Marie-Fortunée Capelle nacque nel 1816 da una famiglia benestante e poté studiare in uno dei primi centri d’istruzione femminile di Parigi. Attraverso un’agenzia matrimoniale entrò in contatto con un mastro forgiatore di una piccola località della Francia centrale, un certo Charles Lafarge, che aveva cinque anni più di lei. Lafarge viveva un periodo di difficoltà economiche, come altri impresari del suo settore, e sperava che l’unione con una famiglia parigina di spicco potesse fornirgli dei nuovi contatti per futuri affari.
Al loro primo incontro però, Marie Capelle non ebbe una buona impressione di Lafarge, che descrisse come un uomo con «un viso piuttosto brutto, un aspetto e dei modi da selvaggio». Ciononostante, dietro insistenza della famiglia accettò le nozze, che si svolsero a metà agosto del 1839. Il viaggio di Marie verso la sua nuova dimora fu costellato da liti con il marito, che tentò persino di stuprarla in più di un’occasione.

Marie Lafarge in un'incisione realizzata durante il processo
Foto: Musée Carnavalet / Roger-Viollet / Aurimages
All’arrivo a Beyssac, nel dipartimento della Corrèze, Marie Lafarge si trovò di fronte a un’abitazione fatiscente che non assomigliava per nulla alla villa che Charles le aveva descritto. Il suo comportamento era inoltre oggetto di diffidenza perché non si adeguava al modello di pudore che si pretendeva dalle donne locali. La famiglia Lafarge non vedeva di buon occhio che la giovane moglie montasse a cavallo o si esibisse al pianoforte e leggesse poesie romantiche davanti ai suoi ospiti.
I giorni passavano e la tensione aumentava: Marie iniziò a soffrire di disturbi nervosi, arrivando a immaginarsi un tentativo di fuga con un amante fittizio. Sembra che avesse persino cercato di avvelenarsi. Tuttavia, dopo le prime settimane, riuscì ad adattarsi alla nuova situazione e il suo rapporto con la famiglia Lafarge migliorò. La donna intraprese una profonda ristrutturazione della casa e cominciò a collaborare con l’impresa del marito, cui presentò i suoi contatti tra dei notabili parigini dai quali poteva ottenere un prestito.
L’accusa della famiglia
A metà dicembre del 1839, nel corso di un viaggio d’affari a Parigi, Charles Lafarge ricevette una torta apparentemente preparata dalla moglie. Ne mangiò una fettina e la notte stessa si sentì male. Una volta tornato a casa le sue condizioni peggiorarono: i dolori allo stomaco aumentarono e gli attacchi di vomito si fecero più violenti. Nonostante le cure dei medici, morì il 14 gennaio 1840. Il giorno stesso i parenti del defunto espressero il sospetto che fosse stato avvelenato dalla giovane sposa con dell’arsenico disciolto nella torta e anche nelle medicine e nelle bevande che gli erano state somministrate in seguito. Si venne a sapere che nei giorni precedenti la donna aveva acquistato la sostanza in questione in un negozio.

