«Pater meus et mater mea dereliquerunt me, Dominus autem assumpsit me». (Qualora mio padre e mia madre mi abbandonino, il Signore mi accoglierà). Le poche parole di un cartello affisso nell’atrio del brefotrofio – istituto dove si allevano i neonati illegittimi o abbandonati – di Milano, tratte dal Libro dei Salmi (27, 10), illustrano una condizione miserevole e un luogo di speranza. Per tutto il corso dell’Età Moderna, con una massima incidenza fra XVIII e XIX secolo, la problematica di carattere sociale più urgente che gli stati italiani furono chiamati a risolvere era quella dell’infanzia abbandonata. I due diversi codici penali in vigore nell’Italia post-unitaria – quello sardo, esteso a tutte le regioni del Paese, e quello toscano – prevedevano e punivano il reato di esposizione e abbandono d’infante, in maniera più decisa in caso di morte della creatura. In ogni caso la priorità fu sempre quella di salvare da una morte assai probabile il maggior numero di creature venute al mondo in contesti disagiati, dove di “bocche da sfamare” ce n’erano fin troppe. Bisognava altresì garantire un futuro alla moltitudine di “figli della colpa”, cioè a tutti quei bambini e bambine nati da unioni che non essendo consacrate dal matrimonio erano considerate illegittime. A seconda dei diversi contesti ci si riferiva a loro in diversi modi: “trovatelli”, “gettatelli”, “bastardini” o, ancora, “esposti” o “proietti”, a sottolineare l’atto dell’abbandono, del loro ritrovamento o del loro ricovero in appositi spazi d’accoglienza.
Antica ruota dell'Ospedale degli Innocenti di Firenze installata il 5 febbraio 1445 e attiva fino al 1875
Foto: Pubblico dominio
Disfare il figlio
Se il XIX è per eccellenza “il secolo dei trovatelli”, anche nei secoli precedenti ogni creatura accolta in un brefotrofio rappresentava un potenziale infanticidio sventato. Le cronache cittadine di tutta Italia recano notizie di corpicini esanimi ritrovati a galleggiare nei canali di scolo, nelle pubbliche latrine, abilmente celati tra i massi dei muretti a secco o nei fossi delle campagne, oppure gettati nottetempo ai bordi delle strade. Lo strangolamento e l’accoltellamento erano le modalità d’infanticidio più praticate. Ad esempio, durante il Carnevale del 1709 Lucia Cremonini, contadina di poco più di 20 anni, venne stuprata da un giovane prete nella pontificia Bologna. Al termine della gravidanza e di un parto affrontato in completa solitudine, Lucia decise di sopprimere il nascituro per mezzo di un coltello acuminato. Per tale reato nel 1710 fu condannata dalla Congregazione criminale a morte per impiccagione.
È molto frequente trovare nei processi penali custoditi negli archivi di tutta Italia storie di ragazze come Lucia, sul cui capo pendeva, pesante come un macigno, l’accusa di soppressione d’infante. Si trattava di donne sole, cioè senza marito, e in prevalenza contadine, filatrici, cameriere e sartine. Le loro gravidanze indesiderate erano spesso frutto di stupri in piena regola oppure di abboccamenti e amplessi più o meno occasionali che non essendo consacrati dal matrimonio erano malvisti e osteggiati. Una gravidanza affrontata senza una figura maschile di riferimento avrebbe irrimediabilmente compromesso l’onore della donna, che sarebbe stata esposta alla riprovazione generale. Il vicinato l’avrebbe etichettata “putta” o “fanciulla” dalla “cattiva” o addirittura “perduta fama”. Da ciò la decisione estrema di abortire con metodi tradizionali tramandati oralmente, per esempio mediante ingestione di erbe come la ruta o la sabina. Falliti tali tentativi non rimaneva che una strada: sopprimere e disfarsi di quei corpicini e dei segni della loro generazione prima che questi compromettessero le loro miserande vite.
