Ricostruire chi inventò il gelato è una perdita di tempo: infatti sin dall’antichità più remota i tentativi di rinfrescarsi e dissetarsi con la neve o il ghiaccio, magari aggiungendo un sapore diverso (come il succo di frutti locali o il miele), furono pratiche comuni e intuitive in ogni continente.
Le fonti sono comunque concordi nell’identificare gli italiani come gli inventori del gelato moderno. Stando a quanto riporta Quinto Fabio Gorgo, nel 62 d.C. Nerone introdusse a Roma i primi dessert elaborati a base di frutta, miele e neve. Tuttavia per passare dalle nivatae potiones di epoca imperiale a una forma più evoluta bisognerà attendere il XVI secolo. A contendersene la paternità sono un tal Ruggeri, pollivendolo fiorentino, e il suo concittadino Bernardo Buontalenti, di professione architetto. Verosimilmente le cose andarono in questo modo: Ruggeri si aggiudicò la vittoria di un concorso indetto dalla corte medicea per l’invenzione del piatto più originale. Il suo «ghiaccio con acqua inzuccherata e profumata» ebbe un tale successo che nel 1533 Caterina de’ Medici lo portò con sé a Parigi, in occasione delle nozze con il duca d’Orléans, il futuro Enrico II. Questo narra la vox populi, ma la documentazione ufficiale scarseggia. L’architetto Bernardo Buontalenti invece sottopose a Cosimo il Vecchio una nuova ricetta: quella di una crema fredda a base di latte, tuorlo d’uovo, miele e vino aromatizzato con bergamotto, limone e arancio. L’invenzione venne offerta a un ospite di tutto riguardo, Carlo V di Spagna, e il successo fu travolgente.
Venditore di gelati. Scuola italiana, 1700
Foto: Bridgeman / Aci
La conservazione del ghiaccio
All’epoca il grande problema tecnico era la produzione del ghiaccio. In tutta la penisola italiana ci si ingegnava per conservare questo elemento preziosissimo, considerato dalle classi agiate un ingrediente di lusso ma che, al tempo stesso, era un prodotto indispensabile per la conservazione degli alimenti e per le attività ospedaliere. In Sardegna, ad esempio, ancora oggi si può percorrere il “Camminu de is niangios”: dal cinquecento all’ottocento operai stagionali portavano la neve ghiacciata conservata nelle domus de su nie, le case della neve, dai monti del Gennargentu fino alla pianura per poi rivenderla in blocchi. In Sicilia, invece, la neve veniva conservata in cavità naturali dette “neviere” durante l’inverno; solo dopo veniva portata in città su carri e coibentata con strati di cenere e felci. Il gentiluomo scozzese Patrick Brydone raccontava nel 1767: «Non c’è festa organizzata dalla nobiltà in cui la neve non rivesta un ruolo importante: la mancanza di neve, dicono loro stessi, sarebbe più grave della mancanza di grano o di vino».
Più articolata era la situazione a Torino, il cui sottosuolo era percorso da gallerie sotterranee costruite per la difesa della città. Una mappa risalente al 1753 riporta che nella zona di porta Palazzo si trovava un’area adibita a ghiacciaia dove venivano conservati i blocchi portati in estate dalle Alpi e successivamente utilizzati dagli ambulanti del mercato. Sul Carso triestino, invece, erano famose le jazere di Draga Sant’Elia, sviluppatesi a partire dal XVIII secolo. Si trattava di profondi pozzi in muratura, scavati in prossimità degli stagni, dai quali si intagliavano blocchi di ghiaccio di circa 80x20 cm, che poi venivano estratti con un particolare tipo d’ascia e uncini di ferro. Quindi i blocchi venivano depositati nelle jazere alternando strati di foglie secche. Un chilo di ghiaccio poteva arrivare ad avere lo stesso valore di un chilo di carne e i maggiori acquirenti erano la più grande birreria della città, la Dreher, e gli ospedali. Carri carichi di ghiaccio partivano prima dell’alba dall’altipiano in direzione di Trieste, ma prima ancora di arrivare a destinazione avevano già venduto tutto il carico ai macellai che attendevano la carovana lungo la strada.
La produzione del ghiaccio artificiale invece fu una questione alchemica. Sin dal Medioevo veniva realizzato aggiungendo nitrato di potassio al ghiaccio naturale. L’altro additivo era l’anidride solforosa, che portava la temperatura a -30°C. Nel 1626 un tale Santoro riuscì a ottenere lo stesso risultato aggiungendo alla neve del sale da cucina in proporzione di 1:3. Nel 1597 Galileo inventò il termometro, che consentì di perfezionare i dosaggi. Le prime macchine del gelo, chiamate sorbettiere, erano cilindri di terracotta rivestiti nei quali venivano messi ghiaccio e ingredienti chimici. Via via che il prodotto si cristallizzava, il gelataio lo raccoglieva con la spatola. Successivamente venne introdotta una manovella per facilitare la produzione di un gelato più fine.
