’enorme importanza che sin dall’inizio le civiltà mesopotamiche attribuirono ai due fiumi.
La Carta babilonese del mondo: l’anello circolare rappresenta l’Oceano, il rettangolo nel cerchio è Babilonia e le due linee dovrebbero raffigurare l’Eufrate. 700-500 a.C. British Museum, Londra
Foto: E. Lessing / Album
Correnti distruttrici
Sono stati spesso rilevati dei punti di contatto tra questo mito e il passo della Genesi biblica in cui si racconta che Dio separò le acque poste sopra il firmamento da quelle che si trovavano sotto di esso. Notevoli parallelismi si possono poi osservare anche nei miti egizi della creazione, in cui la piena del Nilo è descritta come il caos acqueo primordiale da cui emersero le diverse divinità creatrici. Tuttavia esisteva una differenza fondamentale tra il Nilo e i due grandi fiumi mesopotamici. Il primo infatti scorreva in un letto ben delimitato che esondava solamente a causa delle piene annuali, rendendo molto fertili i campi. Poi rientrava nel suo alveo naturale.
Un comportamento che non si riscontrava affatto nel caso del Tigri, chiamato Idigna in sumero e Idiqlat in accadico (“il fiume rapido”), e dell’Eufrate, denominato Buranunu in sumero e Purattu in accadico (“il grande fiume”). Nel loro basso corso infatti scompariva qualsiasi traccia di un letto naturale definito, e le loro correnti solcavano una terra argillosa senza alcun argine che ne delimitasse il corso. Visto che non esistevano barriere naturali che contenessero il flusso delle loro acque, le piene poi non trovavano alcun ostacolo e allagavano immense distese di terra. Poiché al momento della piena il volume dell’Eufrate poteva aumentare anche di cinque volte, non è difficile immaginare le conseguenze terribili delle inondazioni in paesi e città costruiti con fango e canne.
La piena dei fiumi ne modificava il corso e allagava aree immense
Se è vero che il Tigri e l’Eufrate erano una potenziale causa di morte, è vero anche che costituivano una fonte di vita per coloro che risiedevano lungo le loro rive. Infatti, a causa delle alte temperature e delle piogge scarse, le aree dell’antica Mesopotamia distanti dai fiumi erano totalmente inabitabili.
Soldati elamiti si nascondono tra i canneti del Tigri dopo la sconfitta contro gli assiri. Rilievo dal palazzo di Assurbanipal a Ninive (Iraq). VII secolo a.C. British Museum, Londra
Foto: E. Lessing / Album
L’addomesticamento delle acque
Nelle zone popolate, per evitare il pericolo delle piene e per dare riparo e alimentazione a una popolazione sempre più numerosa, era assolutamente necessario riuscire a controllare il corso dei due fiumi. La soluzione arrivò intorno al VI millennio a.C., con l’invenzione dei canali d’irrigazione che permise anche di far arrivare l’acqua dolce in territori sempre più lontani dai letti dei fiumi. In questo modo, la superficie fertile aumentò fino a raggiungere i 45mila chilometri quadrati, e le zone soggette ad allagamento si allontanarono da centri abitati e terre coltivate. Occorre rilevare che, come testimoniano i loro nomi antichi, l’Eufrate aveva rispetto al Tigri una corrente più lenta e di minor volume; oltre ad apportare sedimenti di qualità migliore, risultava quindi anche più controllabile.
Il controllo delle acque del Tigri e dell’Eufrate permise e favorì la nascita delle prime città della storia. Ebbe riflessi in tutti gli ambiti della vita, dalla struttura sociale ed economica fino allo sviluppo della tecnica, alla codificazione delle leggi e ai rapporti tra città, stati e imperi, che non smisero di lottare fra loro il controllo della regione.
Nel mondo mesopotamico il possesso della terra determinava la posizione sociale di ciascun individuo. Si riteneva che in origine le terre appartenessero a un dio, che ne aveva delegato il dominio al re. Questi, a sua volta, le poteva donare a chi ne ritenesse degno. In questo modo, la maggior parte dei terreni si concentrò nelle mani di pochi, che detenevano di fatto anche la ricchezza e il potere. La maggior parte dei contadini invece lavorava piccoli fazzoletti di terra all’interno di un regime di affitto. Funzionari appositamente nominati avevano il compito di suddividere le aree coltivabili in unità singole, delle quali la più piccola era di solito l’ikum, un’area di sessanta metri per sessanta.
