Il restauro della tomba di Nefertari

L’avventura, la tecnica, i problemi e il successo del restauro dell’ultima dimora della regina raccontati da due degli esperti che in anni di lavoro hanno riportato al nuovo splendore le pitture murali più ricche e affascinanti della storia egizia

Nel 1904 Ernesto Schiaparelli, a capo di una missione archeologica italiana, scopriva nella Valle delle Regine, lungo la riva ovest dell’antica Tebe (Luxor), la tomba di Nefertari, moglie preferita del grande faraone Ramses II (XVIII dinastia). Nella sua relazione al re d’Italia lo stesso Schiaparelli accenna a condizioni conservative già alterate da pregresse infiltrazioni di acqua e alla caduta di frammenti che ingombravano il suolo. Nonostante la vivida bellezza delle immagini, il degrado del sito, già violato in precedenza, doveva essere evidente già agli occhi dei primi scopritori. Le aree di distacco tra intonaci e supporto calcareo sulle pareti e sui soffitti della vasta tomba, distribuita su due livelli articolati, si concentravano soprattutto in profondità, nella camera sepolcrale.

Preso atto dello stato di emergenza, si organizzò nel 1906 un primo intervento di messa in sicurezza, affidato a Fabrizio Lucarini (1861-1928), valente restauratore toscano, probabilmente conosciuto da Schiaparelli negli anni della sua direzione presso il Museo Egizio di Firenze (1880-1894). A Lucarini si dovrà nel 1913 il restauro della Gioconda di Leonardo, recuperata dopo il celebre furto del 1911.

Non esiste una relazione dell’intervento di Lucarini nella tomba di Nefertari. L’identificazione dei materiali costitutivi e della particolare tecnica esecutiva “a secco” della pittura faraonica, cosi diversa da quella tradizionale ad affresco, fu peraltro compresa dal Lucarini, che si limitò a un intervento minimale di contenimento dei distacchi di intonaco più esposti utilizzando materiali compatibili con quelli originali. Ma le condizioni delle pitture peggiorarono negli anni successivi, come dimostra il confronto di immagini con le successive campagne fotografiche condotte dal Metropolitan Museum (1920-23). All’inizio degli anni ’40 vennero tentati altri interventi a cura del Servizio di Antichità locale, con esiti purtroppo insoddisfacenti, al punto che si giunse progressivamente alla decisione di chiudere la tomba al pubblico per limitare il degrado.

Giorgio Capriotti, uno degli autori dell’articolo, durante i restauri delle immagini della tomba tratte dal Libro dei Morti

Giorgio Capriotti, uno degli autori dell’articolo, durante i restauri delle immagini della tomba tratte dal Libro dei Morti

Foto: Giorgio Capriotti

La tomba è scavata direttamente in un calcare fragile e ricco di sali, tale da non consentire l’intaglio a bassorilievo delle figure, ottenuto con la variante della modellazione di un intonaco di base, composto da un impasto argilloso ricavato dal limo fluviale. È evidente che tali caratteristiche geologiche determinassero già in partenza un potenziale fattore di degrado, sensibile all’infiltrazione accidentale di acque alluvionali. È documentato infatti che le piogge nell’alto Egitto, benché rare, fossero un fenomeno ricorrente e distruttivo. La solubilizzazione e la ricristallizzazione dei sali in superficie danneggiò dunque gravemente le pareti dipinte, forse persino durante la loro stessa esecuzione.

A causa di questa intrinseca ciclicità, nel lungo periodo si erano prodotti gravi danni, come rigonfiamenti di superficie e distacchi di roccia in profondità, fino alla caduta di frammenti. Al problema della presenza di sali solubili – cloruro di sodio, non eliminabile in quanto costitutivo della stessa composizione minerale della roccia –, si era cercato più volte in passato, senza successo, di fornire soluzioni. I risultati di questi interventi si mostravano alla metà degli anni ’80 come una stratificazione di tentativi caotici e deturpanti: dagli stacchi distruttivi di porzioni trasferite su nuovo supporto, alle dannose infiltrazioni di consolidanti fluidi (gesso e cemento), dalle invasive ridipinture sull’originale, alle improprie velinature di intere pareti con adesivi sintetici scarsamente reversibili.