Gelataio napoletano con la sua bancarella di gelati e bibite. Fine del XIX secolo
Foto: Hulton Archive / Getty Images
Gelato e migrazioni
La storia del gelato è anche una storia di emigrazione, a partire dal già citato Ruggeri e fino ad arrivare a Procopio de’ Coltelli, pescatore siciliano il quale, dopo aver perfezionato una macchinetta per la produzione del ghiaccio inventata da suo nonno Francesco, decise di fare il grande salto trasferendosi a Parigi. Lì nel 1686 aprì il caffè Le Procope, destinato a diventare il locale più in voga della capitale francese. Al Le Procope si potevano apprezzare le acque gelate (le nostre granite) e i gelati di frutta diventati poi classici, come il gelato al succo di limone o di arancio. Ma era possibile provare anche gusti più particolari, come i fiori d’anice, di cannella o la crema frangipane gelata. Il successo fu tale che Luigi XIV conferì al locale una concessione esclusiva per la produzione di questi dessert.
Una migrazione dovuta invece alla povertà fu quella rappresentata dagli abitanti del Cadore e della Val di Zoldo, in Veneto. Alla fine dell’ottocento, con il crollo della Serenissima Repubblica di Venezia, questi si erano trovati a fronteggiare una grave crisi economica e demografica, che li aveva portati a emigrare a nord percorrendo dalla primavera alla fine dell’estate i territori dell’impero asburgico e vendendo gelati come ambulanti sui propri carrettini. A loro va il merito di aver reso popolare un prodotto fino a quel momento destinato alle élite.
La moda nel settecento
Fino al XVIII secolo il gelato fu curiosità e vanto dell’aristocrazia. Complici la diffusione dello zucchero e le nuove bevande coloniali (tè, caffè e cacao), conobbe da quel momento la sua epoca d’oro, tanto da venir citato persino nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert: «Nome moderno che si dà ai liquidi di gusto gradevole e preparati con abilità e congelati in forma di teneri ghiaccioli; si possono congelare rapidamente tutti i liquidi ottenuti da succhi vegetali, servendosi di ghiaccio e di sale, oppure in mancanza di sale, con nitro e soda».
In questa foto del 1920 circa tre sorelle si godono un gelato
Foto: Transcendental Graphics / Getty Images
In tutta Europa fiorirono allora le sale da caffè, dove si potevano gustare le nuove bevande e i gelati, e dove si riunivano intellettuali illuministi e galanti modaioli che fecero la fortuna di questo genere di locali. L’avventuriero veneziano Giacomo Casanova racconta nelle sue memorie che i gusti più diffusi erano cacao, caffè e limone. Quest’ultimo veniva proposto anche nella versione “gelo al limone”: si toglieva la polpa e la si sostituiva col sorbetto. Inoltre i gelati erano talmente apprezzati che venivano serviti dai venditori ambulanti anche a teatro, durante l’intermezzo fra un atto e l’altro. Nello stesso periodo cominciarono a comparire le prime pubblicazioni dedicate all’argomento: nel 1775 il medico napoletano Filippo Baldini pubblicò il trattato De’ sorbetti nel quale sosteneva la tesi della salubrità dei cibi gelati contro le precedenti generazioni di medici che, invece, li sconsigliavano.
Nel XVIII secolo in tutta Europa fiorirono le sale da caffè, dove si potevano gustare bevande e gelati
Ma già alla fine del XVII secolo il marchigiano Antonio Latini, capocuoco del viceré spagnolo di Napoli, aveva pubblicato Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, che comprendeva un capitolo dedicato ai sorbetti e alle acque ghiacciate. Fra le ricette, accanto ai classici come gli agrumi o i pinoli, ve n’erano anche alcune davvero insolite, come il gusto alla melanzana o alla zucca. Nel 1891 il gastronomo Pellegrino Artusi (considerato il padre della cucina italiana) pubblicò un libro diventato successivamente un best-seller, ovvero La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene: la prima raccolta di ricette regionali dopo l’unificazione d’Italia. Fra i dessert proposti trovano spazio anche le novità come il gelato di torrone o di marroni, lo spumone di tè o il pezzo in gelo, una sorta di torta gelato.
Il gelato da passeggio invece nacque con l’invenzione del cono. Diverse sono le ipotesi circa la paternità di questo supporto. Le più note sono legate ai nomi di Italo Marchioni, italiano emigrato negli USA che nel 1903 brevettò un macchinario per la produzione dei coni, e di Giovanni Torre, ligure di Bussana che qui impiantò il primo forno atto alla produzione di cialde, poi presentato all’Esposizione di Torino del 1919. Ma gli italiani non sono gli unici a rivendicare la scoperta del cono: Ernest A. Hamwi, emigrato siriano a New York e venditore di frittelle di cialda tradizionali cotte in una pressa per wafer e note come zalabia, ebbe l’intuizione di farcirle col gelato del suo vicino di chiosco durante la fiera di Saint Louis, nel Missouri. Era il 1904. Cominciava così l’era del cono da passeggio.
La ricerca della novità è tuttora una costante: anche oggi infatti i mastri gelatai continuano a sperimentare gusti singolari, dal gorgonzola fino al carbone vegetale.