L'Eufrate nel suo corso medio al passaggio dalla città di Dura Europos (Siria), a metà strada tra Babilonia e il Mediterraneo
Foto: Georg Gerster / Age Fotostock
La forma stessa dei canali – lunghi bracci d’acqua disposti perpendicolarmente al fiume – e la ricerca del modo più vantaggioso per sfruttarli, diedero forma al paesaggio agricolo mesopotamico: gli ikum erano disposti uno di seguito all’altro fino a formare appezzamenti di terra lunghi e stretti, che si susseguivano in modo parallelo ai canali. Per sfruttare al massimo la condizione di ogni appezzamento a seconda della coltivazione, del tipo di terreno e della sua vicinanza al fiume, si stabilì che nei campi più vicini ai corsi d’acqua fossero piantate le specie che avevano più bisogno di irrigazione: alberi da frutta, palme da dattero e ortaggi; seguivano i terreni destinati ai cereali e nel punto più distante le coltivazioni di minore qualità.
Orti e giardini
Tale sistema permetteva una pianificazione efficace delle colture, un calcolo approssimativo dei costi di sfruttamento e una stima quantitativa precisa delle imposte applicabili a ciascuna delle proprietà terriere. L’organizzazione dello spazio agricolo, quindi, consentiva di fare delle previsioni economiche a lungo termine. Per questo era necessario che i canali, la fonte della ricchezza, fossero sempre puliti. Il rapido accumulo di canne e altri detriti ostruiva la circolazione dell’acqua e, dato che la rete di canali era molto fitta, il collasso di uno solo di questi condotti colpiva gli altri e, di conseguenza, l’intero sistema economico. Per evitare che ciò accadesse, era nominato un alto funzionario specializzato, il gugal sumero o il gugallum accadico: l’ispettore dei canali, responsabile di mantenerli in perfette condizioni.
Lo stato organizzava la costruzione di canali e ne supervisionava l’uso
Queste pratiche portarono a un riordino del paesaggio, della società e dell’economia e comportarono la comparsa di nuove tecniche e di nuovi strumenti per trasportare l’acqua (acquedotti), per immagazzinarla (dighe, chiuse, depositi) e per sollevarla (norie, shaduf). La concezione e l’attivazione di questi meccanismi richiese delle notevoli conoscenze matematiche e complicati progetti di ingegneria idraulica. I risultati di tale lavoro trovarono la loro espressione più alta nei famosi giardini pensili della città di Babilonia, identificabili forse con i giardini del palazzo del re assiro Assurbanipal a Ninive; un’opera straordinaria che figurava tra le sette meraviglie dell’antichità.
Il palazzo assiro di Nimrud (Iraq) sul Tigri, nell’VII-VI secolo a.C. Stampa di James Ferguson nel 1853 in base a uno schizzo dell’archeologo inglese Austen Henry Layard. Stapleton Historical Collection, Londra
Foto: Eileen Tweedy / Art Archive
Con il tempo, quindi, i popoli della Mesopotamia riuscirono a trasformare aree desertiche in zone agricole produttive e a fare in modo che correnti fluviali dannose e minacciose divenissero una fonte di sostentamento e di sviluppo per la popolazione. Ma i due fiumi avevano ancora altro da offrire. Dato che il loro Paese non offriva molte risorse naturali, i mesopotamici utilizzarono il Tigri e l’Eufrate per trasportare le eccedenze agricole in altri luoghi dove ottenere in cambio di esse legna, metalli e pietre semipreziose. I fiumi e i loro affluenti funzionarono come le autostrade moderne, mettendo in comunicazione diverse regioni e civiltà.
In un primo momento i mesopotamici si dedicarono alla navigazione fluviale a bordo di piccole imbarcazioni dalla forma rotondeggiante e dotate di una sola vela. In seguito costruirono navi in grado di caricare fino a trenta tonnellate di merce. Questo utilizzo dei fiumi coinvolse tutta la società, creando nuove figure professionali come costruttori di barche, commercianti fluviali, artigiani addetti alla produzione di manufatti destinati specificamente all’esportazione.