Charles Lafarge sul letto di morte. Incisione dell’epoca che attribuisce alla moglie Marie, sulla destra, la responsabilità dell’avvelenamento
Foto: Leemage / Prisma Archivio
Le indagini furono condotte dal giudice istruttore di Tulle, che interrogò i parenti, perquisì la stanza di Marie, ordinò un’autopsia del cadavere del marito e fece analizzare tutte le bottiglie presenti in casa. Gli esperti lavorarono alle analisi per diversi giorni, mentre il giudice istruttore raccoglieva una grande quantità d’informazioni: lettere, testimonianze, fatture e via dicendo. Il 23 gennaio il magistrato ordinò l’arresto di Marie. Il processo iniziò il 3 settembre 1840 a Tulle, in un clima di grande attesa. Fin dalle sette del mattino «una folla compatta aspettò pazientemente l’apertura del santuario della giustizia», racconta la stampa dell’epoca.
Esami tossicologici
Il giorno successivo furono presentati il rapporto autoptico e l’esame tossicologico ordinati dal giudice istruttore. Gli esperti – un gruppo di medici e farmacisti locali che aveva seguito personalmente Charles Lafarge – dichiararono di aver riscontrato degli indizi compatibili con un avvelenamento da arsenico: danni anatomici al tratto digestivo e alcuni granuli nello stomaco che potevano essere identificati con il veleno, anche se la consistenza e il colore lasciavano dei margini d’incertezza. Gli esperti riferirono anche che un incidente aveva provocato la rottura di un tubo al momento di eseguire le analisi chimiche, rendendo così impossibile confermare la presenza della sostanza incriminata. Nonostante questi dubbi, venne emesso un verdetto di colpevolezza nei confronti dell’imputata: Charles Lafarge era morto per avvelenamento da arsenico. L’avvocato difensore di Marie, che aveva esperienza in processi di questo tipo, evidenziò tutti i punti deboli dell’impianto accusatorio, ottenendo il rigetto della prima perizia e l’ordine di una seconda. Per analizzare nuovamente i resti biologici di Charles Lafarge, la corte scelse due farmacisti e un chimico di Limoges. Questa volta si ricorse a un metodo più moderno. I periti sottoposero parte dello stomaco e del vomito del defunto a un test a elevata sensibilità che era stato introdotto da James Marsh quattro anni prima, ma nei resti non trovarono «un solo atomo» di arsenico.
Di fronte a risultati così contraddittori il tribunale ordinò una terza prova, che richiese la riesumazione del corpo di Lafarge in quanto i campioni disponibili erano stati consumati nelle analisi precedenti. L’esame, condotto congiuntamente dal primo e dal secondo gruppo di esperti, diede di nuovo esito negativo. Per Marie, la libertà senza imputazioni sembrava vicina. Ma un medico affermò che durante le prove aveva notato «un leggero odore di aglio», caratteristico dell’arsenico volatilizzato. Sulla base di questi vaghi indizi, il pubblico ministero ottenne l’esecuzione di una quarta perizia, che avrebbe dovuto risultare definitiva e concludente.

Marie Lafarge di fronte al tribunale di Tulle, durante il processo in cui fu condannata all’ergastolo. Incisione del 1842
Foto: AKG / Album
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Le analisi decisive
I nuovi esami furono affidati a una squadra di esperti guidati dallo spagnolo Mateu Orfila i Rotger, un chimico di Minorca che aveva fatto carriera in Francia ed era considerato un’eminenza in materia. I periti arrivarono a Tulle il 13 settembre 1840 e ricorsero nuovamente al test di Marsh per analizzare le poche parti ancora disponibili del corpo di Lafarge. Come nei due casi precedenti, la prova fu condotta davanti alla corte, al pubblico e ai giornalisti che affollavano l’aula. Un silenzio sepolcrale precedette la lettura della relazione di Orfila. La sua conclusione era schiacciante: «Ci sono tracce di arsenico nel corpo […] che non provengono né dai reagenti chimici utilizzati né dalla terra che circondava la bara […] Neppure sono compatibili con quella quantità di arsenico che si trova naturalmente nel corpo umano». Orfila fornì anche una spiegazione plausibile dei risultati negativi delle prove precedenti.
Il corso del processo registrò un repentino cambiamento. Quella che dopo due perizie negative sembrava una scontata assoluzione assunse i contorni di una probabile condanna alla pena massima. Con una mossa disperata, gli avvocati di Marie Lafarge contattarono François Vincent Raspail, uno dei più noti critici di Orfila, che già in altri processi ne aveva messo in discussione i metodi. Ma quando Raspail arrivò a Tulle ormai la sentenza era scritta. Solo le circostanze attenuanti evitarono a Marie Lafarge di essere giustiziata. Alla fine del 1840 la corte suprema di Parigi ratificò la condanna all’ergastolo.