'Gli orfani del marinaio'. 1800 circa. William Redmore Bigg
Foto: The Print Collector / Heritage Image / Cordon Press
Dati alle ruote
Ma un’alternativa all’infanticidio esisteva. Come scrive lo storico Adriano Prosperi «istituzioni nate spesso in secoli lontani dall’iniziativa di privati riuniti in confraternite e in associazioni devote […] si erano assunte il compito di accogliere e allevare i bambini abbandonati». Qui le madri avrebbero potuto ricoverare gratuitamente e anonimamente i propri figli indesiderati adagiandoli in appositi sistemi collocati sui muri esterni di ospizi e ospedali di tutta Italia. Si trattava della “ruota”: un congegno rotante che mediante uno sportellino consentiva di trasferire l’infante dall’esterno all’interno della struttura. Questa scappatoia caritatevole alla piaga dell’infanticidio a Bologna veniva offerta dall’ospedale dei Bastardini, anche se già nel ‘700 le regole erano cambiate. Come spiega Prosperi «per accedervi bisognava versare un contributo e impegnarsi di pagarlo regolarmente» e la ruota come sistema che garantiva l’anonimato e dunque la tutela di chi abbandonava venne abbandonata «per evitare che il ricorso all’ospedale diventasse una valvola di sfogo delle famiglie povere».
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo l’abbandono di bambini e bambine assunse un po’ dovunque i connotati di fenomeno di massa. La città di Firenze, per esempio, era passata dall’avere una percentuale di esposti del 14,3% sul totale dei battezzati nel decennio 1731-1740, a contarne ben il 42,8% nel decennio 1831-1840. La ruota dello Spedale degli Innocenti – ricovero istituito fra il XIII e il XIV secolo – “girò” fino al 1875 (una delle prime città a chiuderla era stata Ferrara nel 1867) e la sua abolizione determinò una netta diminuzione delle esposizioni, a riprova dell’efficacia del sistema. Come spiega la storica Francesca Rampinelli «il fatto che fino al 1923 [col “Regolamento generale per il servizio d’assistenza agli esposti” emanato dal primo governo Mussolini] non fu possibile decretare l’abolizione definitiva delle ruote su tutto il territorio nazionale, è un ulteriore dimostrazione di quanto fosse spinosa la questione degli esposti in Italia».
La ruota degli esposti in Santo Spirito in Saxia, Roma. 1639.
Foto: Pubblico dominio
Nella Santa Casa dell’Annunziata di Napoli l’esposizione dei bimbi sarebbe dovuta avvenire esclusivamente tramite la ruota. Infatti sul regolamento del 1862 dello stesso istituto si precisa che «gli esposti non potranno altrimenti esser ricevuti nello Stabilimento, se non passando per una buca quadrata di tre quarti di palmo, che dalla strada dell’Annunziata risponde ad una ruota». Era questo passaggio fondamentale che conferiva agli esposti lo status di “figli della Madonna” o “figli di Ave Grazia Plena” e che comportava alcuni privilegi, oltre alla speciale protezione della Vergine. Nonostante fossero illegittimi erano comunque considerati idonei al sacerdozio e al compimento del settimo anno di età i maschi sarebbero stati affidati al cosiddetto “albergo dei Poveri”, dove avrebbero appreso un mestiere. Le esposte acquisivano invece il diritto di ricovero a vita nella Santa Casa o, nel caso in cui fossero state affidate esternamente, avrebbero potuto di decidere di far ritorno all’ospizio in qualsiasi momento. Inoltre alle esposte sarebbe stata data una dote per un eventuale matrimonio o, al contrario, sarebbero rimaste a vita nell’ospizio in una condizione semi-monacale. Sta di fatto che, di giorno e di notte, la ruota napoletana lavorava a pieno regime. Come scrive la storica Giovanna Da Molin «al suono di una campanella la “rotara” di turno provvedeva a far girare la Ruota ed ad accogliere il nuovo ospite che, nei locali annessi al Torno, riceveva le prime cure e un cognome che, fino al primo Ottocento, era per tutti Esposito».
