Nel corso della storia le persone sorde sono state sistematicamente emarginate. Anticamente venivano considerate inabili a qualsiasi attività in quanto le si riteneva prive dell’udito e della parola. La legislazione romana, per esempio, gli negava dalla nascita il diritto di firmare un testamento, ritenendole incapaci di comprendere e quindi impossibilitate a imparare a leggere e a scrivere. Nell’opera Contro Giuliano Agostino d'Ippona arrivava a dubitare che le persone afflitte da sordità potessero accedere alla salvezza del Vangelo: «Questo ultimo difetto può addirittura impedire la fede». Diversi secoli prima, Aristotele aveva sostenuto che le persone non udenti dalla nascita erano sprovviste d’idee morali e della capacità di pensare in forma astratta, e per questo motivo, pur non essendo realmente mute, non potevano parlare: «Gli uomini poi che sono sordi dalla nascita sono sempre anche muti: possono emettere sì suoni vocali, ma non articolare un linguaggio».
Solo nel XVI secolo si fecero i primi tentativi di sottrarre le persone sorde a questa condizione discriminatoria e di educarle a parlare come gli altri. In contrasto con le tesi aristoteliche, autori rinascimentali come Rudolf Agricola e Gerolamo Cardano sostenevano che le persone non udenti potessero imparare a comunicare. La prima esperienza positiva in questo senso fu condotta da uno spagnolo, il monaco benedettino Pedro Ponce de León, che riuscì a insegnare a parlare a due bambini sordi dalla nascita, i nipoti del connestabile di Castiglia, Pedro de Velasco. Ponce mise probabilmente per iscritto il suo metodo educativo, ma di quest’opera non resta alcuna traccia.
«Alfabeto dimostrativo» per persone sorde, di Juan Pablo Bonet. 1620. Biblioteca nacional, Madrid
Foto: Biblioteca nacional de España
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Lenti progressi
Nel 1620 un connazionale di Ponce de León, Juan Pablo Bonet, pubblicò la prima opera sull’istruzione delle persone con disabilità uditive giunta fino ai nostri giorni: Riduzione delle lettere ai loro elementi primitivi e arte per insegnare ai muti a parlare. In essa Bonet criticava i metodi brutali usati fino ad allora, che si basavano su «grida violente» e «tormenti alla gola». Bonet proponeva invece un’arte «chiara e semplice» grazie alla quale le persone non udenti avrebbero imparato a pronunciare le parole e a costruire progressivamente frasi dotate di senso.
Copertina del libro di Juan Pablo Bonet
Foto: Biblioteca nacional de España
Il primo passo di questo processo era costituito dall’«alfabeto dimostrativo», in cui ogni lettera era espressa tramite un gesto della mano destra. Tale alfabeto, molto simile a quello della moderna lingua dei segni, s’ispirava alla “mano guidoniana”, un sistema creato in epoca medievale dal monaco italiano Guido d’Arezzo per aiutare i cantori a leggere la musica. La persona non udente imparava ad associare ogni lettera dell’alfabeto a uno dei fonemi che il maestro le insegnava a emettere. Si trattava di un processo di apprendimento complesso, soprattutto per quanto riguardava i termini astratti, le congiunzioni e i verbi. Bonet raccomandava l’utilizzo di questo sistema ai familiari delle persone non udenti: «Ed è assolutamente necessario che chi vive con un muto, ed è in grado di leggere, conosca questo alfabeto e lo usi per parlare con lui, al posto dei gesti».
Nel 1760 l’abate francese Charles-Michel de L’Épée sviluppò un metodo ancora più completo per l’educazione dei non udenti, culminato nella fondazione dell’Istituto nazionale per i bambini sordi di Parigi. L’Épée riprese una lingua dei segni già utilizzata in Francia e vi aggiunse alcuni elementi di sua invenzione, i cosiddetti segni metodici, che servivano a esprimere preposizioni, congiunzioni e altre particelle grammaticali. L’abate francese riuscì in questo modo a creare un sistema comunicativo complesso, che può essere considerato una lingua a tutti gli effetti. I numerosi discepoli di L’Épée fondarono scuole per persone sorde in altri Paesi europei come Austria, Svizzera, Paesi Bassi e Spagna.
De L’Épée insegna nell'istituto per sordi di Parigi. Olio di Frédéric Peyson
Foto: Bridgeman / ACI
Nel 1783 il sacerdote italiano Tommaso Silvestri si recò a Parigi per apprendere il nuovo sistema direttamente dall’abate francese. L’anno successivo creò a Roma la prima scuola per persone sorde d’Italia. Il metodo didattico usato da Silvestri si discostava in parte dagli insegnamenti di L’Épée, perché non era puramente gestuale, ma aveva anche una forte componente orale.
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