«Chi ha vissuto l’epoca di transizione al Giappone contemporaneo si sente prematuramente vecchio; perché, anche se da un lato vive nella modernità, dove si discute di biciclette, bacilli e “sfere d'influenza”, dall’altro ricorda con chiarezza il Medioevo. Il buon vecchio samurai che iniziò l’autore di questo libro ai misteri della lingua giapponese aveva il codino e due spade. Questa reliquia del feudalesimo riposa oggi nel nirvana».
Questa citazione, tratta dall’introduzione che Basil H. Chamberlain scrisse per la sua opera Things Japanese (“Cose giapponesi”), condensa l’essenza dell’era Meiji: un periodo di rapido cambiamento che fece uscire il Giappone da un ordine praticamente feudale per lanciarlo tra le nazioni industrializzate. Una trasformazione di tale portata e velocità che ancor oggi sconcerta, ma che è imprescindibile per comprendere il Paese attuale.
Il disegno di fine ottocento raffigura il treno che circolava lungo i moli di Yokohama, principale porto internazionale del Giappone Meiji
Foto: Bridgeman / ACI
Dal XVII secolo le frontiere del Giappone erano chiuse in entrambe le direzioni. Agli stranieri era proibito l’ingresso e gli abitanti non potevano andarsene. Questa politica di isolamento (sakoku) era cominciata agli inizi del secolo con l’espulsione dei missionari cristiani per ordine di Tokugawa Ieyasu, fondatore di una dinastia di shogun (capi militari) che governò a lungo il Paese relegando l’imperatore a un ruolo puramente simbolico.
Il sakoku lasciò per circa duecento anni il Giappone in una sorta di piacevole arretratezza, ma gli permise anche di sviluppare una specificità culturale percepibile ancor oggi: un’aura di Paese misterioso, quasi segreto, distante dal mondo occidentale e dai suoi tentacoli politici e commerciali. Con l’eccezione di una piccola enclave nei pressi di Nagasaki, l’isola di Dejima, dov’era stato autorizzato un insediamento di mercanti olandesi.
L’isolamento nipponico non era visto certo di buon occhio dalle nazioni occidentali, interessate a creare delle basi per il traffico marittimo in Estremo Oriente. Per mettere fine a quella chiusura, gli Stati Uniti inviarono una piccola flotta agli ordini del commodoro Perry, le leggendarie Navi nere, che minacciarono di bombardare la capitale, Edo (oggi Tokyo), se il Paese non avesse accettato un accordo commerciale. Dopo una breve resistenza iniziale, i giapponesi si resero conto che la loro unica via di uscita era scendere a patti. Nel 1854 firmarono un trattato di amicizia e pace che li obbligava ad aprire i porti di Shimoda e Hakodate ai mercanti stranieri e a consentirgli di stabilirvi i propri centri.
Alcuni ribelli si arrendono agli ufficiali dell’esercito imperiale. Nel 1877 un gruppo di ex samurai era insorto per ripristinare il vecchio ordine
Foto: Wha / Age Fotostock
L’imperatore della modernità
L’apertura al commercio creò negli anni successivi un clima d'instabilità politica, che si concluse il 3 febbraio 1867 con l’ascesa al trono del giovane principe Mutsuhito, divenuto imperatore con il nome di Meiji (“regno illuminato”). Mutsuhito capì che per avvicinarsi alle nazioni occidentali erano necessari dei cambiamenti profondi: bisognava modificare completamente la struttura sociale e politica del Giappone, lasciarsi alle spalle l’epoca feudale e sviluppare un sistema parlamentare. Per questo l’imperatore decise di assumere il potere effettivo. Il 9 novembre dello stesso anno l’ultimo shogun Tokugawa si dimise dal suo incarico, aprendo la porta alla cosiddetta “restaurazione”, con cui l’imperatore diventava il leader unico del Paese per promuoverne un’occidentalizzazione a tappe forzate.
Il popolo giapponese dimostrò una capacità di adattamento straordinaria. Nel suo famoso libro Il crisantemo e la spada l’antropologa Ruth Benedict mise in evidenza una peculiarità dei soldati nipponici: dimostravano un’estrema fedeltà alla patria, ma quando venivano catturati collaboravano senza problemi con l’esercito nemico. Alcuni autori hanno collegato l’origine di quest’attitudine allo shogi, un gioco di strategia simile agli scacchi in cui è possibile riutilizzare i pezzi “mangiati” al proprio avversario. Ma la verità è che l’era Meiji fu un prodigio di adeguamento alle forme occidentali da parte di una nazione che a lungo era rimasta isolata dal mondo.
