I guerrieri manciù conquistano la Cina

Nel 1644 questo popolo della Manciuria attraversò la Grande Muraglia e conquistò Pechino. Qui stabilì la dinastia Qing che governò la Cina fino agli inizi del XX secolo

Negli anni trenta del 1600 la dinastia Ming, che governava la Cina dal XIV secolo, vacillava. Le cronache di quegli anni riflettono l’esistenza di un contesto di crisi generale del Paese, con inondazioni, siccità, epidemie e carestie. Erano sorte anche bande di fuorilegge, formate soprattutto da disertori e militari dell’esercito in congedo che saccheggiavano vaste regioni della Cina. Il debole imperatore Chongzhen non sembrava in grado di svolgere la sua funzione sacra di mantenimento dell’ordine, come denunciava una canzone popolare dell’epoca: «Venerabile signore del cielo, / stai invecchiando, i tuoi orecchi sono sordi e non ci vedi bene. / Non vedi che la gente nemmeno ascolta le parole. / Gloria a chi uccide e incendia: per chi digiuna e legge le scritture, morte per deperimento. / Cadi, venerabile signore del cielo. Come puoi stare così in alto? / Scendi sulla terra».

Nel 1636 due gruppi di banditi si erano trasformati in veri e propri eserciti in grado di minacciare direttamente il potere imperiale. A nordest vi era quello guidato da Li Zicheng, un ex pastore, poi impiegato in una rivendita di vini e da un fabbro. A est, tra il fiume Giallo (Huang He) e il fiume Azzurro (Yangtze), vi era quello comandato da Zhang Xianzhong, un ex soldato dell’esercito Ming. Nel maggio del 1644, mentre Zhang conquistava la regione meridionale di Sichuan, i banditi di Li Zicheng riuscirono a entrare nella capitale imperiale, Pechino, e la saccheggiarono. L’imperatore Chongzhen s'impiccò a un albero su una collina vicina alla Città Proibita. Con lui finì la dinastia Ming, che regnava in Cina dal 1368. Tuttavia chi trasse vantaggio da questa crisi non furono i ribelli che avevano abbattuto i Ming, ma un popolo straniero che viveva oltre la Grande Muraglia cinese: i manciù.

L'incisione illustra la conquista della città di Liaoyang, che Nurhaci trasformò nella sua capitale nel 1621. Manzhou Shilu (1781). British Library, Londra

L'incisione illustra la conquista della città di Liaoyang, che Nurhaci trasformò nella sua capitale nel 1621. Manzhou Shilu (1781). British Library, Londra

Foto: British Library / Scala

I nomadi della Manciuria

I manciù erano un popolo di etnia tungusi insediato nelle steppe della Manciuria, nelle odierne province cinesi di Liaoning, Jilin ed Heilongjiang. Discendevano dai nomadi jurchi, che tra il XII e XIII secolo avevano creato l’impero Jin – esteso in Manciuria e nel nord della Cina – e che nel 1234 erano stati sottomessi dai mongoli. Successivamente, intorno alla fine del XVI secolo, il capo degli jurchi, Nurhaci, stabilì la sua autorità tra i popoli a nordest della Grande Muraglia. Si proclamò khan (capo supremo) e fondò la dinastia Hou Jin o Jin Posteriori. Nurhaci organizzò il sistema delle “bandiere”, nome che indicava le otto formazioni sovratribali che gestivano l’amministrazione militare e civile, e promosse fruttuosi scambi commerciali con la Cina.

Gli imperatori Ming, da parte loro, cercarono l’alleanza con gli jurchi per contenere l’avanzata di altri popoli della steppa e per frenare gli invasori giapponesi inviati dal signore della guerra Toyotomi Hideyoshi. Al tempo stesso però i Ming temevano la presenza di un potere nomade forte al di là della Grande Muraglia. Tali timori vennero confermati nel 1618, quando Nurhaci dichiarò loro guerra. Nel 1621 occupò la regione cinese di frontiera dell’odierna Liaoning, a nordest della Grande Muraglia.

Dopo la morte di Nurhaci nel 1626, suo figlio Hong Taiji si propose di essere qualcosa di più del capo di un piccolo stato di jurchi. Nel 1635 cambiò il nome del suo popolo da jurchi in manciù e proclamò la sua volontà di rifiutare la supremazia dei Ming. E non solo: Hong Taiji si mostrò intenzionato a detronizzarli con l’aiuto di cinesi, mongoli e altri popoli delle steppe. A questo scopo, nel 1636 si proclamò “imperatore” e non più solamente khan. In seguito i regnanti manciù, seguendo un uso indiano, si sarebbero fatti chiamare anche cakravartin, parola sanscrita che indica un sovrano che ambisce a un potere universale. Manifestavano così l’ampiezza del loro dominio esteso su manciù, mongoli, cinesi, tibetani e uiguri. Hong Taiji al posto di Hou Jin adottò per la sua dinastia un nome cinese: Qing, che significa “puro”.