La tomba di Nefertari – la QV66, cioè Queen Valley 66 – è una delle più grandi della Valle delle Regine. Sui muri gli antichi artigiani crearono raffigurazioni dei rituali necessari alla vita eterna della regina

La tomba di Nefertari – la QV66, cioè Queen Valley 66 – è una delle più grandi della Valle delle Regine. Sui muri gli antichi artigiani crearono raffigurazioni dei rituali necessari alla vita eterna della regina

Foto: Dagli Orti / Corbis / Cordon Press

 

 

Il progetto del restauro

Solo nel 1986 l’Organizzazione delle antichità egizie (EAO) affidò al The Getty Conservation Institute, di cui in quegli anni aveva la direzione Luis Monreal, l’incarico di fornire un progetto di studio dello stato conservativo, sotto la guida dei due maggiori restauratori italiani del secolo scorso: Paolo e Laura Mora, già allievi di Cesare Brandi presso l’Istituto Centrale del Restauro di Roma, e storici insegnanti presso il medesimo Istituto per oltre un trentennio. Miguel Angel Corzo, che sarebbe stato in futuro il direttore del Getty, fu il primo coordinatore della missione.

Lo studio preliminare produsse una mappatura completa delle superfici dipinte (550 metri quadrati) e costituì la base progettuale dell’intervento, che si sviluppò poi in sette missioni dal 1987 al 1992. Il team internazionale era costituito da restauratori italiani, inglesi, ed egiziani.

Dopo l’avvio di un monitoraggio diagnostico ininterrotto, si procedette a una prima fase di pronto intervento per mettere in sicurezza i numerosi sollevamenti di scaglie superficiali. Furono applicate oltre 10.000 striscette di carta giapponese con resina acrilica in soluzione per mettere in sicurezza le scaglie d’intonaco sollevate e in pericolo di caduta. I delicati sollevamenti di pellicola pittorica furono quindi riaderiti per infiltrazioni puntuali di resina acrilica in emulsione.

Le problematiche di grave dissesto degli intonaci furono risolte operando stacchi e ricollocazioni in situ di limitate porzioni. Questa delicata operazione si poneva l’obiettivo di un consolidamento strutturale, senza rinunciare all’aspetto naturale delle aree trattate, che dovevano cioè conservare, dopo l’intervento, un aspetto compatibile con l’andamento irregolare dell’intonaco originale.

Questa scelta di carattere minimale rappresentava l’alternativa vincente a quella tendenza opposta, di orientamento più invasivo, che optava per il distacco totale delle pitture e il trasferimento su un nuovo supporto. Se si fosse deciso di seguire questa seconda strada, il sito archeologico sarebbe stato convertito in mero contenitore e privato della sua essenza.

Particolare attenzione fu posta nel trattamento delle lacune di profondità degli intonaci. Rimosse tutte le stuccature operate in passato, si è ricercata una soluzione in armonia “ecologica” con i materiali costitutivi. I nuovi risarcimenti sono stati trattati in modo scabro appena sotto il livello della pellicola pittorica, imitando per granulometria e tonalità l’aspetto dell’usura naturale delle superfici. Tutte le superfici sono state sottoposte a pulitura selettiva, basata sulla natura delle sostanze da rimuovere e sui mezzi più opportuni in base alla reattività dello strato pittorico, alla tecnica di esecuzione e alle condizioni conservative.

La regina è raffigurata mentre gioca al senet, una sorta di antenato del nostro backgammon. Ha la corona avvoltoio e reca lo scettro sekhem, simbolo di potere

La regina è raffigurata mentre gioca al senet, una sorta di antenato del nostro backgammon. Ha la corona avvoltoio e reca lo scettro sekhem, simbolo di potere

Foto: Dagli Orti / Corbis / Cordon Press

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Opere destinate all’invisibilità

Le sostanze rimosse sono state varie, dai residui di fumi carboniosi delle lampade a petrolio usate in passato alla tracce di manipolazione diretta, dalle gore prodotte dal rilascio di umidità dei precedenti fissativi alle maculazioni dovute alla ricristallizzazione dei sali solubili sotto la pellicola pittorica, fino alle deturpanti ridipinture sovrammesse all’originale. Nel trattamento estetico finale un ulteriore ostacolo alla leggibilità era posto dalla presenza di diffuse microlacune e abrasioni di pellicola pittorica. Tali discontinuità interferivano negativamente con la corretta percezione delle immagini. La soluzione si è ancora una volta orientata verso il recupero di un equilibrio naturale in accordo con le tonalità della cromia circostante, applicando leggere velature trasparenti di tonalità neutra, denominata “acquasporca”. Non è stato operato nessun trattamento di reintegrazione cromatica.

Il restauro della tomba di Nefertari ha trovato così un’armonia omogenea al suo contesto ipogeo, dove persino la vicenda storica del suo degrado non è stata negata, ma anzi, reinterpretata in funzione di una corretta percezione visiva dei dipinti. In fondo, uno sforzo paradossale. Quei dipinti infatti furono voluti per non esser visti da nessuno, celati per sempre con la sepoltura della Regina.

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