'Nutrice visita il suo bambino malato'. 1860 circa
Foto: Fine Art Images / Heritage
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Segni di speranza
La maggior parte dei bambini lasciati alla ruota di Napoli e poi ricoverati nell’ospizio portava con sé una sorta di segno di riconoscimento. Su una “cartula” venivano solitamente annotati il nome del bambino, la data di nascita, l’eventuale indicazione del sacramento del battesimo. Secondo Da Molin si trattava «di un elemento di riconoscimento che avrebbe consentito al piccolo di conservare la propria identità e ai genitori di riconoscerlo nel caso di una prevista, o almeno sperata, richiesta di restituzione». Altre volte le madri ricamavano o cucivano su pezzi di stoffa il simbolo dell’Agnus Dei, l’Agnello di Dio, che legavano al collo delle creature o li inserivano fra le vesti. Altre dotavano i propri bimbi d’immaginette di santi, crocifissi, medagliette, pietre di sale, monete, carte da gioco, stringhe e ditali. In altri casi erano gli stessi istituti, ospizi e brefotrofi ad apporre una medaglietta al polso o al collo dell’infante, recante un numero progressivo che avrebbe consentito una migliore gestione amministrativa e ridotto il rischio di frodi legate all’allattamento da parte delle balie.
Case infami
Dopo l’immissione nell’ospizio, i piccoli venivano di norma visitati e il loro stato di salute annotato in appositi registri. Da questo punto di vista superare il primo anno di vita in un brefotrofio italiano fra Ottocento e primo Novecento era cosa non da poco. Giovanna Da Molin scrive che solitamente «il destino degli esposti fu la morte e pochissimi ebbero la “fortuna” di sopravvivere per ad ingrossare la schiera degli emarginati». Un osservatorio privilegiato sulle cosiddette “morti in culla” nel primo anno di vita è offerto dal brefotrofio di Cosenza annesso all’ospedale civile. In dieci anni (1865-1876) su 7447 bimbi ricoverati 6107 morirono entro i primi tre mesi di vita per malattie (soprattutto morbillo e sifilide) e inedia, e nonostante i cospicui contribuiti annui dell’amministrazione provinciale. «Qui si ammazzano i bambini a spese della Provincia di Cosenza» tuonò il parlamentare Guglielmo Tocci dopo aver visitato nel 1878 quella che sulla stampa d’epoca è definita “casa infame”, “piccola necropoli” o, ancora, “casa della morte”. Il ricovero di un numero di esposti superiore a quello delle balie che avrebbero dovuto allattarli, insieme a una cattiva gestione del patrimonio dell’istituto portarono a quello che Tocci definisce «infanticidio previsto e organizzato a sistema». Un degrado senza fine quello del brefotrofio cosentino, descritto senza mezzi termini da Felice Migliori, medico e direttore dell’ospedale dal 1873 al 1913: «C’è da restare inorriditi nello scorgere in due tetre, umide e ammuffite stanzacce degl’immondi e angusti giacigli ricettare ognuno due balie dalla lurida persona, dalle mammelle esauste, con sei tenere creaturine, alcune morte, altre morenti a far loro da nido e sepoltura ad un tempo».
Sala allattamento del brefotrofio di Vicenza. 1920 circa
Foto: Pubblico dominio
Per saperne di più:
Modalità dell'abbandono e caratteristiche degli esposti a Napoli nel Seicento. Giovanna Da Molin, in Enfance abandonnée et société en Europe, XIVe-XXe siècle, Publications de l'École Française de Rome, 1991.
Forme di assistenza in Italia dal XV al XX secolo. Giovanna da Molin (a cura di), Forum, Udine, 2002.
Storie di abbandoni. I processi per esposizione d’infante a Firenze dal 1870 al 1900. Francesca Rampinelli, Le Lettere, Firenze 2000.
Dare l’anima. Storia di un infanticidio. Adriano Prosperi, Einaudi, Torino, 2005.
I peccati che vagiscono. Bambini abbandonati, ruotari e balie nella Calabria dell’Ottocento. Francesco Caravetta. Le Nuvole, Cosenza 2009.
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