Sigillo imperiale, con il suo involucro, della dinastia Qing. XVII secolo

Sigillo imperiale, con il suo involucro, della dinastia Qing. XVII secolo

Foto: Corbis

Hong Taiji morì nel 1643 e gli succedette il figlio Fulin. Dato che questi era un bambino di sette anni, il potere passò al reggente, suo zio Dorgon. Fu quest’ultimo a lanciare l’attacco risolutivo contro i Ming. L’occasione gli fu offerta dal generale cinese Wu Sangui, incaricato della difesa della frontiera della Cina dalla minaccia dei manciù. Secondo una delle versioni del fatto, Wu si era arreso all’esercito ribelle di Li Zicheng ma mentre si recava a Pechino seppe che i soldati di Li avevano perpetrato massacri, nei quali aveva perso la vita anche suo padre. Infuriato, tornò allora alla sua base a nordest, a Shanhaiguan, e si alleò con i manciù chiedendo loro un appoggio militare in cambio del riconoscimento della loro sovranità. Poco dopo verso nord-est si diresse anche Li Zicheng, alla testa di un esercito di 60mila uomini, con l’intenzione di distruggere quel focolare di resistenza.

La battaglia decisiva

Il supporto di 100mila combattenti manciù risultò decisivo. Nella battaglia di Shanhaiguan, il 27 maggio del 1644, l’esercito ribelle si vide spacciato quando la cavalleria manciù lo circondò sul fianco sinistro e provocò una tempesta di sabbia accecante. Vedendo che l’attacco proveniva dai manciù, tra i soldati di Li Zicheng si verificò una fuga generale. I manciù entrarono poi a Pechino senza incontrare resistenza il 5 giugno del 1644 e il 30 ottobre dello stesso anno il piccolo Fulin ascese al trono imperiale della Cina con il nome di Shunzhi.

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La dinastia Qing

Da quel momento iniziò il governo dei manciù in Cina, che durò per due secoli e mezzo, fino al 1912, anno in cui avvenne la caduta dell’ultimo imperatore Qing, Puyi. Nel corso di questo lungo periodo, i manciù vollero mantenere la propria identità, pur dovendo sedentarizzarsi. L’élite conservò la propria lingua e ricoprì una parte degli incarichi amministrativi. Alla corte imperiale si conservarono anche certi rituali delle steppe e si organizzarono battute di caccia imperiali in Manciuria. Tuttavia i Qing mostrarono anche una venerazione per la tradizione cinese e si sforzarono costantemente di mostrarsi cinesi tanto quanto o più dei cinesi stessi.

Interno di un palazzo in una pittura a inchiostro su seta. Dinastia Qing

Interno di un palazzo in una pittura a inchiostro su seta. Dinastia Qing

Foto: Akg / Album

Il primo imperatore Qing si presentò già come erede legittimo dei Ming, come questi ultimi in possesso del mandato celeste (Tianming) che lo autorizzava a governare su tutto il Paese. Per questo l’ultimo monarca Ming fu sepolto con tutti gli onori e i banditi responsabili della caduta della dinastia furono perseguitati fino alla loro completa eliminazione. Consapevoli di non detenere una superiorità militare sufficiente e di non godere di un ampio appoggio popolare, i Qing si sforzarono di guadagnarsi l’appoggio delle élite cinesi. Perciò conservarono le istituzioni e i rituali dei Ming e continuarono a basare l’amministrazione sul corpo di funzionari istruiti, i mandarini, che lo stato reclutava attraverso il famoso sistema cinese dei concorsi.

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Nonostante gli sforzi di conciliazione, i manciù ricorsero anche a duri metodi di controllo e repressione. Per esempio, imposero a tutta la popolazione alcuni usi tipici dei manciù, e in particolare la pettinatura maschile, che prevedeva la parte frontale del cranio rasata e il resto dei capelli raccolto in una lunga treccia. Nelle prime fasi del loro regno, gli imperatori Qing non esitarono a ricorrere alla manodopera degli schiavi per la coltivazione delle terre delle bandiere, le unità delle truppe manciù. Successivamente i sovrani manciù misero in pratica un duro sistema di controllo ideologico, che aveva i caratteri di una inquisizione di stato, cosicché la minima critica verso il loro dominio veniva implacabilmente repressa.

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