Gli ingegneri e i costruttori dovettero realizzare dei canali di navigazione, una sfida completamente nuova. Tra questi spicca il canale costruito agli inizi del III millennio a.C. presso la città di Mari (nell’odierna Siria), che collegava questo popoloso centro con il Khabur, il principale affluente dell’Eufrate. Il canale scorreva parallelamente all’Eufrate per 120 chilometri, con un flusso costante e superando i pericolosi meandri del fiume in questo tratto. Un altro canale più piccolo deviava la navigazione all’altezza di Mari e obbligava le barche a passare dall’interno della città, che faceva loro pagare un pedaggio.
Imbarcazione incisa su un vaso rinvenuto a Umma. XIX-XVIII secolo a.C.
Foto: E. Lessing / Album
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
Motivi di conflitto
I fiumi mesopotamici, che garantirono prosperità sotto forma di abbondanza agricola e quindi di disponibilità di prodotti da commerciare, avevano anche il loro lato oscuro. Le loro acque superavano le frontiere delle piccole comunità, delle città e degli stati, e ciò obbligava a stipulare trattati e patti per sfruttare nel modo più vantaggioso il loro potenziale economico. Gli accordi erano firmati tra i sovrani e di norma ratificati dagli dei di ogni comunità per bocca dei loro sacerdoti, favorendo così il commercio e la stabilità economica, sociale e politica. Ma l’ambizione di dominare i fiumi e la ricchezza associata a essi fu la motivazione principale della maggior parte dei conflitti dell’area. È questo il caso della prima guerra di cui si è conservata testimonianza scritta: quella in cui si scontrarono le città sumere di Umma e Lagash verso la metà del III millennio a.C. per il controllo del Guedenna, un’ampia pianura resa fertile da alcuni canali.
Se da un lato i fiumi in Mesopotamia furono all’origine di gravi conflitti, dall’altro essi offrirono la soluzione ad alcune controversie di natura interpersonale. Gli antichi codici legislativi mesopotamici, di fronte a determinate ipotesi di reato, come l’adulterio e l’incesto, disponevano l’applicazione di un’ordalia fluviale. In questa prova i colpevoli erano lanciati nel fiume ed era quest’ultimo a determinarne le responsabilità e il destino: se sopravvivevano, erano innocenti; se annegavano, erano colpevoli.
La Mesopotamia fu la culla delle prime città, dei primi stati e dei primi imperi dell’umanità, il luogo in cui le prime parole furono fissate per iscritto e in cui nacque la civiltà così come la intendiamo oggi. Certamente niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza la presenza del Tigri e dell’Eufrate, ma neppure senza la perizia dei popoli che seppero addomesticare i due fiumi e trasformarli in compagni indispensabili per la vita: per il semplice contadino che coltivava un appezzamento sulle sponde di un canale, così come per gli stessi agguerriti sovrani che lottarono fra di loro per il controllo dei due corsi d’acqua.
Un operaio usa lo shaduf, una lunga pertica con un secchio e un contrappeso. Rilievo dal palazzo di Sennacherib a Ninive (Iraq). British Museum, Londra
Foto: W. Forman / Gtres
L’eredità delle acque
La prova più evidente dell’importanza che il Tigri e l’Eufrate rivestirono nell’esistenza delle popolazioni poste lungo le loro sponde è il nome che esse stesse diedero alla regione: Beth Nahrain “La Terra dei fiumi”. In un modo simile la chiamarono anche i Greci: Mesopotamía (da mésos “che è situato in mezzo” e potamós “fiume”), da cui deriva il nome con cui ancora oggi essa è generalmente indicata. Per ricostruire la storia di questa area fondamentale nella storia, anche gli archeologi hanno dovuto in qualche modo lottare contro i due fiumi. Non è stato semplice ricostruire gli enormi cambiamenti che essi hanno causato nel paesaggio mesopotamico nel corso del tempo. Le loro piene, oltre a distruggere antiche città, modificarono il corso delle acque nella pianura mesopotamica, e con il progressivo accumulo dei sedimenti da esse trasportati circondarono di deserti città un tempo portuali. Altri centri scomparvero per l’eccessivo sfruttamento del suolo da parte dell’agricoltura d’irrigazione: i campi si salinizzarono e furono abbandonati. Il Tigri e l’Eufrate contribuirono a scrivere la storia della Mesopotamia, ma furono anche sul punto di cancellarla.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!
Per saperne di più
Dal Tigri all’Eufrate. Sumeri e Accadi. Antonio Invernizzi, Le Lettere, Firenze, 2007
Antico Oriente. Storia, società. economia. Mario Liverani, Laterza, Bari, 2011