Al ritmo dell’Occidente
Una delle prime modifiche introdotte fu quella del calendario. Nel 1873 Meiji impose a tutto il Paese il calendario gregoriano. Fino ad allora in Giappone il conteggio degli anni ripartiva da zero a ogni nuovo imperatore, e si seguiva il calendario lunare di origine cinese. L’anno era composto da dodici mesi (salvo le periodiche aggiunte di una luna per farlo coincidere con il calendario solare) e iniziava il primo giorno di primavera. Ancor oggi persistono tracce di questo calendario, per esempio nel caso dell’anno scolastico, che inizia in aprile e termina in marzo.
Quest’incisione raffigura l’imperatore Meiji, sua moglie e il principe ereditario Yoshihito nel 1887 in vesti occidentali
Foto: Quintlox / Album
Per realizzare la maggior parte dei cambiamenti e instaurare un sistema giuridico e politico equiparabile a quello occidentale furono assunti dei consiglieri britannici, francesi, tedeschi e statunitensi. Fu emanata una costituzione, istituito un sistema sanitario e creato un esercito moderno. Vennero abrogati i privilegi della casta dei samurai, ai quali fu imposto un termine entro cui consegnare le proprie spade (katana). Quando videro i loro signori cedere le rispettive terre al governo centrale, questi guerrieri dall’aria fiera e solenne deposero le armi senza opporre resistenza. Le katana, che un tempo avevano rappresentato l’anima del samurai, ora si accatastavano in cumuli di ferraglia a ogni angolo di strada.
Tutte le classi sociali furono interessate da questi cambiamenti. I clan nobiliari persero i loro possedimenti feudali (daimiati) e per sopravvivere dovettero modificare le proprie funzioni. Alcuni, come Satsuma, Choshu o Nabeshima, diventarono gruppi di pressione, mentre altri affiancarono all’attività politica le iniziative commerciali, gettando le basi dei grandi gruppi economici giapponesi, come Mitsubishi. I nobili (kuge) conservarono i loro titoli, ricevettero incarichi amministrativi e si videro assegnare una pensione.
Una società in cambiamento
I samurai non ebbero tutti la stessa sorte. Privati delle armi e dei loro simboli di appartenenza, inizialmente poterono beneficiare di una rendita simile a quella che prima riscuotevano dai loro daimyo. Al termine delle sovvenzioni alcuni si erano perfettamente integrati nel nuovo ordine e occupavano ruoli di rilievo nel governo. Altri, invece, si ritrovarono in uno stato di assoluta indigenza, che tendevano a nascondere al resto della società. In numerose occasioni continuarono a vivere nelle loro abitazioni cadenti, come vecchie armi dismesse, ormai diventate inutili al mondo moderno.
Una strada di Tokyo nel 1888. La stampa di Inoue Yasuji mostra la coesistenza di tradizione e modernità nel Giappone Meiji
Foto: Mead Art Museum, Amherst College, MA / Bridgeman / ACI
Molti samurai caddero nella miseria più assoluta e continuarono a vivere nelle loro malconce abitazioni, come vecchie armi dismesse, diventate inutili
A trarre maggior beneficio dei cambiamenti in atto furono i commercianti. I nuovi porti internazionali divennero i centri di un’intensa attività mercantile e turistica, e il Giappone entrò rapidamente nel nascente circuito dei globe-trotter di tutto il mondo. Il Paese esportava soprattutto seta, lacche, porcellana, legno, mobili e oggetti d’arte. Inizialmente disprezzati dagli occidentali perché considerati poco affidabili, i mercanti giapponesi si costruirono ben presto una solida reputazione.
Anche la vita quotidiana della gente subì profondi mutamenti. I luoghi pubblici divennero il punto d’incontro di due mondi differenti. Se fino alla seconda metà del XIX secolo i giapponesi vestivano esclusivamente in modo tradizionale, con kimono e sandali di legno (geta), le strade improvvisamente si riempirono di uomini in giacca e cravatta, scarpe in pelle e bombetta. Sulle tavole, accanto alle bacchette fecero la loro comparsa forchette e coltelli, mentre le abitazioni di cemento affiancarono le tipiche costruzioni di legno con pavimento in tatami. Cambiarono le pettinature, l’alimentazione e le forme di intrattenimento. Le città e l’intero Paese furono invasi da treni e tram, e le stazioni si trasformarono in centri commerciali. Gli studenti delle scuole indossavano divise simili a quelle dell’esercito prussiano e le donne passarono rapidamente dalle infradito alle scarpe col tacco.