Caricatura dell'avvocato difensore di Marie Lafarge, Alphonse Gabriel Victor Paillet
Foto: Bridgeman / ACI
Nei mesi successivi il dibattito tra colpevolisti e innocentisti divise la comunità medica francese per poi estendersi a tutta la società. Mateu Orfila difese le sue conclusioni in diverse lezioni pubbliche dedicate all’avvelenamento da arsenico, tenutesi nell’affollato anfiteatro della facoltà di medicina di Parigi. Nella prima metà del 1841 furono organizzate delle sessioni monografiche presso l’Académie des Sciences e l’Académie nationale de médecine di Parigi.
Le riviste scientifiche, i quotidiani e le pubblicazioni giuridiche dedicarono al processo un’infinità di pagine. In Francia e in Inghilterra furono portate in scena svariate opere teatrali direttamente ispirate agli eventi. La stessa Marie Lafarge pubblicò un’autobiografia che godette di una certa popolarità. La donna apprese dei rudimenti di tossicologia per cercare possibili errori nei metodi peritali e nel 1847 scrisse una commovente lettera a Orfila in cui metteva in dubbio l’attendibilità delle sue conclusioni. Nella missiva lo implorava di riconsiderarle alla luce delle novità emerse negli ultimi anni, in particolare dalle ricerche sull’«arsenico normale» (quello, cioè, presente negli esseri umani sani) condotte dai chimici dell’Académie des Sciences di Parigi, e chiese un nuovo rapporto: «Dopo tre analisi, una quasi negativa e le altre due assolutamente negative, ci sono volute tutte le vostre conoscenze per far apparire una quantità infinitesimale di veleno. Con questo, signore, mi sembra di aver detto tutto… Ora spero che Dio mi protegga e vi porti l’illuminazione della sua verità!».
Durante il processo furono presentati quattro rapporti tossicologici con conclusioni in contraddizione tra loro
Orfila non scrisse mai alcuna rettifica, ma negli anni successivi le richieste di grazia si moltiplicarono. La speranza di ottenere un indulto crebbe nei primi giorni della rivoluzione del 1848, quando i politici repubblicani sollevarono Orfila da tutti i suoi incarichi presso la facoltà di medicina a causa della sua vicinanza al re. Raspail scrisse nuovi articoli contro la condanna di Marie Lafarge, «uno dei maggiori scandali nella storia dell’uso della chimica nei tribunali».
Caso chiuso?
I sostenitori di Marie Lafarge fecero diversi sforzi per ottenere un atto di clemenza dal governo repubblicano, ma senza successo. Fu solo nel giugno del 1852, quando Marie si ammalò di tubercolosi, che il gabinetto di Napoleone III si decise a concederle la grazia. Purtroppo però Marie non poté godere a lungo della ritrovata libertà, perché morì pochi mesi dopo in un centro termale del sud della Francia, dove si era recata per curarsi.

Apparecchio di Marsh. Incisione a colori basata sull'immagine che appare nell'opera di Theodore G. Wormley. 1867. National library of Medicine, New York
Foto: Science Source / Album
Nonostante le prove presentate durante il processo, molti non accettarono mai la colpevolezza di Marie Lafarge. Ci sono stati diversi tentativi di riaprire il caso, soprattutto negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, quando sono emersi nuovi dati relativi all’arsenico normale. Tra i promotori della campagna c’è stato Julien Raspail, che ha raccolto la documentazione del nonno e redatto un lungo testo con i presunti errori della perizia di Orfila.
La questione è aperta ancor oggi ed esiste una società di amici di Marie Lafarge che chiede una revisione completa del processo. I manuali medici, invece, insistono nel presentare questo caso come uno dei momenti fondanti della tossicologia. Sia come sia, un’inquietante incertezza continua a circondare i fatti.
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