Il Giappone cambiò, ma senza staccarsi completamente dal suo passato. Il tradizionale stile orientale continuò a convivere con le nuove usanze occidentali, riservate a determinati ambienti e a occasioni particolari. I giapponesi non dimostrarono solo una grande capacità di adattamento, ma seppero anche operare una sintesi tra due culture profondamente differenti.
Scena di ballo in uno dei saloni del Rokumeikan, edificio in stile occidentale costruito a Tokyo nel 1883 per impressionare i visitatori stranieri
Foto: BPK / Scala, Firenze
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L’anima del Giappone
Durante il periodo Meiji cambiò anche la condizione delle donne. La nuova enfasi posta sul ruolo di moglie e di madre portò paradossalmente a un peggioramento della condizione femminile rispetto alle epoche precedenti. Nel nuovo ordine giuridico le donne erano completamente sottomesse al marito in forme prima sconosciute. Anche la nuova istruzione universale era discriminatoria da una prospettiva di genere: le donne non potevano effettuare gli stessi studi degli uomini, ma la loro educazione era circoscritta alle mansioni familiari e sociali che rientravano nel nuovo concetto di ryousaikenbo (“buona moglie e madre saggia”).
Nella nuova società Meiji le donne videro diminuire i propri diritti rispetto all'epoca precedente e si ritrovarono totalmente assoggettate ai mariti
Il sistema pedagogico giapponese era stato gestito fino ad allora dai templi buddisti e dai clan. Meiji creò scuole militari e civili per lo studio del commercio, dell’industria o delle lingue straniere, che in seguito sarebbero diventate università. Istituì anche un programma per inviare alunni giapponesi a studiare in Europa. Uno di loro fu Natsume Soseki, il grande romanziere giapponese di quel periodo, che seppe catturare come nessun altro lo spirito convulso, diviso e tormentato del suo tempo. L’autore di Io sono un gatto e Il signorino fu il maggior esponente di quel dualismo Oriente-Occidente caratteristico del periodo Meiji: studiò in Inghilterra, ma non amava la vita britannica; scriveva poesie in cinese indossando i tradizionali abiti giapponesi, ma lavorava vestito all’occidentale ed esprimendosi in inglese.
Gli insegnanti assunti dal governo nipponico erano per lo più anglosassoni. Alcuni di loro furono acuti osservatori e cronisti di quell’epoca, come Lafcadio Hearn, conosciuto anche come Koizumi Yakumo. Trasferitosi in Giappone nel 1890, Hearn sposò Koizumi Setsu – una ragazza proveniente da una povera famiglia di samurai – e prima di morire, nel 1904, scrisse alcune delle pagine più belle che un occidentale abbia mai dedicato al Paese del sol levante. A Matsue, una cittadina tradizionale situata sull’isola di Honshu, Hearn conobbe gli aspetti meno noti del vecchio Giappone e della sua gente e scrisse la cronaca di un mondo che stava scomparendo, quello del wabi, l’arte dell’umile e dell’incompiuto. Secondo Hearn quel Giappone non rappresentava una rottura radicale con il passato: «Ciò che è accaduto non è una trasformazione, ma semplicemente l’applicazione di vecchie competenze a nuovi ambiti», scrisse nel saggio Kokoro.
Una strada a Osaka. Questa fotografia a colori è stata scattata nella via Dotonbori alla fine del XIX secolo
Foto: Brooklyn Museum of Art, New York / Bridgeman / ACI
Nel 1912, alla morte di Meiji, salì al trono suo figlio Taisho. Il Giappone si era radicalmente occidentalizzato, mentre le guerre contro Cina e Russia e l’annessione della Corea gli avevano permesso di affermarsi militarmente. Le pulsioni belliche si diffondevano nella società, riflesso di quella corsa agli armamenti che in ultima istanza avrebbe portato a nuovi conflitti con la Corea e la Cina, e poi allo scontro con gli Stati Uniti. Pur con le sue ombre, il periodo Meiji sarà sempre ricordato come un esempio unico di cambiamento sociale.
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Per saperne di più
Il Giappone moderno. Una storia politica e sociale. Elise K. Tipton. Einaudi, Torino, 2011
Storia del Giappone e dei giapponesi. Robert Calvet. Lindau, Torino, 2017
Io sono un gatto. Natsume Soseki. BEAT, Milano, 2018
Il signorino. Natsume Soseki. Neri Pozza, Milano, 2007
Kokoro. Il cuore della vita giapponese. Lafcadio Hearn, Luni Editrice, Milano, 2013